Congetture & confutazioni
BALCANI,
LA TRAGEDIA INFINITA

di Enzo Bettiza
 

Il Kosovo non è più un problema sommerso: ormai è una piaga aperta nel cuore dei Balcani che, non cicatrizzata, potrebbe provocare alla lunga la disintegrazione della piccola Jugoslavia serbo-montenegrina di Milosevic, la spaccatura della Macedonia, il coinvolgimento in una crisi bellica circolare dell’Albania, della Bulgaria, della Grecia e della Turchia. Innescata nel 1981 con l’invio delle prime truppe di repressione serbe a Pristina, ricaricata nel 1989 con l’annullamento da parte di Belgrado dello status di regione autonoma, la bomba a orologeria del Kosovo, dopo diciassette anni di sorda compressione, è alfine esplosa nei brutali eccidi del marzo 1998. Sull’altopiano di Drenica gli specijalci serbi, gendarmi scelti e militarizzati, hanno massacrato in pochi giorni circa un centinaio di kossovari, fra cui vecchi, donne e bambini, col pretesto che si trattava di appartenenti a clan familiari dediti al terrorismo.

Di colpo l’Europa e il mondo, la cui attenzione fino a quel momento era stata soprattutto attratta e distratta dalle crisi bosniache, si sono trovati di fronte alla drammatica verità del Kosovo. Dopo quasi un ventennio d’invisibilità, di mimetismo forzato, il problema balcanico centrale emergeva dal silenzio e dal vuoto, che gli erano stati creati intorno, in tutta la sua aggrovigliata e tremenda irrisolvibilità. Si toccava con mano l’esistenza di un intero popolo segregato ai margini del continente europeo, non una minoranza nazionale bensì una nazione completa, una seconda Albania in cattività, abitata da 2 milioni di albanesi e da 100mila serbi. Ci si accorgeva che, in nome di questa infima minoranza slava e ortodossa, Belgrado aveva tolto alla schiacciante maggioranza kossovara e islamica tutto ciò che, con l’autonomia istituzionalizzata nel 1974, le era stato concesso dal regime di Tito: il governo locale, il Parlamento, l’università, le scuole inferiori, il controllo dell’ordine pubblico, perfino la fruizione delle strutture sanitarie pubbliche. Nasceva allora, per la forza stessa delle cose, un fenomeno paradossale mai visto nella storia europea: la costituzione, all’interno della Serbia, anzi della prigione serba, di uno Stato albanese parallelo e clandestino.

Questo Stato anomalo, costruito e funzionante nel sottosuolo, fondato sul principio della non violenza dallo scrittore kossovaro Ibrahim Rugova, doveva consentire agli albanesi di sopravvivere evitando, mediante la resistenza passiva, l’urto frontale della "pulizia etnica" scatenata dai serbi fra il 1991 e il ’95 in altre regione ex jugoslave. Al tempo stesso codesto Stato posticcio, quasi fantomatico, con le sue elezioni clandestine, il suo Parlamento parallelo, il suo governo presieduto dallo stesso Rugova, le sue aule scolastiche negli scantinati, le sue 14 facoltà frequentate da 16mila studenti, doveva essere realisticamente ignorato da Milosevic. La Serbia, infatti, già impegnata nelle guerre di Croazia e di Bosnia, non sentiva la necessità né avrebbe avuto la capacità d’impegnarsi in una terza guerra etnica nel Kosovo che la politica gandhiana di Rugova, comunque, manteneva calmo e appartato dai conflitti circostanti. Insomma, Milosevic e Rugova, il presidente visibile e il presidente occulto, il carceriere e il carcerato, sembravano aver concluso un tacito patto di non aggressione. La Serbia, che aveva tanti grattacapi, avrebbe finto d’ignorare quello albanese; e gli albanesi, immersi nei circuiti di uno Stato nazionale invisibile, avrebbero a loro volta finto d’ignorare la realtà della dominazione serba sul Kosovo, o perlomeno cercato di coesistere pacificamente con essa. Lo sblocco dello strano stallo, che obbligava i kossovari a fingersi indipendenti senza esserlo, andava rinviato al futuro.

Ora, il futuro è arrivato in forma violenta e improvvisa. È arrivato quando pochi se l’aspettavano, ed ha sconvolto da cima a fondo le basi politiche e psicologiche su cui poggiava la quiete fallace del Kosovo. La "strategia parallela" di Rugova, il Gandhi dei Balcani, centrata sulla passività di massa e sul compromesso, aveva agli occhi della maggioranza albanese una sua plausibilità profilattica finché duravano la mattanza bosniaca e l’immobilismo dell’Occidente: in quella situazione, un forte moto indipendentista kossovaro sarebbe stato estemporaneo ed esposto al rischio di una probabile catastrofe. Ma l’intervento militare occidentale in Bosnia, gli accordi di Dayton, la fine del martirio di Sarajevo, la sconfitta di Karadzic asserragliato a Pale e il declino della popolarità di Milosevic a Belgrado hanno in un paio d’anni mutato l’intero quadro balcanico. In tale contesto generale più mobile, più sbloccato, il risentimento nazionale antiserbo dei kossovari, soprattutto dei giovani, è riemerso con forza alla luce, mandando all’aria la politica dei piccoli passi sotterranei di Rugova.

Gli eccidi perpetrati dagli specijalci serbi in marzo hanno messo in evidenza non soltanto la crisi interna di Milosevic e la sua volontà di rifarsi ancora una volta, dopo gli anni Ottanta, una verginità nazionalista sulle pelle di due milioni di albanesi. Hanno messo soprattutto in risalto la crisi all’interno della maggioranza albanese. I più giovani e più militanti indipendentisti considerano la linea moderata di Rugova ormai superata dagli eventi. Il loro idolo non è più il Gandhi ma il Mandela del Kosovo: cioè lo scrittore sessantenne Adem Demaci, imprigionato per 29 anni nelle carceri jugoslave e laureato nel 1993 col Premio Sacharov dal Parlamento europeo, in riconoscimento della sua lunga battaglia per i diritti umani e civili. L’asse politico dei kossovari si è spostato, così, dall’utopia dello Stato nascosto e pacifico alla ricerca di uno Stato reale e riconosciuto dal mondo. Dopo i massacri di marzo, Rugova è stato addirittura condannato a morte dal tribunale di un neonato Esercito di liberazione nazionale, che in sostanza gli rimprovera la linea di compromesso e di resa davanti all’occupante serbo. L’attivismo battagliero di Demaci, che sembra non disdegni il contatto con i nuclei guerriglieri, appare più in sintonia con lo stato d’animo nervoso e insofferente di gran parte della popolazione.

Ma Demaci è tutt’altro che un cieco fanatico. È anche un accorto politico. Sa quindi benissimo che, oggi come oggi, la rivendicazione di un’indipendenza statale assoluta porterebbe il Kosovo alla guerra con la Serbia, forse militarmente sostenuta dalla Grecia e persino dalla Bulgaria. Il suo estremismo è perciò temperato dalla cautela e dal realismo. Egli, almeno per adesso, cerca di non provocare i serbi con la richiesta di una secessione impossibile, ma piuttosto di convincerli con la proposta di una confederazione fra la Serbia, il Montenegro e il Kosovo: tre entità che dovrebbero essere eguali e paritarie fra loro.

Non è soltanto con Milosevic che gli occidentali nell’immediato futuro dovranno fare i conti. Il cosiddetto "gruppo di contatto", di cui fa parte anche l’Italia, dovrà farli pure con le novità emergenti da un Kosovo che vede in declino la consunta politica di Rugova e in ascesa quella più aggiornata e più dinamica di Demaci.

 Enzo Bettiza


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1998