Feuilleton
LIBRO NERO E LIBRO PAGA
di Valerio Riva 

Ogni volta che si parla degli errori o degli orrori del comunismo, si leva un coro: ah, se avessimo potuto sapere prima! Ah, se ci avessero raccontato la verità! Ah, se su questi argomenti per cinquanta, sessanta, settant’anni non fosse stata posta la sordina o esercitata un’odiosa censura! Per fortuna che è caduto il muro di Berlino! Tutto questo, ci scommetto, puntualmente accadrà anche ora che le edizioni di Ideazione hanno deciso, direi molto opportunamente, di disseppellire dall’oblio certe aspre corrispondenze da Pietrogrado e da Mosca che ottant’anni fa un divo del giornalismo francese, Albert Londres, pubblicò sul quotidiano parigino Excelsior. Ma è poi vero che per sapere come stavano le cose s’è dovuto aspettare quasi un secolo? Che per scuoterci di dosso certi miti e certi riti c’è voluto tanto tempo? Ecco un tema che vale la pena di guardare un po’ più a fondo.

Il curatore del libro, Maurizio Griffo, giustamente mette a confronto le corrispondenze di Londres, che sono del 1920, con il famoso bestseller di John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, che apparve nel 1918. Nel 1918 regnava ancora, intorno ai fatti di Russia, un’atmosfera di fiducia e di speranza, e il reportage di John Reed poté apparire come l’opera di un giovane idealista americano che descriveva a caldo uno dei grandi tournant della storia dell’umanità. Quando invece Londres trasmetteva a Parigi le sue corrispondenze, tre anni ormai erano passati da quei giorni magici, e quel che si poteva vedere della rivoluzione d’ottobre erano soprattutto le macerie. Il 1920 era infatti l’anno della fame nera, con il potere sovietico ridotto dalla pressione delle armate bianche a un’esigua e incerta striscia di terra russa, tra Mosca e Pietrogrado; l’anno delle minestre di miglio e delle aringhe secche, di cui a pranzo si mangiava il corpo ed a cena la testa, che Boris Pasternak ha descritto così bene in certe pagine indimenticabili del Dottor Zivago e che ora per il lettore del libretto di Ideazione rivivono spietatamente in queste corrispondenze di Albert Londres, scritte con l’immediatezza del cronista dall’occhio attento e dalla penna facile.

Tuttavia, bisogna riconoscere che in quel 1920 la situazione nella Russia dei soviet era di per sé così brutta che farci sopra, come fa Londres, del humour noir, era un po’ come sparare sulla Croce rossa. Se n’era reso conto persino Lenin, che l’anno dopo infatti varò la Nep, la nuova politica economica, che avrebbe dovuto, almeno nei piani, riportare un po’ di mercato se non proprio, tout court, il capitalismo nel povero corpo della società russa, devastato da tre sciaguratissimi anni di comunismo all’impazzata.

Quella che Londres descrive, infatti, più che la bieca realtà del comunismo, è la sua sconfitta; il palese disastro di una teoria che in pochi mesi aveva dimostrato tutta la sua pericolosità e inefficienza. Non hanno tutti i torti quegli storici che sostengono che nel 1920 il sogno del comunismo era bell’e tramontato: sconfitto in patria dalla fame, dall’astrattezza e dalla disorganizzazione più ancora che dalla superiorità militare dei bianchi; e sconfitto all’estero dalla provata impossibilità di esportare la rivoluzione. Quel che sopravvisse a Lenin e si prolungò per oltre sessant’anni fu forse tutto tranne che comunismo, per lo meno comunismo ideale: fu dispotismo orientale, statalismo militarizzato, una riedizione in peggio del più bieco autocratismo zarista, quando non puramente e semplicemente una versione russa del peggior nazifascimo, antisemitismo compreso. Albert Londres, del resto, se ne accorge subito, quando descrive con grande efficacia da una parte il sorgere di quella "Armata del lavoro" come una forma organizzata di lavori forzati, e dall’altra l’accorrere festoso sotto le bandiere dei soviet dei peggiori figuri del vecchio militarismo zarista, reclutati per arginare la disfatta, in tutta fretta e senza alcuna esitazione, dall’azzimato Trockij, con lo stesso cinismo con cui tre anni prima il suo fido compagno Lenin, per fare la rivoluzione, aveva accettato i soldi dello Stato maggiore del Kaiser.

Griffo, secondo me, nasconde un po’ tra le righe il fatto che Londres non era poi del tutto quell’osservatore imparziale che cercava di apparire. Nel 1917 avrebbe voluto anche lui, come John Reed, correre in Russia a testimoniare de visu la catarsi rivoluzionaria. E per realizzare il suo sogno non aveva esitato a bussare alle casse del ministero degli Esteri francese, proponendosi come una specie di centauro mediatico: metà giornalista e metà agente provocatore, vaneggiando di mettere in opera a latere sabotaggi e diversioni controrivoluzionarie. Griffo sospetta, non senza ragione, che si trattasse di semplice millantato credito. Il Quai d’Orsay, del resto, nemmeno rispose. Ma questa mescolanza di giornalismo e di agitazione è stata un ircocervo che ha funzionato per quasi un secolo ogni volta che si è trattato di dar conto, da destra e da sinistra, del fenomeno comunista, sia in Russia che nel resto del mondo.

Anzi, più a sinistra che a destra: certi "esperti" di Terzo mondo, certi soi-disant "testimoni" del cambiamento, i vari Minà o Chierici, non meno dei Sidney Pollack, hanno continuato fino a ieri sera a concepire il lavoro del reporter come quello di un agit-prop di categoria extralusso. Se non proprio della spia: c’è voluta una candida serpe come Saverio Tutino per confessare proprio a me, tempo fa, a un tavolino del Café des Fleurs, che "quando si era corrispondenti di un giornale di sinistra in un Paese comunista e per riscuotere lo stipendio si era costretti a passare ogni fine mese allo sportello del locale ministero dell’Interno, era difficile stabilire dove finisse il mestiere del giornalista e cominciasse quello dell’informatore".

Del resto, che cos’era poi di diverso anche l’entusiasta e lirico John Reed, dipinto con tanto romanticismo da Warren Beatty? Certi documenti emersi negli ultimi anni dagli archivi sovietici testimoniano che l’idealista John Reed il 22 gennaio 1920 (dunque meno di tre mesi prima che Albert Londres arrivasse in Russia) aveva ricevuto in cambio de I dieci giorni che sconvolsero il mondo dalle mani di Iakov Hanecki, cassiere dell’incipiente Terza internazionale, un pugno di gioielli del valore di un milione e 8mila dollari, poco meno d’un miliardo in lire 1998. La somma compare in un resoconto redatto da una contabile del Narkomindel, cioè del ministero degli Esteri sovietico, diretto da quello stesso Cicerin che il nostro Londres avrebbe di lì a poco intervistato; e non è chiaro se quei soldi dati a Reed fossero in toto un guiderdone per l’operazione propagandistica da lui brillantemente svolta nel mondo col suo bestseller o dovessero servire anche in parte a finanziare tramite Reed una scissione nel movimento operaio statunitense.

Quel che si sa di certo è che la farina del diavolo andò in crusca: giunto in Svezia, il bel John Reed fu infatti fermato dalla guardia di frontiera e il suo tesoro interamente confiscato. Rimasto a secco, Reed dovette ritornare in Russia, e lì, colpito pure lui dal tifo che imperversava nel paradiso dei soviet, non gli rimase altro che morire. Dopo di che, fu sepolto con tutti gli onori sotto il muro rosso del Cremlino. Il miliardo l’aveva perso, ma in cambio si era guadagnato un posto per l’eternità (o quasi) tra gli eroi di una rivoluzione di cui aveva ideato il primo spot pubblicitario.

Maurizio Griffo cita un altro esempio di reporter dei giorni caldi della rivoluzione d’ottobre, l’inglese Arthur Ransome. Ma neppure il suo caso è molto diverso da quello di John Reed, anzi, forse è peggio. Giunto in Russia nel 1917 come corrispondente del Daily News, Ransome ebbe rapido e facile accesso alle alte sfere del potere bolscevico, al punto di fare innamorare di sé la Selepina, famigerata segretaria di Trockij. Così, presto, a fianco del suo legale lavoro giornalistico, mister Ransome poté inaugurare pure quello, più discreto ma anche più fruttuoso, di informatore della Ceka sulla politica di Sua Maestà britannica. Fu appunto a munifico compenso di questo secondo lavoro che il 24 ottobre 1919 il chargé d’affaires del Narkomindel, compagno Kantorovic, versò a Ransome, sempre per ordine di Cicerin, trentacinque diamanti e tre fili di perle (in mancanza di valuta forte, Lenin, all’epoca, pagava i suoi fidi con i gioielli confiscati al tesoro degli zar) per un valore totale di un milione e 39mila rubli-oro. Subodorata la cosa, il Daily News licenziò Ransome; lui, per rifarsi una verginità, traslocò da Mosca a Riga e da lì cominciò a scrivere per il Manchester Guardian che era più di bocca buona; senza, naturalmente, smettere di farsi pagare sotto banco e a peso d’oro dai cassieri di Lenin.

L’elenco di questi giornalisti a cachet potrebbe continuare all’infinito. Nel 1919, per condizionare l’opinione pubblica italiana e spingere i socialisti di Turati ad aderire alla Terza internazionale, Lenin mandò in Italia quel Carletto Ljubarskij che era stato qualche anno prima bibliotecario di Gorkij a Capri e che al congresso di Ancona era rimasto sedotto dall’oratoria di Benito Mussolini. Il solito cassiere Hanecki lo dotò di un valigino di valute varie - sterline, marchi tedeschi, marchi finlandesi, eccetera - del valore di un paio di miliardi attuali. Ljubarskij in parte se li spese lungo il viaggio (che durò tre mesi) da Pietrogrado a Milano, in parte se li fece confiscare dalla polizia austriaca. Giunto a Milano, si piazzò in casa di Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti!, e cominciò a scrivere ritratti all’incenso puro dei capi della rivoluzione d’ottobre. Sempre in attesa che da Mosca o da Berlino i suoi amici del Comintern gli facessero arrivare altri soldi. Secondo Mussolini, gliene arrivarono per un controvalore di cinque miliardi, che lui passò all’Avanti! per ricostruire la tipografia che era stata distrutta dalle squadracce fasciste. Secondo altri, non gli arrivò mai un bel nulla, e anche la famosa sovvenzione all’Avanti! non era che una gran balla. Serrati, comunque, a furia di aspettare e di pagargli i conti, cominciò a considerarlo uno scroccone, finché non ruppe con lui. Gramsci, Togliatti, Bordiga e Bombacci gli ronzarono intorno per due anni, nella speranza di poter almeno raccogliere le briciole. Poi, stufi, per avere i soldi per fondare il Pci a Livorno si rivolsero alla succursale della Terza internazionale a Vienna. Anni dopo, morto Lenin, Stalin ordinò al Kgb un’inchiesta amministrativa su Ljubarskij, al termine della quale lo fece fucilare.

Un miliardo a John Reed, un altro miliardone ad Arthur Ransome, cinque o sei miliardi a Ljubarskij, veri o falsi che fossero. E non sono che tre casi tra forse cento. Il lettore dello svelto libretto di Albert Londres si domanderà a questo punto come tali inauditi scialacquamenti potessero conciliarsi con il desolante spettacolo di miseria e di fame che descrive il giornalista francese. Cicerin che mangia pane e mortadella in un ex albergo ridotto a letamaio, con la luce tagliata e illuminato dalle candele, e intanto con l’altra mano profonde miliardi a dei mascalzoni di giornalisti di sinistra che li usano per far la bella vita in Europa o in America. Com’è possibile conciliare questi estremi? Che Londres abbia calcato un po’ troppo la mano? Che si sia lasciato affascinare dal colore locale o traviare dal proprio indubbio bollente spirito reazionario?

Non è detto. I regimi comunisti sono sempre stati così: quanto più i loro sudditi erano affamati, tanto più venivano pagati profumatamente i giornalisti e gli intellettuali, sia interni che esteri, disposti a raccontare che il marxismo faceva miracoli. Lo stesso Londres ne fornisce un esempio significativo, quando descrive il lusso in cui viveva, in quella stessa Russia preda della fame, il grande Massimo Gorkij.

Certo, qualche volta anche all’espiègle Albert Londres capita di rimanere invischiato nella pania e, partito per demolire la cattedrale comunista, di finire anche lui senza volerlo per suonar la grancassa del propagandista. Come quando racconta di esser dovuto andare fino a Copenaghen per riuscire a farsi dare da Litvinov il tanto agognato visto d’ingresso nella Russia dei bolscevichi, senza rendersi conto che, se proprio in quegli stessi giorni Litvinov si trova a Copenaghen, è perché lì aspetta che lo vengano a riverire tanto gli inviati di Lloyd George da Londra quanto quelli di Francesco Saverio Nitti da Roma, in feroce gara tra loro per strappare il primo trattato commerciale con Mosca. E non è detto che quel benedetto visto Albert Londres non l’abbia avuto semplicemente perché il furbo Litvinov si sarà detto: scriva quel che vuole sull’Excelsior, più se ne parla e più io potrò alzare il prezzo con i miei due pretendenti. Vinse alla fine Londra, come è noto, e Nitti restò a bocca asciutta. Si rifarà, quattro anni dopo, Mussolini, che evidentemente aveva su Lenin, Litvinov e Cicerin un maggior potere di convinzione.

Insomma, già da questi pochi casi si può intendere quanto l’informazione sul mondo comunista sia stata fin dall’inizio inquinata dal mercimonio. Torniamo alla domanda iniziale: è davvero stato necessario che cadesse il muro di Berlino perché si potesse cominciare a sapere la verità sul comunismo? Io credo che si sia sempre saputo tutto. Che gli analisti dei vari ministeri degli Esteri occidentali siano sempre stati in grado di conoscere con esattezza quale era la temperatura del mondo comunista. Un po’ più handicappato era semmai il lettore di giornali, a Parigi, a Londra, a Roma, a New York. Sia che pagasse il Quai d’Orsay o il Narkomindel, la Cancelleria tedesca o la segreteria della Terza internazionale, ci furono infatti sempre poche speranze di poter leggere sui giornali d’Occidente se non quello che volevano gli occulti finanziatori alle spalle dei vari corrispondenti.

Né è da credere che si sia trattato di episodi limitati al passato. La faccenda continua tuttora, anche dopo il crollo del muro di Berlino. Infatti, per non parlare di Cuba, certe saghe contemporanee, tipo l’epopea del Chiapas, o le campagne a pro di leggendarie perseguitate, tipo Baraldini, sono tuttora alimentate da generosi quanto misteriosi uffici cassa: forse un po’ meno prodighi d’un tempo, magari meno disposti a compensare in diamanti o collier di perle i servigi resi, ma non per questo meno efficaci come persuasori occulti.

Il massimo dell’efficienza e della generosità in questo senso si toccò, comunque, ai tempi di Chruscev. Bisognoso di appoggi esterni nella sua lotta per dar la scalata al potere supremo sovietico tra contendenti che erano squali di lungo corso, il falso bonario Nikita non badò mai a spese, rovesciando su giornalisti e scrittori occidentali, anche di gran nome, una vera e propria fiumana di quattrini. In questo, anzi, Chruscev fu persino più spendaccione di Stalin, che in verità in fatto di ricompense aveva un po’ il braccino corto. Tanto, il Piccolo Padre di strumenti di persuasione ne aveva a disposizione non uno ma due: dove non arrivavano i "biglietti verdi" (cioè i dollari dello zio Sam, vera incarnazione del famigerato oro di Mosca) a convincere i recalcitranti o i tiepidi potevano dare man forte, con esempi irrefutabili, i killers della Ghepeù. Certo, Nikita Chruscev di questo secondo mezzo di persuasione, per vari motivi, poté disporre meno: donde la necessità di far affidamento su più grande scala al potere di convincimento del vil denaro.

Se però i destinatari di tale favore si rivelavano impari al compito assegnato, erano rogne anche con Chruscev. Vorrei citare solo un episodio poco conosciuto. Non ne sapeva niente neanche il mio amico Nico Naldini, cugino e grande biografo di Pier Paolo Pasolini, a cui l’ho raccontato di recente. Ma la faccenda è certa. Nel 1957 il settimanale Calendario del Popolo ebbe l’idea di mandare in Russia a fare un grande reportage il poeta delle Ceneri di Gramsci. Pasolini era allora in grande favore presso il Pci: per lui i comunisti italiani avevano preso una vera e propria cotta. Pasolini andò, dunque, in Russia e scrisse per il settimanale un primo articolo molto bello. Era annunciato un seguito, che non venne mai. Perché? Perché Pasolini, con quel suo gusto di guardare con attenzione a ciò che dell’antico fondo contadino rimanesse sotto la raggelante crosta della modernità, anche nella patria del comunismo realizzato non aveva smesso di usare la sua lente favorita. Ed aveva descritto Mosca come un’immensa periferia formicolante di un esercito di mugiki, così di recente inurbati da rivelare fatalmente ad un occhio esercitato la loro vera, antica, agreste essenza. Era a suo modo (si badi bene) una descrizione amorosa, per lo meno nelle intenzioni. A Pasolini in Russia più che altrove (certo meglio che in Occidente) era sembrato di veder sopravvivere, sotto la patina artificialmente imposta dal regime, l’uomo antico che egli prediligeva.

Non l’avesse mai fatto! Quel reportage arrivò tanto rapidamente sul tavolo di Chruscev, che quando, pochi giorni dopo, una delegazione del Pci ad altissimo livello arrivò in Urss, capeggiata nientemeno che da Luigi Longo, Chruscev convocò bruscamente i compagni italiani al Cremlino e, agitando loro sotto il naso le pagine incriminate del Calendario del Popolo, chiese conto, furibondo, di come avessero potuto permettere ad un tale figuro di insultare l’Unione Sovietica, paragonando la sacra Mosca alla Garbatella! Longo, che era anche lui venuto a Mosca nella speranza di poter battere cassa, a quella sfuriata che non si aspettava rimase naturalmente con un palmo di naso.

Alla fine Chruscev, comunque, l’obolo al Pci lo versò lo stesso, Pasolini o non Pasolini. Ma non fu l’unico né l’ultimo caso in cui l’abituale devozione alla "casa madre" dei partiti comunisti occidentali fu messa a dura prova, tra la necessità di apparire "aperti" in patria e il bisogno di non mettere in pericolo il rubinetto dell’oro di Mosca.

Solo in Francia il Pcf trovò il modo di risolvere quell’angoscioso problema in maniera più efficiente. Il fatto è che a Parigi esisteva una banca sovietica che a Roma invece, per le particolari condizioni del nostro sistema bancario, non poté mai aprire i suoi sportelli. Così, in Francia, il problema della tutela degli interessi politici del Cremlino, invece che alle non sempre sicure abilità manovriere dei vari capi dei partiti comunisti "fratelli", fu drasticamente risolto affidando il potere di convincimento sul mondo intellettuale, tout court, ai cassieri della Banque de l’Europe du Nord. Della quale, non per niente, era vice-presidente (ed effettivo direttore generale) il cugino di quello stesso Boris Ponomarëv che a Mosca sovrintendeva ai rapporti "ideologici" con i Pc al di qua della cortina di ferro.

Le banche, anche quelle sovietiche, sono note per la loro discrezione. Il che, nel caso specifico, andava a vantaggio di tutti: degli intellettuali occidentali che si beccavano la grana al coperto del segreto bancario, dei Pc "fratelli" che non dovevano negoziare, talvolta penosamente, e dei signori del Cremlino, che non erano costretti ogni volta a ripetere la scenataccia di Chruscev a Longo.

Disgraziatamente, però, anche il segreto bancario francese ha un limite. Quando, alla fine degli anni ’70, un cane da tartufi di particolare buon fiuto, lo scrittore Jean Montaldo, mise fortunosamente le mani sui tabulati della banca sovietica a Parigi, scoprì tra i correntisti i più bei nomi della cultura francese. E li spiattellò in pubblico, facendo fare a molta gente delle figure davvero barbine. Faccio un esempio tra mille: presso la Banque de l’Europe du Nord, il filosofo Jean-Paul Sartre aveva a disposizione il conto corrente numero 03109-8.

A questo punto mi viene un dubbio. Che sia stata l’assenza di una banca simile in Italia la ragione ultima che ci ha impedito di avere anche noi dei filosofi marxisti della levatura e della fama di Jean-Paul Sartre? Chissà.

Valerio Riva


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1998