Congetture & confutazioni
IL RISVEGLIO
DI UN PAESE ANORMALE
di Domenico Mennitti 

Le consultazioni elettorali non si celebrano mai inutilmente. Anche quelle che si definiscono "parziali", perché investono una quota poco significativa di elettori, esprimono un valore indicativo dell’umore degli italiani. Le prove amministrative non vanno enfatizzate oltre la giusta misura, ma è un errore svilirle al rango di un test insignificante, privo della capacità di indicare una tendenza. Dal turno elettorale che si è svolto tra maggio e giugno, la prima occasione che gli italiani hanno avuto per esprimersi dopo l’euforia tutta governativa per l’ingresso nel sistema della moneta unica europea, è emersa una grande diffidenza nei confronti del governo e della coalizione di maggioranza. Peraltro non è un dato sorprendente, perché era già rilevabile da una serie di altri indicatori. Il primo, e forse il più importante, è che l’Ulivo, dopo il successo di due anni fa, non ha mai guadagnato consensi oltre quelli emersi a fatica dalle urne. Berlusconi, dopo il 27 marzo del 1994, sullo slancio della vittoria elettorale guadagnò circa dieci punti nella fiducia, se si vuole nella speranza degli italiani. Prodi no. L’Ulivo è rimasto sempre allo stesso punto, perennemente in bilico fra la conferma della risicatissima maggioranza e sporadici sorpassi da parte del Polo.

C’è un’altra osservazione. Il consenso degli italiani all’Ulivo si è ridimensionato ogni volta che il Polo ha esercitato con forza il ruolo dell’oppositore. Valga per tutti il riferimento alla manifestazione di protesta contro la legge finanziaria nel novembre del 1996, quando vennero in evidenza due fenomeni mai sino ad allora osservati così palesemente: l’accresciuto peso politico del ceto medio e la sua definitiva opzione per la democrazia competitiva, maggioritaria. Non si può dire che Polo e Ulivo abbiano colto questi significati e li abbiano tenuti in gran conto. L’averli disattesi, però, è stato causa del lungo impasse che sta precipitando il Paese nella crisi politica e costituzionale, bene evidente con il fallimento della Bicamerale.

Faccia l’Ulivo l’analisi delle proprie insufficienze. Forse non è il caso di assumere alla base di essa la quasi disperata affermazione di Paissan: "La sbornia è finita", perché è stata "sbornia" di potere, non di fiducia e di consenso. Lo stesso successo elettorale del 1996 fu prevalentemente l’effetto degli errori del Polo, che concorse molto ad esaltare le emergenze che fanno del nostro un Paese anormale.

In Italia, come evidenziamo nell’ampia sezione che in questo fascicolo dedichiamo all’argomento, il ceto medio è ormai diventato dominante. Esteso nelle dimensioni, complesso nella composizione, eterogeneo nelle derivazioni, esso è oggi un’entità compatta, ha maturato coscienza della propria forza e l’ha posta alla base di una scelta politica irreversibile: il cambiamento. Umberto Eco, che di recente si è esercitato a discreditare questo "popolo", non se ne rende conto, ma il ceto medio in Italia non è solo una categoria di cittadini attenti ai propri interessi, ha spostato in avanti l’orizzonte facendosi carico anche delle esigenze generali della società e riesce ad esprimere importanti "valori". Soprattutto in politica, dove ha rivoluzionato la domanda degli elettori alla classe dirigente, chiamandola a definirsi sul presente, a prospettare idee e progetti per governare le sfide del nostro tempo.

Mino Fuccillo ha ammesso su L’Unità che nel ’94 Berlusconi vinse perché riuscì ad interpretare la richiesta di nuovo, e noi aggiungiamo che due anni dopo perse perché non riuscì ad interpretarla con lo stesso spirito. Ma fu un grossolano errore attribuire al successo dell’Ulivo il significato della conquista irreversibile del potere, perché nella verità quel ceto medio, appunto maggioritario nel Paese, non può essere rappresentato da una coalizione nella quale coabitano presunti rivoluzionari e strani conservatori e, soprattutto, dominano i democratici di sinistra, dei quali non sottovalutiamo gli sforzi di evoluzione dalla vecchia matrice comunista, ma che prospettano un modello di civiltà non compatibile con lo spirito liberale che alimenta l’esigenza di modernizzazione e di cambiamento.

Il ruolo sovradimensionato dei democratici di sinistra non deriva dalla loro reale incidenza sulla società italiana; è piuttosto il frutto del "sistema delle emergenze" che ostacola il nostro cammino verso la normalità. La più forte emergenza resta l’amministrazione della giustizia penale, che ha costituito prima un elemento di accelerazione e poi una interferenza rallentatrice del processo di cambiamento. Alcune procure hanno dato la spallata decisiva alla prima Repubblica, ma coltivano la pretesa di condizionare l’evoluzione politica della seconda. Questo elemento di anormalità ha drogato gli andamenti elettorali, producendo fenomeni non definitivi e però produttivi di gravi ritardi. L’occupazione del potere che l’Ulivo sta realizzando con scientifica cura è destinata a produrre guasti, che potranno essere riparati pagando pesanti costi e subendo tempi più lunghi di recupero. Di qui l’esigenza che il Polo non si adatti a comportamenti che disattendano il mandato ad esso attribuito dal responso elettorale: svolgere con responsabilità e determinazione il ruolo di opposizione, proponendosi come forza alternativa per la guida del Paese.

C’è stata una stagione nel corso della quale questo ruolo è rimasto appannato, ed alla contrapposizione chiara e trasparente si è sostituita la tentazione di cercare intese ad ogni costo. Sia chiaro: in politica il dialogo non s’interrompe mai e ci sono materie sulle quali è utile trovare punti mediani d’incontro. Ma ci sono anche scelte che fanno la differenza e sulle quali la mediazione è impossibile. Anche inopportuna, per via delle preoccupazioni e delle diffidenze che si ingenerano negli elettori. Berlusconi si è dichiarato deluso da D’Alema: è stato un errore pensare che potesse non deluderlo. La classe dirigente, alla quale - se non per anagrafe, certamente per cultura ed esperienza - D’Alema appartiene, ha già giocato altre partite sulla riforma costituzionale e le ha tutte perdute. E non ha niente di nuovo da proporre, come dimostra l’ossessivo ricorso alla Commissione Bicamerale, strumento che ci auguriamo in futuro venga scartato almeno per ragioni scaramantiche, attesi i ripetuti insuccessi.

Siamo grati a Berlusconi perché ha fatto saltare il tavolo prima che fosse troppo tardi; altrimenti o avremmo perso tempo nel lungo itinerario parlamentare alla ricerca di un accordo impossibile, o ci saremmo ritrovati con una riforma così equivoca e pericolosa da far rimpiangere il vecchio assetto. Il consenso che Berlusconi ha registrato (e che in una certa misura si ritrova anche dentro il risultato elettorale dell’ultima tornata amministrativa) gli indica due strade da seguire: la prima è di non perdere più l’iniziativa contro un governo al quale gli italiani guardano con molta diffidenza, la seconda è di portare a compimento il processo di costruzione dell’area moderata.

Sull’intenzione di intensificare l’attività di opposizione sembra di poter stare tranquilli: le dichiarazioni seguite alle elezioni non lasciano spazio ad incertezze. Sulla costruzione dell’area moderata vale svolgere qualche riflessione, perché non mancano buone intenzioni, ma neppure tentazioni concorrenziali e divaricate interpretazioni. Il problema che affligge la società politica oggi, e che rende difficile l’uscita dalla fase di transizione, è la mancata esemplificazione dello schieramento dei partiti. Gli avversari del maggioritario enfatizzano questo dato e sostengono che la riforma elettorale ha conseguito risultati opposti a quelli prefissati. Ma la partita si gioca proprio sulla capacità di superare la vecchia organizzazione frammentata dei partiti, ai quali aderisce una quota ormai insignificante di cittadini, per dar vita a grandi aree nelle quali culture anche diversificate possono convergere per costruire progetti politici unitari.

Questa operazione per l’Ulivo è quasi impossibile, almeno in tempi brevi; sulla sponda opposta, al contrario, esistono obiettive condizioni favorevoli a realizzarla, perché c’è una base comune nella quale gli elettori si riconoscono. Allora il problema vero è di comprendere nell’aggregazione quanti ci stanno dentro per scelta politica e culturale, anche se storie personali e vicende elettorali hanno determinato posizionamenti differenziati. Dentro questo progetto ci sono molti più italiani di quelli che oggi votano per il Polo e bisogna operare perché essi si schierino insieme, difendano insieme gli interessi ed i valori nei quali credono.

L’Ulivo non si sconfigge cercando di disaggregare quanto dall’altra parte è stato aggregato, piuttosto anticipandolo nell’iniziativa politica, bocciandolo nell’attività di governo.

Ancora una volta (lo testimoniano i dati recenti, perché anche una buona quota di leghisti ha votato disattendendo le direttive di Bossi) gli elettori sono più avanti dei partiti, più consapevoli degli eletti, ed hanno per proprio conto già costruito una grande area moderata cementata da un comune sentimento di libertà, da una grande speranza di portare l’Italia in Europa perché viva però da protagonista la nuova dimensione.

Domenico Mennitti


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1998