Dall’inizio di giugno gli uffici del grattacielo di
Francoforte che ospitano la Banca centrale europea sono in piena attività.
Wim Duiseberg ha già preso possesso del nuovo regno monetario. Ed è per
questo che più di qualcuno ha interpretato la relazione annuale di Antonio
Fazio come il testamento di un governatore che sta per perdere gran parte
dei suoi poteri. Era l’ultima occasione per il numero uno di Bankitalia di
richiamare governo e parti sociali ai loro impegni, ha fatto notare il
premio Nobel Paul Samuelson. Il signore della lira, il sovrano assoluto del
costo del denaro, insomma, deve rassegnarsi a passare la mano. Sarà
Francoforte a dettare le linee della politica monetaria. I fatti sono
questi, ma liquidare il peso "politico" del governatore con un
tratto di penna può essere un errore, significa guardare troppo lontano,
dimenticando il futuro più o meno prossimo. Lo stesso Fazio fa capire che
la Banca d’Italia ha ancora molto da dire e la sua relazione non è un
atto d’addio, ma la conferma di come l’uomo di Alvito ha interpretato il
suo ruolo da quando siede al piano nobile di palazzo Koch: essere la
coscienza critica del governo, e in qualche modo bilanciare le illusioni o
le promesse di chi risiede a palazzo Chigi. Negli ultimi anni, e con la
corsa verso l’euro, questa funzione è diventata ancora più evidente,
dando vita ad una situazione quasi paradossale. L’Italia, infatti, si è
ritrovata con un ex governatore, Carlo Azeglio Ciampi, come super-ministro
dell’Economia, costretto, per risanare i conti pubblici, a puntare tutto
su una politica fiscale da "lacrime e sangue" (che penalizza lo
sviluppo), una politica economica restrittiva, che ha lasciato sguarnito il
fronte dell’occupazione. In più, Ciampi ha dovuto fare i conti con gli
equilibri politici del governo (Rifondazione), ed ha dovuto così limitare
il suo spazio di manovra sul welfare, vale a dire sulla spesa pubblica. La
riforma del sistema previdenziale e di quello sanitario è rimasta nel limbo
delle buone intenzioni. E’ toccato così al governatore in carica,
personaggio molto attento al sociale, sponsorizzare una politica di sviluppo
e portare al centro degli interessi pubblici l’emergenza occupazione, che
in Italia significa, in gran parte, Mezzogiorno. Da qui, il paradosso.
Ed è su questi temi (lavoro e questione meridionale) che
si sta giocando una partita centrale per il nostro Paese. Una partita che
contrappone non solo maggioranza e opposizione, sindacati e Confindustria,
ma anche due lobbies storiche della Banca d’Italia, quella laica e
azionista di Ciampi e Padoa Schioppa (a Francoforte) contro quella
cattolica, che ha come suo campione Fazio, ma che in seconda fila schiera,
in posizione un po’ ambigua, anche il ministro degli Esteri Dini
(l’unico nel governo a condividere la relazione del governatore).
Una vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera del 31
maggio 1998 mostra Fazio che espone, in diretta televisiva, la sua relazione
annuale, mentre dall’altra parte del video due telespettatori, seduti sul
divano, esclamano: "Finalmente c’è un leader
dell’opposizione". Al di là della battuta, che relega il governatore
in un ruolo "politico" che non gli appartiene, il quadro
tratteggiato da Giannelli centra un concetto: la Banca d’Italia, su lavoro
e occupazione, è riuscita a coinvolgere l’opinione pubblica,
l’opposizione no.
La "politica della formica", che ha bilanciato
il canto troppo ottimista delle cicale, è diventata un marchio di fabbrica.
Il governatore, con la sua prudenza, che gli avversari chiamano
"lentezza", ha svolto un ruolo di primo piano nella stagione
dell’approccio all’euro. Ma su un punto è stato più che chiaro: la
moneta unica non è l’approdo finale, non è né il paradiso né il
nirvana. È qualcosa di molto più prosaico, una sorta di purgatorio, un
porto intermedio da cui ricominciare a remare.
Qualche mese fa lasciò capire che nutriva dubbi sul
comportamento della classe politica italiana dopo l’ingresso nell’Unione
economica e monetaria. Temeva che il rigore finanziario e la forte tensione
degli ultimi anni si sarebbero improvvisamente allentati. La solita
abitudine di guardare il bicchiere mezzo vuoto? Può darsi. Ma le
preoccupazioni di Fazio hanno già un nome: si chiamano "fase
due".
La fase due rappresenta il nuovo orizzonte della classe
politica italiana, quella che si pone alle spalle l’euro e sbandiera una
nuova (anzi antica) battaglia, vale a dire la questione meridionale, che poi
significa anche e soprattutto occupazione. Battaglia, lo sanno bene anche in
via Nazionale, indispensabile, ma che va affrontata senza abbandonarsi alla
fiera della spesa pubblica. Ed è proprio su questo punto, fedele al suo
ruolo di guardiano del risanamento, che il governatore chiede risposte al
governo. Con quali mezzi s’intende finanziare il rilancio
dell’occupazione e lo sviluppo del Mezzogiorno? Con quali strumenti
legislativi? Come garantire che il denaro impiegato dia i risultati
previsti?
"In effetti - rivela un alto funzionario di
Bankitalia - c’è il timore che la maggioranza di governo affronti il
problema con armi obsolete e con un atteggiamento mentale poco coraggioso, o
comunque incapace di ripensare i luoghi comuni della tradizione sociale del
nostro Paese. Il mercato del lavoro deve essere nazionale. I contratti
devono essere, per quanto possibile, a tempo indeterminato. Il licenziamento
è un trauma. La resistenza a spostarsi dal proprio paese, o al massimo
dalla propria provincia, è una sacrosanta esigenza".
Le misure adottate fino ad ora (si pensi ai patti
territoriali) sono state, in effetti, appesantite da molte cautele. In più,
il piano per il lavoro presentato dal governo resta spesso nel vago,
tralasciando di indicare i mezzi necessari per centrare gli obiettivi
prescritti. Come ricorda Fausto Carioti in un articolo pubblicato sul
precedente numero di Ideazione ("Ma sul lavoro l’Italia resta
indietro"), "nel corso del 1998 il ministero del Lavoro conta di
garantire opportunità di formazione-lavoro e di work experiences per un
milione e 70mila giovani. Manca, però, ogni indicazione su come sia stata
elaborata una cifra così elevata e, cosa ben più importante, con il
concorso di quali attori e quali misure possa essere raggiunta. Manca, in
altri termini, in questo ed altri punti, una strategia integrata a livello
di sistema-Paese".
La Banca d’Italia non ha mai cercato lo scontro frontale
con il governo. Non rientra nei suoi compiti istituzionali. Ma non si può
negare che Fazio, in tutti i suoi interventi, abbia mostrato un
atteggiamento piuttosto freddo e distaccato, preferendo sorvolare su tutte
le questioni chiave della politica sul lavoro, dalle 35 ore all’Agenzia
per il Mezzogiorno.
Vale la pena di ricordare almeno un episodio, non solo
perché abbastanza recente, ma soprattutto perché estremamente indicativo.
Il 22 aprile Fazio si presenta a Montecitorio e davanti alle commissioni
Finanze di Camera e Senato, in seduta comune, commenta pagina per pagina il
Documento di programmazione economica e finanziaria per il triennio
1999-2001. Parla di pil e debito pubblico, ricorda che la "riduzione
della pressione fiscale e quella della spesa corrente appaiono accettabili
nell’immediato, ma di entità modesta in una visione strutturale".
Ritorna sul vecchio discorso della previdenza, calcando la mano: "Per i
prossimi tre anni siamo in linea, ma dopo, sul medio periodo, mi pare che
non ci siamo. Non neghiamo l’evidenza: siamo la popolazione che invecchia
di più al mondo. Guardiamoci in faccia: questo è un sistema fatto per un
rapporto di due lavoratori per ogni pensionato. E invece la relazione è di
uno ad uno".
Fazio, insomma, seziona per bene il Dpef, ma ne lascia
intatta una parte. Non dice neppure una parola su occupazione e Mezzogiorno.
Silenzio-assenso o desiderio di non entrare in rotta di collisione con
palazzo Chigi su un tema dove non vede possibilità di dialogo o mediazione?
Fonti della Banca d’Italia già indicavano la seconda ipotesi. E
aggiungevano: "Più che soffermarsi su quanto il governatore ha detto,
bisognerebbe riflettere su ciò che non ha detto. Lo sviluppo del
Mezzogiorno passa per strade, a questo punto, se non opposte, decisamente
divergenti".
La conferma è arrivata il 30 maggio. La relazione finale
di Fazio concede poco a chi si riconosce il merito di aver portato
l’Italia al traguardo dell’euro. Prodi lo ringrazia per i suoi consigli,
ma poi si lascia scappare: "Certo, un po’ di entusiasmo sul risultato
raggiunto, e sui meriti di questo governo, poteva anche lasciarlo
trasparire". Dal suo punto di vista non ha tutti i torti. A chi spetta
il merito del risanamento? Ecco la risposta di Fazio: "I progressi
compiuti nell’ultimo anno sono da ricondurre all’aumento, di circa 2
punti, della pressione fiscale e ad altre misure aventi in parte natura di
rinvio di spese. Alla riduzione del disavanzo ha contribuito la diminuzione
della spesa per interessi, correlata con l’abbattimento dell’inflazione,
con la favorevole congiuntura monetaria internazionale, con lo stesso
aumento dell’avanzo primario e con la prospettiva di partecipazione
all’Unione monetaria".
Insomma, il governo Prodi ha fatto la sua parte (con tasse
e rinvii di spesa), ma non ha fatto tutto (il calo degli interessi e
dell’inflazione sono affari di via Nazionale). E la pressione fiscale?
"In Europa - rileva il governatore - è rimasta intorno al 41 per cento
fino ai primi anni Novanta, per poi portarsi nel 1997 intorno al 43 per
cento. In Italia è salita in tredici anni di 13 punti percentuali, fino al
44 per cento. Dopo una flessione nel triennio 1994-96 [governi Berlusconi e
Dini, ndr] è tornata lo scorso anno sulle punte massime raggiunte in
precedenza". Il discorso sulle tasse è centrale. L’Europa è stata
raggiunta, ma a quale prezzo? E chi lo paga? Il tasso di disoccupazione al
Sud è al 22,4 per cento (contro il 7,5 del Centro-Nord), sei giovani
meridionali su dieci sono senza lavoro. Questo è il fronte, bisogna
decidere che fare. Secondo il Dpef presentato dal governo l’occupazione
crescerà di 600-700mila unità. Il numero uno di Bankitalia riduce le
stime: non più di 300mila.
La ricetta di Fazio sembra infrangersi contro lo strumento
principe della politica sindacale: la contrattazione nazionale. Anche se il
fronte Cgil-Cisl-Uil appare (molto) meno compatto. La flessibilità resta
una bestemmia per Cofferati e Larizza, mentre la posizione di D’Antoni è
più aperta alle "nuove frontiere".
Già nel giugno del 1993, governatore da pochissimo tempo,
Fazio aveva proposto di "andare oltre l’illusione dei salari
uguali". "Vanno ricercati - scrive nella sua relazione dedicata
all’obiettivo occupazione - i princìpi e le regole atti ad evitare
eccessi di conflittualità, assicurare flessibilità nell’impiego e nel
costo del lavoro, in relazione alle condizioni generali dell’economia,
allo stato delle imprese, alle situazioni regionali. Una diversificazione
dei costi del lavoro non necessariamente implica nelle aree meno favorite,
dato il più basso costo della vita, un minore reddito reale rispetto al
resto del Paese".
Non è del tutto corretto parlare, come in tanti hanno
fatto, di gabbie salariali per il Mezzogiorno. La ricetta del numero uno di
Bankitalia è meno rigida e non si limita a suggerire "paghiamo di meno
il lavoro al Sud, così gli imprenditori investono lì invece che
altrove". E pensare di trasformare una parte dell’Italia in una
specie di Sud-Est asiatico è quasi fantapolitica. La cultura economica di
Fazio non è fatta solo di numeri. Dietro il suo rigore c’è sempre una
dimensione etica, morale, l’idea persistente del "bene comune".
Il Mezzogiorno di Fazio, visto con gli occhi di un
cattolico nato e legato alla Ciociaria, può sconfiggere il cancro delle
clientele e dell’assistenzialismo solo attraverso una rivoluzione
culturale, che trova le sue radici nella dottrina sociale della Chiesa,
riscopre la lezione economica di Giuseppe Toniolo (dipendenti e imprenditori
non avversari, ma soci nella stessa scommessa) e guarda con interesse al
fenomeno del Nord-Est, ma soprattutto tende a trasformare il lavoratore
dipendente in un imprenditore che offre al mercato il proprio
"mestiere" (chi è più bravo, guadagna di più); il modello della
piccola e media impresa come punto di partenza del nuovo capitalismo
italiano. Senza però sottovalutarne i limiti. Il miracolo del Nord-Est si
sviluppa anche grazie alla lira debole - vantaggio che scompare con l’euro
-, alla posizione geografica, alle infrastrutture e ad uno Stato più
defilato.
Quello che resta valido anche al di là dei confini
veneti, secondo Fazio, è il modello delle relazioni industriali. Nella
contrattazione entrano in scena nuove variabili. Se le condizioni generali
dell’economia non sono buone, come nel caso di alta inflazione, si può
anche scegliere di congelare, per un certo periodo di tempo, i salari (come
è già avvenuto con il patto del lavoro del ’93).
Ma lo stesso discorso si può fare per aziende in crisi
(un modo per far condividere al lavoratore i rischi d’impresa, più soldi
se va bene, meno se va male) o in aree a forte disoccupazione.
"L’Italia - scrive Fazio in Razionalità economica e solidarietà
(Laterza, Bari) - sta vivendo un periodo di forte esposizione
internazionale. Tutto ciò è il risultato delle piccole imprese industriali
di soddisfare in modo flessibile la domanda, adattando la produzione alle
mutevoli esigenze della clientela, adeguandola rapidamente all’andamento
ciclico. Ma tale successo è il frutto anche di relazioni industriali più
cooperative nella gestione dell’orario di lavoro e nella fissazione dei
salari.
A fronte di questi connotati positivi vi è un tratto di
debolezza costituito dalla difficoltà a crescere e a svilupparsi oltre
certe soglie dimensionali. Mancano le economie di scala e talora è
difficile imporre nuovi prodotti, restano in molti casi precluse le
opportunità offerte dalle nuove tecnologie".
La flessibilità dei salari, comunque, non basta e non può
bastare. Come non può bastare, da sola, la ricerca di una nuova frontiera
del mercato del lavoro, quella che punta ad abbattere tutte le cittadelle
dei privilegi, di chi sonnecchia all’ombra del posto fisso. Part-time,
lavoro stagionale o in affitto sono strumenti che possono aiutare chi è in
cerca di prima occupazione a lasciare il limbo dei "senza
esperienza", ma non risolvono una delle questioni principali: il costo
del lavoro è troppo caro e non per colpa dei salari netti. La Banca
d’Italia continua a rimbrottare il governo sulle tasse, troppo alte, e
sugli oneri sociali, troppo gravosi per aziende e dipendenti. In nessun
Paese del mondo, specialmente in quelli in via di sviluppo, vi è un
prelievo del reddito d’impresa superiore al 50%. "Il rilancio
dell’attività produttiva - spiega Fazio - richiede la realizzazione di un
contesto favorevole allo svolgimento dell’attività economica, più
elevati livelli di competitività, una riduzione significativa della
pressione fiscale e un utilizzo più flessibile dei fattori di
produzione".
Il governatore non parla di Galles, Irlanda e Catalogna
(regioni d’Europa che dovrebbero essere in competizione con il nostro
Mezzogiorno), ma forse ci pensa. In queste zone, per diverse attività (come
l’agro-industria), l’aliquota del 30-32% è ridotta al 10%. Ci sono
agevolazioni per chi investe e per chi assume (soprattutto nel turismo) e
per i servizi finanziari internazionali. Il tutto con l’approvazione
dell’Unione europea, che ha consentito la proroga per alcune facilitazioni
al 2006 e per altre al 2010.
Il confronto con il Sud italiano semplicemente non esiste.
La scommessa di Fazio, che da tempo svolge il doppio ruolo di carabiniere
dell’inflazione e di surrogato dell’opposizione parlamentare, è di
spingere il governo a coniugare il risanamento dei conti pubblici con lo
sviluppo e l’occupazione. Come? La risposta, che il governatore da tempo
va ripetendo, è banale (perlomeno dal punto di vista macroeconomico; meno,
molto meno dal punto di vista politico, con la resistenza di Rifondazione e
sindacati): compiere scelte di fondo, il che poi significa mettere mano al
sistema previdenziale e al welfare in genere. Cioè agire sulle spese e non
sulle entrate. Finora, su cento miliardi di manovre e manovrine, oltre due
terzi hanno riguardato misure temporanee e, comunque, non strutturali.
La conseguenza di tutto ciò è quella che Fazio definisce
la "laguna del sommerso". "Il livello eccessivo dei costi del
lavoro - ha ricordato da Napoli a fine gennaio - crea aree di lavoro nero o
grigio, impedisce alla maggioranza dei giovani di entrare in un processo
produttivo regolare. Tutto ciò, connesso con l’alto carico fiscale, dà
luogo ad evasioni di entità abnormi. Credo che al 95% si tratti di lavoro
onesto. Ma è un problema che dobbiamo risolvere".
L’Istat ha individuato nel 1996 circa 10 milioni di
persone che lavorano al nero, pari al 37% del totale. Di queste, più di 7
milioni svolgono un doppio lavoro. Nel solo Mezzogiorno l’incidenza del
lavoro non regolare è pari al 41% dei lavoratori, contro l’11,5% del
Centro-Nord. "Il sommerso - si legge in uno studio della Banca
d’Italia - sembra avere soprattutto un costo generazionale. L’ingresso
nel mondo produttivo è stato ritardato e una massa di giovani vive ancora
in una situazione precaria, instabile e continua a scontrarsi contro il muro
di una legislazione disegnata per una situazione sociale diversa, più
statica, e sorretta da una presenza forte dello Stato nell’economia".
La battaglia di Fazio per la riduzione degli oneri
sociali, e contro la contrattazione collettiva, si scontra con la politica
dei sindacati (almeno una parte). "Il governatore - ha dichiarato
qualche tempo fa Sergio Cofferati ad un convegno del Cnel sul Mezzogiorno -
non nasconde il suo desiderio di frammentare il sindacato azienda per
azienda. Non si occupi di cose che non lo riguardano. Se vuole davvero
aiutare il Sud, pensi a rendere meno caro il costo del denaro".
L’accusa è ricorrente. Ed è proprio su questo fronte che la Banca
d’Italia ha dovuto difendersi da parecchi attacchi.
Fazio sui tassi ha sempre tenuto la barra ferma. Due i
suoi princìpi. Primo, non consentire ai governi di risanare i conti
pubblici solo con la leva del minor costo del debito, proprio per spingere
verso le riforme strutturali. Secondo, non dare più di quello che
l’inflazione consente. Solo con l’ultima riduzione del tasso di sconto,
il 21 aprile, il governatore si è lasciato scappare una promessa:
"Adatterò gradualmente i tassi ufficiali ai livelli europei". Si
potrebbe scendere fino al 3 per cento, il che significa anche un certo
respiro per gli investimenti.
Il problema è che parlare di tassi ufficiali di sconto
non basta: il costo dei prestiti va letto sul campo e qui le cifre non
aiutano il governatore. Il finanziamento attraverso le banche resta, per chi
investe nel Meridione, un pessimo affare. Basta fare qualche esempio. Se un
piccolo imprenditore della Calabria paga in media il 12,58 per cento di
interesse sui prestiti (che in molti casi, però, supera o si avvicina al 20
per cento), un suo collega della Lombardia sborsa solo l’8,47 per cento.
Tutte le regioni del Mezzogiorno pagano, comunque, più del 10 per cento
agli istituti di credito. Lo stesso Fazio, inoltre, ammette che il livello
delle sofferenze è circa il doppio rispetto alle altre aree del Paese, e le
ispezioni hanno rilevato un giudizio non favorevole per un’alta
percentuale di banche. "E’ ancora diffusa la prassi - scrive in
Razionalità economica e solidarietà - di considerare quasi esclusivamente
la conoscenza personale e la consistenza patrimoniale del cliente. Si guarda
più alle dimensioni aziendali, che alla redditività e alla qualità del
credito".
In questo modo si frena, chiaramente, lo sviluppo di una
nuova imprenditoria. Ed è un problema ancora tutto da risolvere, "una
ferita aperta nel fianco delle banche italiane".