Feuilleton
JOHN REED
E ALBERT LOUNDRES,
LE DUE VERITA' SUI SOVIET

di Maurizio Griffo 

Per quanto diversi per nazionalità (americano l’uno, francese l’altro), per educazione e temperamento, John Reed e Albert Londres sono accomunati da una medesima vocazione di testimoni degli eventi decisivi della loro epoca. Due reporter di razza, animati dal desiderio di essere nel posto giusto al momento giusto. Sempre pronti a correre ai quattro angoli del globo per raccontare in presa diretta la storia, per documentare e raccontare i fatti nel loro svolgimento. Per entrambi la rivoluzione russa si presenta subito come un avvenimento epocale. Reed, come sappiamo, riuscì ad esserne testimone; Londres mancò sia il rivolgimento di febbraio che quello di ottobre, fatto di cui si rammaricherà sempre, e riuscì a visitare il Paese della falce e martello solo nell’aprile del 1920. Tuttavia, il ritratto che ci ha dato del mondo sovietico è altrettanto memorabile di quello lasciatoci dal giornalista americano.

Se la passione giornalistica e il desiderio di poter vedere e raccontare la rivoluzione li accomuna, l’idea che si fanno e che trasmettono degli eventi russi è agli antipodi. Reed, infatti, è il primo cantore ufficiale della rivoluzione d’ottobre, l’antesignano del mito del comunismo sovietico; Londres, invece, è uno dei primi critici spietati del regime bolscevico.

Il libro di Reed, pubblicato nel 1919, si presenta come una cronaca puntuale, una testimonianza di prima mano sulla rivoluzione d’ottobre. Alle descrizioni si inframmezzano stralci da giornali, verbali e documenti ufficiali. Con una procedura che si presenta come imparziale, alle mozioni ed ai proclami bolscevichi si alternano quelli delle altre forze politiche contrarie alla rivoluzione d’ottobre. Un reportage che vuole essere un resoconto scrupoloso, in cui vengono alla luce i fatti così come si sono svolti sotto gli occhi attenti del cronista.

Il tono è rapido e concitato per rendere l’atmosfera convulsa ed eccitata di quei giorni. Lo stile è colloquiale, e al tempo stesso documentato. Con questo metodo Reed riesce a restituire efficacemente il clima febbrile e caotico di quelle ore decisive in cui le riunioni si susseguivano e gli avvenimenti si accavallavano, un ribollire di sigle effimere e di nomi caduti nell’oblio che si mescolano a sigle e nomi entrati, per oltre settant’anni, nella leggenda del comunismo e nell’immaginario del progressismo mondiale.

In questo il cronista americano riesce effettivamente a far comprendere l’incertezza di quello che stava accadendo, l’atmosfera di quel momento in cui "nessuno pensava, a parte Lenin, Trotzky, gli operai e i semplici soldati di Pietrogrado, che i bolscevichi restassero al potere più di tre giorni [...]".

Tuttavia, il tono apparentemente descrittivo cela una precisa visione delle cose, un orientamento favorevole ai bolscevichi che trapela ad ogni momento della narrazione. Anzitutto, la rivoluzione viene presentata sotto una luce romantica, come un moto generoso di liberazione e di affratellamento dell’umanità. Il palazzo dove è il governo bolscevico "vibrava di una vitalità senza limiti di una instancabile umanità in movimento". Nella Banca di stato in sciopero gli uffici sono affollati da volontari "operai e soldati" che "stringendo la lingua fra i denti nello sforzo intenso, scrutavano i grandi libri mastri con aria turbata". Al corteo che chiude il congresso dei contadini, Reed vede "due vecchi contadini, curvati dalla fatica" camminare "tenendosi per mano, col volto illuminato da una beatitudine fanciullesca". In definitiva, alla descrizione degli avvenimenti è sottesa la convinzione che in quei giorni tumultuosi i bolscevichi lavoravano "a erigere fra la polvere delle cadute rovine l’impalcatura della nuova società".

A più riprese si suggerisce che i proletari siano tutti con i bolscevichi e che gli oppositori siano dei ricchi privilegiati o dei profittatori. Così al congresso dei soviet troviamo "grandi masse di soldati stracciati, di operai sudici, di poveri contadini storpiati e segnati dalla lotta bruta per l’esistenza". Invece, alla riunione della Duma municipale abbiamo una "folla ben nutrita, ben vestita; tra loro non scorsi più di tre proletari". Analogamente, alla riunione del Comitato per la salvezza, "di proletari neanche l’ombra". Lo scontro che è in corso in Russia viene presentato come una plastica raffigurazione della lotta di classe: "Da un lato un pugno di operai e di soldati semplici, armati, rappresentanti di un’insurrezione vittoriosa e perfettamente povera; dall’altro una folla fanatica composta di persone di ogni genere, come quelle che possono empire il marciapiede della Quinta Strada nel pomeriggio, che ghignavano, insultavano, urlavano".

Questa identificazione tra proletariato e partito bolscevico è così certa e indiscutibile che quando incontra un attivista del partito socialista rivoluzionario appartenente alla categoria dei lavoratori manuali, Reed deve prendere le distanze. Quando lo vede comparire, lo descrive come un uomo "vestito da operaio". Poi, dopo aver scambiato alcune battute ed aver verificato la sua avversione alla politica bolscevica lo definisce senza esitazioni come uno "pseudo-operaio".

In altri casi, si manipolano i fatti presentandoli sotto una luce favorevole al partito di Lenin. Il saccheggio del Palazzo d’inverno da parte della folla viene negato nel testo, dove si sottolinea, al contrario, il ruolo moralizzatore e moderatore dei bolscevichi rispetto alle intemperanze dei più scalmanati, salvo poi ammetterlo, sia pure con qualche distinguo, nelle note stampate alla fine del volume.

Esemplare del modo di procedere di Reed è il dialogo fra un soldato semplice, simpatizzante dei bolscevichi, e uno studente socialista. Le battute fra i due sono riportate con un’ostentata imparzialità, e la discussione sembra volgere a favore dello studente, che allinea brillanti argomenti contro i bolscevichi, cui il soldato oppone una monotona e rozza formula sulla divisione della società in due classi, "il proletariato e la borghesia". Ma si tratta di un espediente retorico, perché alla fine la bilancia viene fatta pendere dalla parte del soldato, che conclude il suo ragionamento con una lapidarietà che Reed condivide implicitamente e che vuol suggerire al lettore come una incontrovertibile ed elementare verità: "[...] soltanto due classi [...] e perciò si sta da una parte o dall’altra".

Le misure prese dai bolscevichi sono descritte con soddisfatta precisione da Reed, che non si rende conto della loro agghiacciante sequenza. Requisizioni, confische, delazioni di massa, sostituzione di un apparato coercitivo al gioco delle forze produttive appaiono al giornalista americano non come misure dettate da un rigido fanatismo ideologico, bensì come il trionfo di elementari istanze di giustizia. Il fatto è che Reed era convinto che i bolscevichi godessero di un consenso diffuso perché avevano realizzato "i vasti e semplici desideri dei più profondi strati del popolo".

La retorica rivoluzionaria tocca, forse, il punto più alto nella descrizione dei funerali collettivi delle vittime della rivoluzione. La descrizione delle tante persone che scavano la grande fossa comune e poi dei funerali collettivi è decisamente sopra le righe, e trasuda macabro entusiasmo. Ma l’elemento che più colpisce è la consapevole, e per l’autore realistica, descrizione delle esequie come di una prova del carattere religioso della rivoluzione. "Mi accorsi - scrive Reed - che il popolo russo non aveva più bisogno di preti per pregare il cielo. Esso costruiva sulla terra un reame più splendido di quello che il cielo poteva offrirgli, e morire per esso era una gloria".

La considerazione del comunismo come religione secolare non è assunta - come sarà in tanti scrittori successivi - con consapevolezza critica, ma viene intesa come effettiva e positiva conquista rivoluzionaria.

Un libro paradigmatico che descrive la rivoluzione come l’alba di una nuova era e che ha contribuito fortemente alla propagazione del mito sovietico. Un’opera che ben merita la prefazione di Lenin che ne "raccomanda la lettura agli operai di tutto il mondo".

A differenza di Reed, Londres non pubblicò un libro ma solo degli articoli per un giornale francese, scritti durante un soggiorno in Russia nell’aprile del 1920. Questi articoli non saranno raccolti in volume che oltre settant’anni dopo.

Ma, nonostante il lungo oblio abbia impedito alle riflessioni di Londres di esercitare la stessa influenza del libro di Reed, la loro riscoperta e riproposizione marcano una tappa non meno importante nella storia dei resoconti sulla Russia comunista.

Come si è detto, lo scrupolo cronistico che anima Londres nel suo viaggio in Russia è analogo a quello di Reed. Durante l’interrogatorio che subisce alla frontiera al commissario di polizia, che lo interpella sulle ragioni del suo viaggio, risponde lapidariamente: "Vedere". E più avanti ribadisce di non voler "guardare i fatti attraverso nessuna lente politica". Tuttavia, la sua attitudine generale verso il regime non è pregiudizialmente favorevole, ma al contrario già negativamente orientata. Lo spettacolo che gli si para davanti agli occhi conferma le previsioni più pessimistiche e si impone alla sua moralità di reporter: "[...] bisogna pur cominciare da qualche parte, bisogna pur far uscire il grido che, dopo il primo contatto, vi sale alla gola, bisogna pur descrivere Pietrogrado".

La sporcizia, l’abbandono, la desolazione dell’ex capitale sono descritte senza enfasi ma con un tono che non lascia speranze: "Si dice che è una città assassinata, non è abbastanza: è una città assassinata due anni fa e lasciata senza sepoltura, e che ora si decompone. Ad entrarvi in contatto non è il cuore che si stringe, è il cervello. Bisogna interrompere il proprio cammino venti volte all’ora, tanto è imperioso il bisogno di certificare a se stessi che si vede bene quello che si vede e che non è il proprio spirito che vaneggia".

Soprattutto lo colpisce lo stato di degradazione degli abitanti che non camminano, ma errano per la città alla disperata ricerca di cibo. È una descrizione accorata, che lascia poi spazio all’invettiva sferzante e all’atto d’accusa contro il regime. La mensa comune aperta dalla tre alle quattro è "l’unica risorsa, che permette di non morire ancora a quelli che non sono al servizio della dittatura". Lì si recano delle misere larve umane, armate di un recipiente qualsiasi - "una scodella, o una vecchia scatola di conserva, o un ex piatto da barbiere, e persino delle vere gamelle" - per ricevere un mestolo di minestra maleodorante, da consumare sul posto, come bestie. "La porzione di immonda zuppa cade schizzando di qua e di là nei vari contenitori. L’ingoiano avidamente. È l’ultimo stadio della degradazione, sono stalle per uomini. È la terza Internazionale. Alla quarta si camminerà a quattro zampe. Alla quinta si abbaierà".

L’ironia di Londres si indirizza contro le fondamenta ideologiche del sistema sovietico, ma il nucleo della sua critica al comunismo è un nucleo pre-politico: l’interferenza che un regime, che vuole trasformare da cima a fondo la società sulla base di uno schema prefissato, opera rispetto ad esigenze banali della vita quotidiana. È un atteggiamento che Londres fa filtrare, ad esempio, attraverso le domande di una signora che gli fa da interprete nella prima sera trascorsa in Russia e che gli chiede: "Si lava sempre la biancheria a Parigi?", oppure: "Allora, a Parigi si può ancora andare dal parrucchiere?". E che fa capolino nel dialogo con il commissario alle finanze che magnifica la prossima abolizione del denaro e la sostituzione con buoni-merce per cibo o altri generi di prima necessità, a cui Londres obietta che forse un giovane operaio "preferisce avere un po’ di soldi in tasca per comprare un mazzo di violette alla bionda apprendista all’angolo".

Pure, il richiamo al buon senso quotidiano come metro di giudizio di un regime politico, in cui ci deve essere spazio per la cura dei capelli e per le esigenze dell’amore o anche solo del corteggiamento romantico, è il nocciolo di una riflessione implicita sul collante ultimo della società, e si precisa poi in una critica radicale della realtà comunista. All’origine del dispotismo bolscevico non è la cattiveria individuale dei leaders sovietici o la tradizione del dispotismo asiatico, ma la sostanza ideocratica del comunismo, che si traduce in una ingegneria sociale perfettista e spietata.

Lenin non è un bandito bensì uno sperimentatore sociale che è certo di aver trovato in Marx la formula per risolvere i problemi dell’umanità. "Non bisogna - scrive Londres - raffigurarselo con il pugnale tra i denti, ma vestito con un camice bianco da ricercatore e una provetta (rossa, ben inteso) tra le mani. Ha creduto di vedere tra le righe di Karl Marx il vaccino che guarirà l’esistenza dalle sua spiacevoli necessità. Se ne è impadronito e lo sperimenta a tutta forza. A suo modo è una sorta di Pasteur. Quante cavie ha sacrificato Pasteur per perfezionare il suo siero? [...] Le cavie di Lenin sono degli uomini. Ne ha già uccisi centinaia di migliaia. La formula non è ancora messa a punto. Ma in un Paese grande come la Russia ce n’è ancora una buona scorta...".

Per spiegare la fede assoluta che i dirigenti bolscevichi nutrono nella dottrina politica, Londres, come Reed, fa ricorso al paragone con la religione, ma con un consapevole distacco critico. Secondo il giornalista francese, quando si è visitata la Russia è impossibile continuare a ritenere che quello bolscevico sia un partito politico come ce ne sono altrove: "Non è un partito politico, è un ordine monacale. Ne sono esistiti tanti prima di questo, però nei carmelitani o nella trappa entrava solo chi lo voleva. Era il tempo della Libertà! Qui la vocazione è soppressa, è sufficiente nascere e si è tonsurati".

In definitiva, a parere di Londres, l’autocrazia sovietica dipende dalla logica del sistema e non è emendabile né soggetta ad addolcirsi sulla base dell’esperienza. È una valutazione che, per quanto formulata in maniera non sistematica, anticipa le conclusioni cui giungeranno scrittori successivi in possesso di un più articolato bagaglio analitico.

Si veda, ad esempio, questo giudizio di Luigi Einaudi, che risale al 1948. "Si fa un grande torto - osserva l’economista piemontese - ai dirigenti di un Paese comunistico quando li si accusa di deliberata tirannia [...]. Non si tratta di tirannia del tipo delle comuni tirannie; si tratta di una necessità imprescindibile del funzionamento del sistema. [...] Non per capriccio, ma per l’intima logica del sistema, in Russia fu soppressa prima la Nep, poi si mandarono in Siberia i kulaki, quindi si soppressero le piccole economie individuali agrarie e si convertirono in imprese collettivizzate. La persistenza di economie libere in una organizzazione comunistica mina alla base il sistema e questo sente di non poter durare se non elimina tutti i corpi estranei" (Lo scrittoio del Presidente, Torino 1956, p. 41).

A conclusione di questo breve confronto i due resoconti giornalistici della rivoluzione bolscevica confermano in pieno la loro forza paradigmatica. La cronaca di Reed è il prototipo dei tanti libri di sogno che saranno scritti da viaggiatori e cronisti occidentali in visita a quello che credevano essere il Paese del futuro. Dal canto suo, il resoconto di Londres è l’archetipo della letteratura critica sul comunismo. Per quanto disincantato ed ironico nel tono, e per quanto faccia leva su un solido buon senso e non su raffinati strumenti di analisi sociale, esso veicola un’elementare esigenza di libertà che è sempre stata l’ancoraggio più sicuro contro le lusinghe del millenarismo comunista.

Maurizio Griffo


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1998