Editoriale
IL NEMICO DI CLASSE
di Eugenia
Cavallari
Quando la
sinistra ancora premeva per arrivare al governo, fossero tempi di equilibri
più avanzati o già di compromessi storici, una politica economica non solo
l’aveva, ma la sbandierava. Dietro il Psi demartiniano e il Pci c’erano
consolidate convinzioni riformiste. All’accumulo empirico di leggi e
provvedimenti a cui pareva spesso ridursi la politica economica
democristiana, si contrapponevano affascinanti idee di razionalità e di
programmazione che - se correttamente applicate - avrebbero garantito
prosperità ed equità sociale, libertà e insieme redistribuzione del
reddito. Insomma, il meglio dei due mondi, capitalismo occidentale e
socialismo reale dell’Est.
Non ha importanza se
quelle teorie e quelle idee ebbero più che altro valore di riferimento
simbolico, se furono realizzate in modo parziale e confuso, se gli esiti
concreti di quelle tensioni riformatrici non furono sempre esaltanti; e
nemmeno importa che il Pci le esprimesse in modo ambiguo e contraddittorio,
sempre in bilico tra le tentazioni di lotta e quelle di governo. Era
comunque una grande ed efficace mitologia, che ebbe, negli anni Sessanta e
ancora in parte nei Settanta, un potente effetto galvanizzante sulla società
civile, avvicinando élite intellettuali e masse in uno sforzo comune.
Benessere individuale e benessere collettivo sembravano marciare il più
delle volte affiancati, e l’area di consenso (come quella di governo) si
allargava.
Oggi che la sinistra
è al potere, con una coalizione che dovrebbe essere omogenea, non riesce più
ad esprimere una politica economica significativa, che rechi in sé
l’impronta di un progetto. Qual è l’elemento decisivo che la
caratterizza, che la differenzia a livello ideale dalla destra? Qual è la
spinta progettuale capace di trascinare il consenso popolare, l’idea che
rende vitale, appassionante, coinvolgente la scelta di essere a sinistra? Si
tratta, sul piano concreto, di difendere privilegi e status compromessi dai
nuovi tempi: e sul piano ideale, di nostalgie, residui del passato, fedeltà
ad antiche appartenenze ideologiche un po’ appassite. La frase simbolo
della sinistra italiana di oggi è, infatti, l’invocazione di Moretti a
D’Alema: "Di’ qualcosa di sinistra!", o, ancora più
rassegnato: "Di’ qualunque cosa!".
Eppure, una politica
economica l’Ulivo ce l’ha, ma non può più farne una bandiera, anche
perché sotto una bandiera siffatta non potrebbe riunire tutte le sue varie
componenti. Una coalizione informe, che ingloba inquisiti e inquisitori, che
affianca nella stessa maggioranza ex banchieri filoamericani come Dini e
post banchieri antiamericani come Nesi, come nemmeno nelle più larghe
intese di un tempo è mai accaduto, è difficile riunirla sotto un progetto
unico. Ma soprattutto, non è una politica che possa mobilitare le masse,
che le riporti in piazza (come oggi riesce solo alla destra) sotto
l’impulso dell’entusiasmo anziché della triste istituzionalità delle
ricorrenze, genere primo maggio sindacale. Rimane, perciò, una politica
economica da spacciare sottobanco nella semiclandestinità, da costruire in
silenzio, in modo tale che un giorno il Paese si svegli e se la trovi ormai
bell’e fatta, installata nella prassi quotidiana.
Per produrre una
qualche unità ulivista, in mancanza di obiettivi positivi, si è
individuato un nemico comune: politicamente, è incarnato da Berlusconi;
teoricamente, dal "pensiero unico liberale", cultura del capitale
globale; socialmente, dal ceto medio. Angelo Panebianco, sul Corriere, ha
sostenuto che la politica di evidente accanimento fiscale contro questa
fascia sociale si ispira a un modello socialdemocratico di redistribuzione
del reddito, ormai inadeguato e superato. E’ certamente vero: ma
sospettiamo che l’insistenza governativa nel fiaccare il ceto medio
(quello nuovo, rappresentato dal popolo delle partite Iva descritto da
Giulio Tremonti, ma anche quello vecchio, più tradizionalmente
conservatore) sia una fase necessaria del progetto economico e sociale di
Prodi, teso a ridisegnare, con discrezione, il modello di sviluppo italiano.
Perché il rischio è
grande. La struttura micro-imprenditoriale italiana è cresciuta in gran
parte nella solitudine politica, scoprendo una sorta di principio di
sussidiarietà allargato, rispetto al ruolo preminente che lo stato tentava
di avere sul piano del potere economico. La razza padrona (razza da cui, non
va dimenticato, è uscito Prodi) è direttamente insidiata dal modello del
Nord-Est, che minaccia persino, qua e là, di estendersi al meridione. Cosa
rimarrebbe allora alle élite del potere italiane, abituate al controllo
politico grazie a quello sociale, e a quello sociale grazie a quello sui
flussi di denaro più o meno direttamente gestiti? Che spazio resterebbe ai
politici, stretti da un lato dall’unità europea e dall’altro dalla
richiesta di autonomie dal basso? Sarebbe forse necessario accettare di
abbandonare l’idea della supremazia (e dell’onnipotenza) della politica,
riconsiderarne ruolo, funzioni, effettivo peso specifico. Ma questo è
esattamente ciò che la sinistra teme di più: un’idea di società civile
non "impegnata" né "educata", ma semplicemente nutrita
di senso di autonoma responsabilità.
Bisogna dunque
costruire un modello alternativo, edificare argini interni che incanalino
coattivamente le forze economiche spontanee. Lo strumento principe in questo
senso è la concertazione. Parola magica, che effonde armonia e musicalità
e sottintende pacificazione sociale e democrazia di base, ma serve a
nascondere il nuovo volto (meno sfacciato ma altrettanto arrogante) della
partitocrazia e del controllo sociale. La concertazione (e il suo parente più
stretto, la partecipazione) scende per li rami dal governo alle singole
realtà periferiche attraverso le amministrazioni e i vari enti locali a
nomina politica, e si diffonde in modo capillare. Non si può esistere,
economicamente, se non si partecipa: le occasioni non devono nascere dal
rapporto col mercato, ma da quello col governo. Un esempio per tutti: i
cosiddetti contratti di quartiere (recente strumento per il recupero delle
periferie urbane) che hanno origine da un finanziamento pubblico
relativamente modesto, e mirano a coinvolgere amministrazioni pubbliche,
enti territoriali, parti sociali, e così via. I progetti espressi
dall’accordo di tutte queste realtà (Asl, comuni, Iacp associazioni degli
artigiani e degli industriali, comitati di quartiere, parrocchie,
associazioni di volontariato, e chi più ne ha più ne metta) vengono
selezionati prima dalle regioni e poi direttamente dal ministero dei Lavori
pubblici.
Si ridefinisce, così,
non solo l’antico mito della sinistra, il nuovo modello di sviluppo, ma
anche lo scenario sociale. E’ facile capire perché l’appiattimento e
l’umiliazione del ceto medio sono le necessarie premesse di un simile
progetto. Non bisogna assolutamente pensare di poter fare da soli, di averne
i mezzi e le possibilità: l’importante non è vincere, ma
"partecipare". Riscopriamo la parte sociale che è in noi, e
mettiamoci tutti in fila per costruire una società "solidale", in
cui il solco fra chi pensa e decide e chi invece esegue sia netto e
definito.
Il capitalismo che
Prodi vorrebbe è austero, predigerito, controllato. Depurato da ogni
traccia di quei famosi spiriti animali che Pierluigi Battista cita nel suo
articolo in questo stesso numero di Ideazione. Sono, infatti, spiriti
pericolosi da evocare, che porterebbero il Paese sempre più lontano
dall’Ulivo, dalla sinistra, e dalle teorie socio-economiche di Prodi e
signora.
Eugenia
Cavallari |

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1998
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