Ceto medio. Incoscienza di classe
PERCHE' GLI INTELLETTUALI ODIANO IL CETO MEDIO
di Pierluigi Battista

Resta uno dei grandi misteri di quella facoltà conoscitiva che Wright Mills definiva "immaginazione sociologica" il fatto che in Italia un impiegato dello Stato possa essere registrato sotto la stessa etichetta socio-culturale, "ceto medio", che comprende un commerciante o un libero professionista. Soltanto in una percezione fortemente dicotomica della società è possibile includere nella stessa categoria figure così diverse. Solo in una rappresentazione del mondo irrimediabilmente spaccato tra ricchi e poveri è possibile immaginare che tutti quelli che stanno in "mezzo" stiano anche, per ciò stesso, in un luogo intermedio o "medio" (come il ceto).

Attorno al 1300, racconta Jacques Le Goff, non potendo racchiudere l’intera società nel dualismo Inferno-Paradiso, la cultura cristiana inventa il Purgatorio, luogo terzo e mediano, adibito a trovare un rifugio per le sempre più numerose anime (specialmente di neo-mercanti e neo-borghesi) che non portavano un così gravoso fardello di peccati da condannarle al castigo eterno, ma che non erano così pure da meritare l’eterna beatitudine senza un preventivo lavacro purificatorio (e, appunto, purgativo) in una stazione intermedia posta nell’aldilà lungo il cammino di ascesa al Paradiso

Il fatto è che quando, con la fine della povertà di massa e l’acquisizione di uno status nettamente superiore a quello che condannava gruppi e individui a un livello di mera sopravvivenza, nella società del benessere tutto diventa ceto medio (classe sociale "ubiquitaria", ha scritto Paolo Sylos Labini: sfuggente perché onnipresente, indefinibile perché troppo diffusa e priva di confini); quando il ceto medio da parte diventa il tutto, allora ogni definizione appare problematica e due figure sociali e culturali così distanti come l’impiegato dello Stato e il commerciante finiscono per essere rinchiuse in una stessa casella, malgrado il fatto che ogni atomo della loro psicologia e del loro modo di stare al mondo parli di due universi tra loro incomunicanti. L’impiegato percepisce uno stipendio, il commerciante e il libero professionista no. L’impiegato ha il posto fisso e sicuro, il commerciante non è sicuro di niente, a cominciare dal posto di lavoro. L’uno fa carriera per anzianità, secondo un cammino costante e senza scosse. L’altro vive una vita sussultoria e legata a fattori imponderabili. L’uno non conosce il fisco, o meglio lo conosce per via indiretta, attenuata e ammorbidita dall’ovatta protettiva della "trattenuta". L’altro sente e vive il fisco come una divinità feroce e avida di sacrifici umani. Per l’impiegato domani è come oggi, che a sua volta assomiglia a ieri. Per il commerciante domani può essere l’apoteosi come la catastrofe e l’oggi è solo un punto nel tempo, vacillante e incerto. L’uno sa che grosso modo la sua condizione, a meno di malattie tremende, guerre, rivoluzioni, crisi economiche apocalittiche o calamità naturali, resta stabile e uniforme. L’altro conosce il rischio della subitanea scomparsa, l’incubo di una "cifra che manca", irrilevante per le sorti del mondo ma fondamentale per le sorti del singolo. Perché allora costringere due figure così distanti a convivere nella prigione del ceto medio?

Anche perché, questo è il punto, l’uno, l’impiegato dello Stato, appare, nell’immaginazione politica di un Paese che guarda con sospetto agli "spiriti animali" del capitalismo e del mercato, in grado di essere "redento". L’altro no. L’impiegato può diventare lo zimbello sociale descritto da Gogol nel Cappotto o da Paolo Villaggio nel formidabile ciclo fantozziano. Monsù Travet può bensì essere scorticato da letterati e cineasti per la sua servile timidezza, per lo squallido grigiore del suo stile di vita, per la sua infinita disponibilità a subire soprusi e angherie senza battere ciglio, per la sua mediocrità professionale, per il suo attaccamento penoso alle insegne della gerarchia e dell’autorità. Tuttavia, secondo i canoni dell’immaginazione politica democratica e irriducibilmente anti-individualista, chi ha un impiego fisso e sindacalmente integrabile può riscattare simbolicamente il proprio egoismo sciogliendosi nel "collettivo", non è socialmente aggressivo, non mette in discussione i canoni dello Stato interventista, è culturalmente addomesticabile, non è insensibile al messaggio burocratizzante della politica intesa come democrazia "partecipata" e organizzata.

Chi non è redimibile è il ceto medio del lavoro indipendente: irriducibilmente individualista, ferocemente familista, ma soprattutto vulnerabilissimo al richiamo del denaro e del mercato, della libera impresa e dell’avanzamento sociale ottenuto non con le armi della solidarietà classista ed emancipazionista bensì con quelle dell’individualismo possessivo, dello spirito acquisitivo, della competizione tendenzialmente sregolata. Il ceto medio "indipendente" rappresenta culturalmente il luogo dei disvalori rispetto a una cultura che, come ha scritto Sergio Ricossa nella sua Fine dell’economia, è tuttora debitrice di un punto di vista di matrice "signorile" e tardo-aristocratica secondo cui l’"economico" rappresenta qualcosa di disonorevole e di spregevole e la produzione, il commercio, gli affari, il denaro, l’economico in generale si identificano in qualcosa che ha comunque a che fare con la "materia bassa, immonda".

"Il capitalismo", scrive ancora Ricossa, "pare concedere il potere, la supremazia, al capitalista, uomo spregevole non perché ricco, ma perché infangato dall’economia". Si obietterà che il "capitalista" di cui parla Ricossa non è necessariamente un piccolo-borghese incatenato alla sua condizione di ceto medio, bensì un Grande Borghese non privo di garbo e di eleganza. Ma il Grande Borghese diventa tale quando le origini della sua ricchezza si perdono nella notte dei tempi e quando lo "scandalo" dell’ascesa sociale ottenuta con la ricchezza e non con la fedeltà a un rango pre-acquisito è diventato un punto invisibile, mitigato dal tempo, sublimato dalla cultura e ingentilito dalle frequentazioni con l’establishment. Questo è l’unico borghese accettato in società: il borghese che sembra incarnare l’idealizzazione manniana del borghese la cui vita dovrebbe rassomigliare a quella della famiglia Buddenbrook (di cui appunto Mann descrive la corrusca decadenza, sorvolando tuttavia sulla tumultuosa ascesa). Ma per la "gente nuova e i sùbiti guadagni" non c’è scampo: quella è piccola-borghesia allo stato brado, incolta e grossolana, greve e incapace di qualsivoglia sentimento sublime. Questo è il piccolo-borghese detestato e vilipeso, il ceto medio disprezzato e temuto. Questo è il ceto medio bersaglio degli strali della cultura "signorile".

Il romanticismo, che aveva bisogno assoluto di un antagonista da contrapporre alla delicata sensibilità dell’Artista solitario e in guerra con la società, coniò la categoria del "filisteo", ricapitolazione quintessenziale di tutti i vizi e di tutte le nefandezze del borghese piccolo piccolo, dedito al commercio e imprigionato nella venerazione del Dio Denaro (che secondo i romantici, eredi in questo del cristianesimo tardo-medioevale, incarnava invece il Dio Mammona). Il romanticismo politico amava il popolo ma solo se era popolo in armi, moltitudine ribelle sulle barricate che avrebbe potuto scaldare il cuore di un Victor Hugo. Altrimenti, se si trattava di un popolo che vendeva e acquistava, che smerciava e scambiava, c’era soltanto da disperarsi. Quel popolo di straccioni che non avevano da perdere altro che le proprie catene rischiava di diventare sovrano e despota. Sovrano "consumatore", però, oltre che sovrano politicamente legittimato.

Ma quel genere di sovranità non poteva che suscitare l’orrore di uno scrittore come Gustave Flaubert: "Dobbiamo gridare contro i guanti a buon mercato, contro le seggiole a braccioli, contro le stufe economiche, contro i tessuti finti, contro il finto lusso [...]. L’industria ha sviluppato la bruttezza in proporzioni gigantesche". Di invettive contro la potenza dell’industria son piene le cronache letterarie degli ultimi due secoli. Ma il disgusto di Flaubert sembra appuntarsi soprattutto sul moderno beneficiario di "guanti a buon mercato" e "tessuti finti", su chi ricerca spasmodicamente il brutto del "finto lusso". Nella retorica anticonsumista che trova nel brano di Flaubert un prototipo prodigioso, l’accento emotivo dell’invettiva cade solo in minima parte sull’industria che creerebbe, secondo un topos che ha fatto scuola, "bisogni indotti" e inautentici. Il vero bersaglio è invece la psicologia del "consumatore", vulnerabile al richiamo scintillante della pubblicità, culturalmente disponibile all’acquisto del prodotto serializzato, a basso costo, di qualità non eccellente, comodo ma soprattutto indicativo di uno status. Il povero, chi non ha nulla da perdere se non le proprie catene, chi non può permettersi nulla al di sopra del soddisfacimento di bisogni elementari e primari, non può essere il consumista deplorato dagli apostoli del virtuismo che ammanta l’ostilità signorile per il mercato e per il denaro. Chi consuma è il ceto medio. Chi è il destinatario dei messaggi pubblicitari è il ceto medio. Chi viene invitato ad acquistare è il ceto medio. E il ceto medio adora lasciarsi indurre all’acquisto, farsi trascinare nei circuiti del turismo di massa, indossare abiti creati dal Sistema della Moda accettando il simil come surrogato a prezzo abbordabile dell’autentico. E così via.

Il ceto medio non lotta, consuma. Non si mobilita, acquista. Non ama leggere, ama fare shopping. E quando, per mostrarsi degno di entrare in società, il nuovo ceto medio accantona consumi vistosi ed esibizioni pacchiane e si mette disciplinatamente in fila per entrare nei musei, va al cinema per vedere un film d’autore, si sottopone ai riti della cucina alternativa, invade le oasi vacanziere in cui si rifugiava il ceto dei colti, lontano dal chiasso del turismo di massa, allora lo strato alto della borghesia intellettuale, allergica al sudore e agli odori delle masse neo-ricche, escogiterà nuovi diaframmi che si interpongano tra sé e il nuovo ceto medio in inarrestabile avanzata.

È un inseguimento continuo, destinato a popolare di incubi culturali il meritato riposo di chi, erede di parvenus oramai inghiottiti dall’oblio del tempo, passa la sua vita a deplorare l’irresistibile ascesa dei parvenus di recentissima acquisizione.

Nella cultura italiana, il pregiudizio ostile al ceto medio è esteso e dilagante. Persino uno scrittore allergico al conformismo snobistico del ceto intellettuale, come Goffredo Parise, si diceva orripilato dalle "conversazioni borghesi" correnti e auspicava una borghesia nei cui discorsi "ci fosse qualcosa d’altro (non dico di più, dico d’altro) che il denaro, il cibo, i ristoranti dove si mangia bene, il mare in agosto, la macchina, l’autostrada, l’inflazione". Inoltre, Parise diceva di volere "dai nuovi borghesi un poco di risparmio, di bizzosa taccagneria verso se stessi e la propria famiglia (senza farne una regola) e un poco o tanto di imprudenza economica, di prodigalità addirittura, verso gli altri" (le citazioni sono tratte dal bel libro parisiano pubblicato dalle edizioni Liberal con il titolo Verba volant, per la cura di Silvio Perrella).

Ciò che Parise chiedeva, insomma, è che i "nuovi borghesi" cessassero di essere tali, di cancellare quello stile di vita, quegli argomenti di conversazione impolitica e disimpegnata, materialistica e consumistica, edonistica e pure un poco spensierata, che costituisce l’orizzonte stesso in cui parla la nuova piccola borghesia. Parise non amava Pasolini, ma le sue parole avrebbero potuto essere tranquillamente sottoscritte da Pasolini. O da Eugenio Montale, che era sì un grande borghese ma odiava più di ogni altra cosa gli stilemi e la retorica della cultura massificata. O da questo o quel regista della straordinaria stagione della "commedia all’italiana" che era sì attratta da quella novità antropologica dell’italiano del boom, appena entrato nei territori vasti della società del benessere diffuso, e tuttavia restava sgomenta dal carico di vitalità esuberante ma anche di volgarità che stava per sommergere il profilo morale e culturale della vecchia Italia.

Sfogliare la collezione del mitico Mondo di Pannunzio costituisce, a distanza di anni dal momento della cessata pubblicazione di quel giornale così mitizzato, un’utile immersione in una cultura spaventata, anzi inorridita, dall’irruzione dei "neo-borghesi". Il ceto medio non ha cultura, ma sembra un destino inesorabile che la cultura non si accorga del ceto medio se non per punirlo a causa del solo fatto di esistere.

E se l’ostilità per la televisione ha trovato in Italia un terreno così fertile nel ceto intellettuale è perché la cultura ostile al ceto medio ha visto in quella macchina diabolica l’espressione macroscopica del definitivo tracollo di un cemento ideologico sempre più debole e friabile. Perciò bisognava fargliela pagare, al ceto medio; se ucciderlo non si può, tosarlo e umiliarlo rappresenta pur sempre una bella soddisfazione.

Pierluigi Battista


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1998