Feuilleton
NYPD, INQUIETUDINI
DI FINE SERATA
di Francesco Maiello 

Il grande regista francese François Truffaut ebbe a dire una volta che il cinema che lo affascinava maggiormente, il cinema che in un certo senso egli riteneva il più bello in assoluto, non era quello che affidava le proprie "citazioni" all’arte figurativa alta e colta. Erano pochi i film che, a suo avviso, rifacendosi a Michelangelo o a Poussin, avevano raggiunto le punte più alte della espressività cinematografica. Il destino del cinema (e lui pensava all’esempio di Jacques Becker) era quello di ispirarsi all’arte popolare, alle copertine delle riviste a grande tiratura, ai settimanali scandalistici.

Certo, dietro questo tipo di affermazione vi è una idea di cinema, ma nel complesso credo che Truffaut avesse molta più ragione di quanto egli stesso pensasse. Il cinema, infatti, salvo alcune interessanti eccezioni, sembra raggiungere le sue vette più alte allorquando in un modo o nell’altro si rifà al popolare. Che questa popolarità gli giunga poi da un regard esthetique o da una tematica, un’ambientazione che si possa ritenere tale, poco importa.

Ne è una riprova la più recente produzione cinematografica americana, di cui un caso di estremo interesse è costituito da un serial televisivo trasmesso in Italia da Canale 5: New York Police Department.

La pubblicità definisce "iperrealista" lo stile del serial. Occorre dire che la definizione ha una sua pertinenza. Vi sono, però, vari modi di intendere un’espressione che potrebbe essere solo uno slogan per vendere meglio un prodotto. In primo luogo esiste un aspetto evidente, di superficie, che però non sarebbe corretto intendere come superficiale. L’ambientazione è cruda, il linguaggio forte, volgare, in alcuni casi scurrile. Le vicende non concedono nulla al genere "rosa" né a un "nero" di maniera. I poliziotti parlano come dei poliziotti, i delinquenti come dei delinquenti e i politici, al solito, come dei corrotti. Il serial, per questo motivo, viene segnalato come vietato ai minori.

Esiste poi un secondo livello di realismo che è espresso nella tecnica narrativa. Il realismo in questione è quello della rapidità e dell’approssimazione, ottenuto da uno stile espositivo che deve richiamare alla mente un certo tipo di immagine frammentaria, decentrata, persino sfocata che è l’immagine rubata del reporter e non la calcolata meditazione del regista. Inutile sottolineare come questa idea di "ripresa realista" sia debitrice al principio dell’immagine televisiva. Gli autori invitano a pensare che tutto quanto accade sia talmente vero, talmente immediato e imprevedibile da non lasciare spazio al filtro dell’autorità. Lo spettatore è immerso in una serie di fatti, di situazioni, che si accostano fino alla sovrapposizione, con una scansione ai limiti del percepibile. Non un momento di pausa, non un secondo per riprendere fiato: come nella vita che non ha tempi morti, più che nella vita.

Esiste però un terzo livello di realismo, questo sì completamente cinematografico, in cui si incontrano, per così dire, il piano formale e il piano sostanziale delle storie. Esiste nella macchina da presa un modo cupo, asfittico, quasi oscuro di narrare la frammentazione della vita dei nostri tempi. Camera a mano, molti piani ravvicinati, nessun piano sequenza, un modo nervoso, ossessivo di cogliere i personaggi e il mondo chiuso della stazione di polizia. Mondo che resta chiuso anche per le strade di una città simile a Gotham City senza Batman, con inquadrature sempre alla ricerca di un colpevole da inseguire, di un poliziotto da individuare, di un crimine da cogliere; nessun campo lungo o quasi. In un certo senso New York non c’è. Potrebbe essere Chicago, Milano, Bombay.

È in questo modo, senza ricorrere a tanti sproloqui messi in bocca ai personaggi (scelta narrativa che resta il limite supremo della produzione europea nella sua quasi totalità) - vale a dire in questo modo tutto figurativo - che gli autori colgono e mostrano l’incapacità dei nostri tempi di mettere in ordine le idee, l’impossibilità di condurre un’operazione di riflessione, la difficoltà di inserire gli avvenimenti in un quadro di riferimento che ne consenta l’interpretazione e l’assorbimento psicologico. Il pregio maggiore di questa scelta estetica risiede proprio nel suo riuscire ad esser cinema a dispetto di tutte le apparenze e ad essere uno specchio straordinario degli attuali tempi americani.

Il cinema americano, o tutto ciò che vi assomiglia, può piacere o meno, ma nessuno potrà negargli questa grande capacità di documentazione. È probabilmente questo il suo pregio maggiore, perché lo fa in modo indiretto, apparentemente tangenziale, appoggiandosi a soluzioni narrative di estrema popolarità ma con un’efficacia sconosciuta ad altre cinematografie, sotto il profilo della testimonianza.

In questo senso, se le grandi praterie di Ford la dicevano più lunga delle storie raccontate su una certa idea che l’America aveva di se stessa e sui monumenti che intendeva erigersi; se i film di Hawks avevano dalla loro l’edificazione di un americano mitologico; se una certa cinematografia politicamente impegnata del periodo 1960-70 ha forse in ciò che mette indirettamente in scena la testimonianza dell’ultimo (e fallito) tentativo di integrazione razziale avvenuto in questa nazione; questo cinema degli anni Ottanta-Novanta è la testimonianza più forte della fine di un’illusione.

In NYPD non si raccontano storie ma episodi, non v’è posto per la storia bensì per la cronaca. Gli episodi di cui questo serial ci mostra le immagini sono privi di spessore: se durano è perché sono dilatati, espansi in una superficie territoriale fatta di atomi autonomi e autosufficienti. Mai come in questo caso la tecnica narrativa è funzione di una ipernarrazione cui fa riferimento lo spot pubblicitario. Perché raccontata con questa tecnica televisiva dell’usa e getta, l’America che vi appare è una galleria di fallimenti, una realtà schiacciata nel quotidiano, nell’immediato che non si traduce mai in un’esperienza ma sempre in un fatto che non c’è più: certo, si nasce, si vive, si muore, ma tutto in un oggi che non ha passato e non ha futuro, tutto rappresentato televisivamente come miriadi di testimonianze incollegabili tra loro. Del sogno americano nessuna traccia, gli unici sogni che si riescono a fare sono quelli concessi dal prozac; della famosa verticalità sociale, nemmeno a parlarne: i poveri sono poveri e i ricchi sono sempre più ricchi e "fuori" dal mondo del dipartimento di polizia. Ognuno ha il suo piccolo spazio sociale molto più simile a quello delle monadi di Leibniz che all’interconnessione globale prefigurata dai padri della sociologia americana.

In questa dimensione di ritirata, di sconfitta finale (di cui il film Seven è stato un esempio importante ma forse trascurato dalla critica), non v’è posto per nulla che vada oltre la cruda realtà visibile. L’America clintoniana, che avrebbe dovuto reinventare la frontiera e che invece continua ad arrostire negri sulla sedia elettrica, sembra non avere neppure più spazio per Dio.

In un episodio fra i più belli della serie, uno dei poliziotti protagonisti si deve sposare e la futura moglie lo spinge ad avere un colloquio con il prete. Dopo molte resistenze l’uomo cede e parla con il religioso. La donna, di sera, chiede al futuro marito se crede in Dio. L’uomo è seduto sul letto e ha lo sguardo nel vuoto. Come risposta alla domanda della sua compagna, racconta un episodio della sua vita investigativa. Giunge in un appartamento, dal quale è sparito un bambino molto piccolo. È il figlioletto di una coppia presente nell’appartamento: si cerca il bambino ma questo è scomparso. Nessuna traccia, ma è troppo piccolo per essere fuggito da solo e non può trattarsi di un rapimento. Poi un dubbio atroce. In casa c’è un cane di grossa taglia. Il poliziotto prende il cane e gli fa fare delle radiografie. Nello stomaco della bestia si trovano le piccole membra straziate. I genitori sapevano e hanno voluto. L’uomo resta con lo sguardo nel vuoto e chiede alla moglie: "Perché mi chiedi se credo in Dio?". Sembra che nella società americana ciò che un tempo non riuscì al comunismo ateo stia riuscendo benissimo ad un capitalismo senz'anima.

Francesco Maiello


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1998