Feuilleton
LA GLOBALIZZAZIONE
E' UNA TORTA ALLA CREMA
Intervista a Michel Maffesoli di Ivo Germano

DOMANDA: Si parla tanto di nuove sintesi, di ridefinizione delle categorie di destra e sinistra, del rapporto fra libertà personale e processo di globalizzazione. In sostanza, nelle scienze sociali si cerca di ridefinire che cosa sia realmente la dimensione post-moderna: razionalizzazione, terziarizzazione del lavoro e forte differenziazione culturale. È ancora possibile mantenere un quadro unitario d’interpretazione sociologica di queste e altre dinamiche culturali?

RISPOSTA: Le vecchie categorie interpretative sono tutte saltate. Così, ad esempio, non è più possibile pensare in termini di "individuo", un concetto che per molti aspetti ha rappresentato il perno della modernità, pur dando adito ad altre definizioni e concettualizzazioni. Allo stesso modo, la nozione di libertà non è più attuale. Mi sembra infatti importante sottolineare che, ora come ora, siamo più "pensati" di quello che noi pensiamo e siamo più "agiti" di quello che agiamo: questa constatazione definisce la mia concezione di quello che chiamo tribalismo: porre l’attenzione sull’esistenza di una dimensione di confusione, di contaminazione, come del resto osservava già Bataille quando parlava di "spreco totale". Sempre in questa direzione, riprendendo la teoria sociologica di Gabriel Tarde, si può porre l’accento sulle leggi dell’imitazione: un fenomeno che appare in tutta la sua evidenza nella moda. Ciò che emerge in tutte le dinamiche sociali e culturali è infatti la consapevolezza che, intellettualmente parlando, non esisto che nel e attraverso lo spirito dell’altro, mettendo così in gioco altre categorie rispetto a quelle tradizionali di individuo e libertà.

Come quella di "comunità", intesa come nuova matrice di pensiero e d’identità sociale, in grado di opporsi efficacemente alla reductio ad unum disciplinare e culturale propria dell’omogeneizzazione planetaria di cui è oggetto l’Occidente?

Credo di sì. Penso che il nuovo passi attraverso la dimensione del "comunitario", anche se ho una certa ritrosia ad utilizzare questo termine perché, soprattutto in Francia, viene connotato da una forte valenza religiosa. Comunque, la caratteristica fondamentale del pensiero che chiamiamo "comunitario" è che il gruppo - ad esempio, la famiglia o il piccolo gruppo giovanile - viene prima dell’individuo. E mi pare di rilevare una sorta di ritorno diffuso a questa prospettiva. È per questo che io non credo molto al ricorso indiscriminato al termine e al concetto di globalizzazione come teoria onnicomprensiva. La globalizzazione me la rappresento come una torta alla crema: le fette di questa torta, una sorta di standardizzazione tecnologica, si diramano ai quattro angoli del mondo, così come gli stessi modi di cantare e di vestire. La "Mcdonaldizzazione del mondo" non coincide con la globalizzazione, ma è solo un aspetto particolare di questa standardizzazione.

Ma in questa Babele tecnologica c’è ancora posto per la dimensione locale?

In Francia, insieme all’hamburger continuiamo a gustare il cassoulet, tipico piatto a base di fagiolini: con questo voglio dire che nel mondo convivono oggi forme culturali che l’universalismo moderno aveva eliminato, come il localismo, il tribalismo, il dionisismo. Si può anzi dire che questo è uno dei paradossi del post-modernismo: universale e particolare possono convivere allo stesso tempo e nella società complessa.

Dunque, secondo lei, l’emozione e il sentimento giocano un ruolo primario in questa ridefinizione delle dinamiche culturali occidentali?

Non mi piace il termine sentimento, che ha una connotazione troppo individualista. Preferisco usare la parola "affetto". In questo senso, concordo con Max Weber che utilizzava l’aggettivo affectuelle al posto di affectif, poiché "affetto" ha una valenza più globale. Così come la ragione, nell’accezione illuministica, era stata l’elemento essenziale della distinzione moderna fra particolare e individuale, per me ora l’affetto sta diventando l’elemento essenziale per definire la comunità.

Lei immagina l’incontro tra etica ed estetica come tratto fondamentale di quella che chiama comunità.

Sì, certamente. Quando parlo di "etica dell’estetica" è per opporla alla vecchia "morale del politico". Io distinguo nettamente tra morale ed etica, tra politica ed etica. La morale è infatti razionale, universale, viene intesa come applicabile in ogni luogo e a qualunque tempo. Viceversa, l’etica, come si evince dalla sua radice etimologica ethos, è il cemento, il legame nel suo significato più elementare: tiene una comunità così come il cemento tiene le pietre. Ed è in questa chiave che oggi trionfa il multiforme, ovvero il "provare/sentire insieme qualcosa" che è poi l’esthesis. Così l’arte, l’ascoltare una certa musica o, addirittura, guardare programmi alla televisione o andare allo stadio o ad un concerto sono alcuni aspetti di questo nuovo sentimento sociale post-razionalistico. In altre parole, oggi si vive in funzione di un gruppo, di una realtà corale, di una comunità. E, inoltre, una persona può vivere contemporaneamente varie forme di multipla partecipazione comunitaria, senza alcun diritto di esclusività. La comunità non viene intesa in senso identitario e chiuso. E la persona condivide così spazi emotivi comuni e multiformi, producendo situazioni altamente estetiche. Si va, in altre parole, verso una saturazione del concetto di autonomia personale per scivolare verso l’eteronomia, cioè verso un caos creativo e continuo. Con questa precisazione intendo dire che non si può comprendere l’arte come qualcosa di separato dall’esistenza, quasi fosse reintegrata nel quotidiano: il nostro è il tempo in cui diventa realmente possibile "fare della propria vita un’opera d’arte".

Il fatto che i piccoli gruppi cerchino di mettere l’accento sugli aspetti qualitativi della vita rappresenta, forse, il punto di equilibrio di questa nuova estetica? Ed equivarrebbe, allora, ad un nuovo spazio della libertà?

La libertà con la "elle" maiuscola non esiste. Al contrario, penso - questa è la mia lettura personale - che esistano al plurale libertà interstiziali, cioè piccole libertà veicolate e non rivendicate, libertà sensibili e sensorie, non concettuali, quelle che sperimentavamo noi contemporanei nella pratica quotidiana. Non è lo Stato che deve garantire esclusivamente le libertà ma sono le esperienze comunitarie a produrre nuove opzioni e nuove possibilità estetiche.

Ivo Germano


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1998