Congetture & confutazioni
COME L'OPPOSIZIONE CONSOLIDA IL "REGIME"
di Pierluigi Battista

I liberali, che per fortuna non sono apostoli della virtù imposta per decreto legge, non dovrebbero arretrare inorriditi di fronte all’elementare constatazione che a determinare il consenso politico provvedono, oltreché gli ideali, anche i più robusti interessi. Non c’è dunque nulla di scandaloso se a nutrire fantasie e timori sul presunto regime dell’Ulivo, sull’ipotetico regime del centro-sinistra, sull’eventuale regime del sinistra-centro contribuiscano anche considerazioni più terrestri di quelle, pur importanti, che attengono alla rarefatta dimensione dei valori, alla battaglia per la conquista delle anime, alla leale competizione su chi incarni più o meno compiutamente lo Spirito del Tempo. Si profila il pericolo del regime solo perché sembra ostruita la libera e spregiudicata circolazione delle idee? Si sta consolidando una pericolosa "polizia del pensiero" (la suggestiva definizione è di John Le Carrè) che preluderebbe a interminabili decenni di conformismo e di anestesia mentale? Oppure sono le ragioni più pedestri della convenienza a condizionare scenari che assomigliano in modo impressionante a ciò che viene comunemente definito "regime"?

Per la verità, le discussioni sul regime rischiano di ottenere un effetto di saturazione. Prima di tutto, direbbero i manuali di quella scienza negletta ma tutt’altro che inesistente che è la scaramanzia politica, perché a furia di gridare prima o poi c’è il pericolo che si materializzi il motivo di tanto allarme. Ma soprattutto perché nello schieramento soccombente, quello del centro-destra, gli stentorei proclami contro il regime stanno diventando comodissimi alibi per non pensare ai propri giganteschi guai, per impedire esami di coscienza che non siano autoindulgenti o volgarmente propagandistici e autoconsolatori. Per non voler accettare, insomma, che la politica non è solo beau geste e sequenza sia pur brillante di blitz e colpi di scena ma è anche faticoso radicamento nelle cose, frequentazione curiosa dei poteri reali ("forti" e meno forti), dialogo con l’establishment, conquista culturale degli incerti e dei titubanti, apertura verso il mondo e la società, ripudio della sindrome del ghetto, rapporti non occasionali con il mondo della cultura, del l’informazione e più in generale della comunicazione e della produzione simbolica. Tutte cose che l’Ulivo dimostra di padroneggiare con bravura e disinvoltura ma non per vocazione al regime, come si sostiene talvolta ringhiosamente da chi si sente escluso dal banchetto, ma perché il centro-destra ha lasciato ai suoi avversari il monopolio pressoché assoluto nella battaglia finalizzata al perseguimento di ciò che con una buona dose di pigrizia lessicale può essere ancora definita l’"egemonia culturale".

La sensazione di nausea per le lamentazioni dei corifei dell’antiregime, tuttavia, non dovrebbe indurre a un esasperato abbandono del tema in questione: altrimenti la conseguenza sarebbe quella di negare la sostanza dei pericoli che pure l’Italia potrebbe correre se la maggioranza di governo disponesse di un potere non mitigato da contrappesi e non bilanciato da un’opposizione solida e desiderosa di diventare, nel corso del tempo, maggioranza. Occorrerà dunque tapparsi le orecchie quando gli esponenti del centro-destra attribuiscono la colpa dell’ultima disfatta elettorale alla scarsa "visibilità" cui il "regime" avrebbe costretto i poveri reietti dell’antiregime; quando nel Polo si lamentano per un’informazione complessivamente ostile all’opposizione e non si rendono conto che se non ci sono tanti ottimi giornali di destra e "moderati" la colpa non è del destino cinico e baro ma proprio e solamente della destra e dei "moderati"; quando alla parata di artisti e intellettuali (questi sì di regime) che affollano gli happening dell’Ulivo, il centro-destra (come è accaduto a Roma) non sa che opporre la straordinaria partecipazione dei Cugini di campagna che invece di Anima mia gorgheggiano Italia mia. Occorrerà eroicamente far finta che tutto questo non esiste e chiedersi con molta semplicità se il "regime" c’è o non c’è. Ma a patto di accettare la premessa che non nelle insondabili regioni dell’Idea bensì in quelle più prosaiche della Convenienza si possa trovare la chiave esplicativa della faccenda.

Occorrerà dunque fare un passo indietro e chiedersi se nel vituperatissimo "regime democristiano" fosse davvero sempre e comunque così conveniente, remunerativo, professionalmente e socialmente interessante militare sotto le insegne dello Scudo Crociato. La risposta è: in molti casi (per esempio, nel bianchissimo Veneto) sì, era proprio conveniente se non addirittura obbligatorio. Ma l’Italia del "regime democristiano" si presentava come un Paese a macchia di leopardo. Non era detto che l’imprenditore dell’Emilia o della Toscana, bisognoso di crediti bancari, che il docente universitario desideroso di pubblicare i propri volumi presso una prestigiosa casa editrice, che il piccolo borghese acculturato tutt’altro che riluttante all’idea di farsi una brillante carriera nel sindacato, che il funzionario radiotelevisivo lottizzato in quota "sinistra", che l’architetto in attesa di essere chiamato da qualche municipio "rosso" per la ‘’riqualificazione urbana" del centro storico, che il regista impegnato in attesa di sovvenzioni pubbliche, che insomma una di queste (e di altre) figure si dovesse sottomettere a logiche di appartenenza scudocrociata. Malgrado le apparenze, nel "regime democristiano" la presenza di forti contrappesi (dal sindacato agli enti locali, dalle Regioni rosse all’universo editoriale, dal mondo della cultura e dell’arte a quello dell’informazione) faceva sì che l’essere all’opposizione non condannasse all’irrilevanza politica, alla marginalità socio-culturale e all’"impresentabilità" chi non si acconciava all’opinione politicamente maggioritaria nel governo centrale.

In un Paese privo di contrappesi istituzionali e di una cultura giuridica liberale fondata sull’idea che chi vince alle elezioni non debba stendere la propria ombra su ogni segmento della vita associata, in questo Paese, dunque, tutto il merito va ascritto naturalmente a chi con lentezza e costanza ha sedimentato una propria presenza radicata nella società e nei gangli vitali del mondo produttivo e culturale: alla sinistra, appunto. Ma, a parte la distribuzione di meriti e demeriti, sembra proprio che nell’età dell’incerto bipolarismo lo schieramento sconfitto non sia in grado di presentare ai cittadini alcuna delle condizioni che in tempi di "regime democristiano" impedirono che la condizione dell’oppositore suonasse come una condizione disperata e perciò priva di appeal. Sul piano della Convenienza, quindi, e non dell’Idea, il fatto che all’indomani del 21 aprile 1996 non convenga a un imprenditore rendere nota la propria eventuale simpatia per la minoranza, a un giornalista "in carriera" mostrarsi troppo critico con l’attuale governo, a un regista l’abitudine asociale, e perciò sospetta, di non frequentare i circoli che contano e da cui dipende il finanziamento di un film, eccetera eccetera, questo fatto configura le precondizioni che favoriscono l’instaurarsi di un vero e proprio "regime". Beninteso, nessuno porta una "colpa" specifica per come vanno le cose. Fatto sta che non c’è niente di più vicino al regime storicamente conosciuto di quella sensazione di vuoto, di deserto, di tabula rasa che si viene a materializzare attorno alla figura del "vinto" che, come tale, non è più in grado di assicurare ai propri seguaci un decente inserimento nei circuiti "che contano". E non c’è niente di peggio di un’opposizione che interiorizzi questa percezione di solitudine e di irrilevanza sociale al punto da riprodurre nel proprio seno quella sindrome del ghetto (la stessa che nell’Italia repubblicana ha condannato all’irrilevanza la destra di stampo neofascista, nostalgica e reducista) che eternizza la situazione di fatto e inocula sempre più la tentazione del "regime" propriamente detto. Un "regime" in cui anche il lamento diventa un lusso intollerabile.

Pierluigi Battista


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1998