Congetture & confutazioni
ANTICONFORMISTI
A COSTO ZERO

di Giuliano Zincone

Nel nostro eroico Paese pullulano i giornalisti scomodi. Quasi tutti, anzi, dichiarano solennemente di cantare fuori dal coro. Soprattutto i molto celebri, i molto pagati, i molto premiati autori di bestseller, i tenutari di rubriche (giustamente) applauditissime, affermano con spavalderia di essere spericolatamente anticonformisti, di sfidare a viso aperto l’arroganza del Potere. Essi rischiano, insomma. E per questo coraggio meritano il consenso delle masse. Le quali, come è noto, adorano chi sprezza gli estremi pericoli. Criticare Berlusconi, oppure D’Alema, è roba da kamikaze? Ma non diciamo stupidaggini. A me piacerebbe incontrare un giornalista comodo. Uno che ammettesse (magari arrossendo): "Ebbene, sì, io canto nel coro". Potrei rivolgermi alla piccola pubblicità di un quotidiano: "Cercasi editorialista, commentatore, opinionista, disposto ad ammettere di essere un servo del Potere, oppure un venduto". Ho paura che non avrei molte risposte.

Perché noi siamo fatti così. Siamo scomodi. Anzi: "controcorrente". Una gentile collega spagnola, qualche anno fa, mi fece l’onore di intervistarmi. Domandò: "Ma non avete paura, voi italiani, di scrivere articoli contro la mafia?". Risposi: "Distinguiamo. Danneggiare concretamente specifici interessi di Cosa Nostra con parole, opere o scritture, è pericolosissimo. Coprire di (sacrosanti) insulti i mafiosi non comporta alcun rischio. Anzi, è obbligatorio. Immagini qualcuno che osasse sostenere che i picciotti sono bravi ragazzi. Verrebbe licenziato, e buonanotte". La giornalista madrilena sbatté le ciglia e probabilmente pensò: "Questo è matto".

Eppure, le cose stanno proprio così. La gente ci considera anticonformisti, coraggiosi e fuori dal coro quando ci schieriamo dalla parte giusta, quando scriviamo ciò che è normale scrivere, ciò che tutti ragionevolmente pensano. Il problema, semmai, è capire dove si annidino i conformisti che elogiano la mafia, il terrorismo, la corruzione, il razzismo, la pedofilia, lo scippo, il teppismo, l’infanticidio e le stragi del sabato sera.

Diciamo la verità. È presuntuoso e inutile spacciare il nostro buon senso per spericolatezza. Noi condanniamo i cattivi e incoraggiamo i buoni. Ma ciò è elementare. Perché vantarsene?

Negli ultimi anni, però, si è accesa una domanda più acuta e pressante. Ai giornalisti un’intera cultura trasversale non chiede più soltanto di raccontare i fatti o di descrivere gli eventuali colpevoli. No. Ci si chiede di lottare. Contro le piaghe croniche della mafia, della camorra, della ’ndrangheta, della Stidda, della Sacra corona unita e di tutta la criminalità organizzata che sfregia il Paese dalle rive del Brenta alla Barbagia. E, ieri, contro i terroristi, compresi i veri o ipotetici fiancheggiatori. E, oggi, contro i delinquenti di Tangentopoli. Questa domanda, così diffusa e popolare nell’opinione pubblica (da destra a sinistra), mi sembra piuttosto illiberale.

La lotta contro i fenomeni criminali di ogni tipo spetta alle forze di polizia, le quali hanno il compito di catturare i mascalzoni. I giornalisti devono soltanto informare i cittadini, denunciando gli eventuali fatti criminosi, ma non possono emettere sentenze e, soprattutto, devono smetterla di esporre alla gogna (al ludibrio del popolo, ad una condanna mediatica tremenda e irreparabile) persone che, fino a prova contraria, sono innocenti. Dopodiché sarebbe utile (anzi: sarebbe il minimo indispensabile) che i mass-media si sforzassero di analizzare le cause e le storie dei diversi fenomeni ripugnanti, risparmiando sulle invettive e investendo sulla ricerca: sulla voglia di capire e di aiutare il pubblico a capire.

Ma questa è un’operazione faticosa e, in qualche caso, davvero rischiosa. Walter Tobagi non si limitò a sciorinare litanie contro i terroristi, né a pronunciare spicce sentenze sui loro "deliranti volantini". Tentò di descrivere la complessità (e perfino le motivazioni) di quell’impazzimento. E questo, forse, gli costò la vita. Mutatis mutandis, un simile discorso vale perfino per i magistrati. Giovanni Falcone non era l’uomo degli indiscriminati blitz antimafia. Anche lui tentava di smontare e di studiare, pezzo per pezzo, la macchina della delinquenza organizzata. Contro il coro degli "scomodi" da quattro soldi, Falcone osò alzare la voce, contestando l’osannatissima legge "Rognoni-La Torre", che comminava la chiusura delle aziende "in odore di mafia". Egli osservò che questo provvedimento stava creando disoccupati e che costoro avrebbero alimentato il serbatoio dei siciliani che si aspettavano "il posto" soltanto dai padrini mafiosi.

Mai dimenticherò le conversazioni notturne con Walter Tobagi, uomo di sinistra che desiderava la giustizia sociale davvero, e che conosceva i problemi degli operai, contrariamente ai brigatisti. Mai dimenticherò lo sguardo svelto e ironico di Giovanni Falcone, mentre gli toccava ascoltare le solite scemenze dei "coraggiosi" che di mafia non sapevano niente, in uno show di Maurizio Costanzo. Questi ignoranti osarono accusarlo addirittura di mollezza, dall’alto della loro audacia verbale. Arrivarono a rinfacciargli di essere ancora vivo, in una trasmissione di Corrado Augias. Poi si è capito, a caro prezzo, chi era davvero pericoloso per la mafia. Non chi strillava invettive, non chi "lottava" tagliando la Sicilia con l’accetta, ma chi studiava l’ordigno criminale, per disinnescarlo e aggredirlo nei punti vulnerabili.

State tranquilli, amici e colleghi. Non c’è affatto bisogno di farsi ammazzare, per guadagnarsi una dignità professionale. Però è patetico ostentare le penne del pavone e l’orgoglio delle opinioni rarissime quando ci si limita a ripetere che i cattivi sono cattivi e che i buoni sono buoni. Queste cose le sanno tutti, anche le lattaie che (non per colpa loro) non hanno tempo né strumenti per informarsi, per indagare, per riflettere. Chi, come i giornalisti, gode di questi privilegi, dovrebbe preoccuparsi di fornire notizie e servizi al pubblico pagante. Se non lo fa, ruba lo stipendio, e pazienza. Ma se pretende, addirittura, di sembrare scomodo, fuori dal coro e lottatore, mentre esibisce soltanto futili invettive, allora diventa grottesco e ridicolo. Soprattutto quando si meraviglia della famosa crisi della stampa "coraggiosa e controcorrente".

Giuliano Zincone


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1997