Intervista a Gianfranco Fini
DA DESTRA VERSO
UNA NUOVA FORMA DI PARTITO

di Gaetano Quagliariello

DOMANDA: Onorevole Fini, Lei è stato indicato come il vero vincitore della Bicamerale. Innanzitutto dai suoi "avversari": Scalfaro lo ha detto senza mezzi termini; D’Alema ha indicato Lei come il nuovo vero leader del Polo. Non è né questo il momento, né questa la sede per prender posizione a favore o contro le conclusioni della Commissione. D’altra parte, non si può fare a meno di chiederLe conto di alcuni problemi aperti che suscitano perplessità anche in chi non ha un atteggiamento di pregiudiziale opposizione. Provo ad indicargliene quattro: la cosiddetta soluzione federale che, in realtà, propone un assetto dei rapporti centro-periferia non del tutto convincente; la correlata proposta di nuovo bicameralismo con la "protesi" di una terza Camera; la giustizia sulla quale la Commissione ha rinviato le sue scelte; la legge elettorale che, in ogni caso, segna un arretramento sulla via della conquista di un sistema compiutamente maggioritario...

RISPOSTA: I riconoscimenti degli avversari, in questo caso, non sono né sgraditi, né suscitano sospetti. Essi registrano il ruolo di co-protagonista che siamo riusciti ad assumere in Commissione ed il fatto che la scelta più imprevista - l’elezione diretta del capo dello Stato - sia da sempre nel programma riformista della destra politica e nelle aspettative del mio partito. Prendo atto con piacere che Ideazione ha un atteggiamento critico - proprio di chi vuol capire, cercare d’influire e poi orientarsi - e non un atteggiamento di aprioristico rigetto delle soluzioni adottate. Il percorso per le riforme è ancora lungo ed il passaggio parlamentare è pieno d’incognite. In questa fase non è utile al Paese chi si affanna già ad organizzare il dissenso precostituito, così come non servono adesioni aprioristiche a un prodotto certamente perfettibile. Servono forze critiche che si sforzino d’influire sui processi aperti per migliorare quanto è stato ottenuto: un risultato che, è inutile negarlo, è stato compromissorio ed imperfetto e, d’altra parte, non sarebbe potuto essere altrimenti. Soprattutto, servono forze intellettuali e d’opinione pubblica che sappiano impedire che il Parlamento possa peggiorare il risultato del lavoro della Commissione.

Sulla base di queste premesse passo a rispondere alla Sua domanda. Procederò per punti.

Primo, il federalismo. La "bozza d’Onofrio" non poteva subire sorte differente da quella che le è toccata. Si trattava di un testo troppo avanzato, che avrebbe comportato rischi reali d’indebolimento ulteriore dello Stato centrale. Si deve avere il coraggio di affermare che la soluzione alla quale si è pervenuti non comporta una vera riforma in senso federale, bensì accentua un processo di riconoscimento di autonomia legislativa e di decentramento, non solo a livello amministrativo, che dà competenze assai rilevanti a Comuni, Province e Regioni, rimanendo però nell’ambito di un’organizzazione generale dello Stato che non è di tipo federale. In futuro, si potrà anche giungere al federalismo, ma oggi questa scelta avrebbe portato alla "separazione di fatto" del Nord: avrebbe messo in moto un processo di federalismo a più velocità il cui risultato non sarebbe potuto essere diverso dalla disgregazione dello Stato.

Secondo, il bicameralismo. Quando in Bicamerale è venuto al pettine questo nodo, è emersa una divisione trasversale in seno alla Commissione. In particolare, il problema di creare una "Camera delle regioni" si scontrava con opposizioni molto forti in seno ai partiti. Questo dissenso non è da sottovalutare: sono convinto che qui si trova lo scoglio principale per il passaggio della riforma in Parlamento. In sede parlamentare, lo vedremo, le opposizioni maggiori saranno quelle nei riguardi della diminuzione del numero dei deputati e della perdita di un ruolo paritario da parte del Senato. Le scelte finali della Commissione sono state condizionate dalla necessità di tener conto di queste opposizioni e di prevenirne altre più difficili da sconfiggere. D’altra parte, non credo si possa affermare che dalla Bicamerale sia stato partorito il "tricameralismo". La così detta "terza Camera", infatti, non è altro che la costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni e Stato-Comuni che già esisteva.

Terzo, la legge elettorale: il convitato di pietra. Ha influenzato tutto il dibattito sulla forma di governo, ma va tenuto presente che la soluzione adottata - quella di un ordine del giorno che fissa princìpi generali - lascia margini di possibilità ancora molto ampi. Deve essere molto chiaro, a questo proposito, che io non sottoscriverò una soluzione che non preveda una legge elettorale a prevalente impianto maggioritario. Se poi la preoccupazione è quella avanzata da Mancino - e cioè che con la soluzione adottata i partiti possano far eleggere un "listone bloccato", sottraendo al corpo elettorale la possibilità di scegliere i candidati - dico che la preoccupazione è legittima e che devono trovarsi i correttivi necessari: gli eletti, con la cosiddetta "quota di governabilità", potranno essere scelti con un meccanismo analogo a quello oggi vigente per i senatori eletti dalla quota proporzionale, cioè attraverso il recupero dei candidati non eletti nei collegi uninominali con la percentuale di voti più alta. Non credo, d’altro canto, che il prevalente impianto maggioritario sia in contrasto con la previsione di un "premio di governabilità" che garantisca la stabilità dell’esecutivo. La previsione di questo meccanismo è, infatti, una svolta nella storia d’Italia che va nel senso dell’accettazione, nel profondo delle coscienze, della logica di fondo del maggioritario. Non si dimentichi che fino a poco tempo fa una simile soluzione sarebbe stata considerata una truffa...

Quarto, la giustizia. Smentisco che la scelta di non votare gli emendamenti alla "bozza Boato" sia stata una soluzione "pilatesca" o, peggio ancora, un cedimento di fronte a pressioni e ricatti. Si è trattato, invece, di una scelta di grande responsabilità politica da parte di tutti e, in particolare, da parte del Polo. Non bisogna, infatti, sottovalutare le contingenze: mentre si stava passando alla votazione degli emendamenti, erano pronti i leghisti ad intervenire con l’unico scopo di incendiare il clima politico e far fallire tutto. L’accantonamento degli emendamenti non significa la loro liquidazione. Quando, a settembre, i lavori della Commissione riprenderanno, quegli emendamenti verranno rimessi ai voti e su di essi il Polo condurrà fino in fondo la sua battaglia.

Insomma, da parte Sua una difesa su tutta la linea delle conclusioni della Commissione...

No, ma voglio essere ancora più esplicito. La Commissione non poteva che produrre un risultato di compromesso, così come ogni processo costituente nella storia delle istituzioni. D’altro canto, questo compromesso era necessario affinché la politica riguadagnasse la propria centralità ed una nuova legittimità. Chi oggi si sforza di dimostrare che il compromesso raggiunto è indecente, in molti casi lo fa in nome di poteri che non vogliono perdere il centro della scena e, perciò, non vogliono che la politica riguadagni credibilità. Mi riferisco, in particolare, ai rappresentanti di una "tecnocrazia" che con i governi Ciampi e Dini e con il "tentativo Maccanico" sembrava aver ormai stabilmente assunto un ruolo centrale all’interno del potere politico. Mi riferisco anche ad alcune procure, che per un certo periodo hanno svolto un ruolo di supplenza politica ed oggi non hanno compreso che è giunto il momento di rientrare nell’alveo di poteri costituzionalmente definiti e fissati dal Parlamento.

Lei si riferisce ad una nuova centralità della politica. Dovrà però riconoscere che tra quanti hanno espresso perplessità sui lavori della Bicamerale vi è anche chi non lo ha fatto in nome di altri poteri, ma perché ha scorto nel sistema proposto una logica doppia e contraddittoria: da un lato, un ampio spazio riservato ancora ai partiti ed alle loro oligarchie nella previsione del lavoro parlamentare, nei meccanismi di finanziamento della politica, nella forte frammentazione delle formazioni incoraggiata dalla legge elettorale; dall’altro, un presidente che in tale contesto potrebbe prestarsi ad essere il punto di riferimento di un’opposizione ai partiti cronica e permanente. Insomma, non teme che vi sia il rischio che la ricerca di una nuova centralità della politica possa incontrare un piano inclinato e scivolare verso un nuovo lacerante confronto tra partitocrazia ed antipartitocrazia?

Nella mia concezione "centralità della politica" e "partitocrazia" non solo non sono concetti coincidenti ma, addirittura, devono considerarsi antitetici. Quando parlo di ripristino della centralità della politica mi riferisco, soprattutto, all’esigenza di mettere ordine tra i poteri. In tale quadro, anche i partiti devono trovare i loro spazi d’agibilità: spazi legittimi ma ferreamente limitati. Io credo che ci si stia muovendo in questa direzione. È vero, infatti, che il "tasso di presidenzialismo" non è quello che avremmo sperato e che avrebbe garantito un perfetto equilibrio al sistema. D’altro canto, il "tasso di partecipazione popolare" che la nuova Carta consentirà è addirittura maggiore di quello che avevamo immaginato. Oltre all’elezione diretta del presidente, va tenuto presente che sono stati previsti: l’istituto del referendum propositivo; la possibilità per il singolo cittadino di ricorrere alla Corte Costituzionale; i meccanismi atti ad ottenere un’indicazione chiara, da parte del corpo elettorale, della maggioranza che deve governare. Sono tutte tessere di un mosaico che, se correttamente composto, esalterà la politica e nel contempo limiterà molto il potere dei partiti. In tal senso, è possibile spingersi anche oltre: vanno riviste le norme che regolano le candidature alla presidenza della Repubblica. Resta valida l’esigenza di evitare la "fiera del mitomane" ma, d’altra parte, va anche garantito che parti consistenti del corpo elettorale si possano organizzare (attraverso raccolte di firme) per esprimere candidature diverse da quelle che proverranno dal mondo delle istituzioni. Inoltre, oltre i limiti della materia trattata dalla Bicamerale, alle soglie del terzo millennio va finalmente regolato lo stato giuridico del partito: una vecchia battaglia "garantista" da riprendere e far giungere in porto. Se la nuova legge sul finanziamento pubblico deve essere rivista nei suoi tratti meno gradevoli (penso all’anticipo dei 160 miliardi di quest’anno, che non potrà essere riproposto), il suo principio di fondo - lasciare al contribuente la scelta di finanziare o meno la politica attraverso una sorta di contributo volontario - penso debba essere difeso e addirittura sviluppato. Per quel che riguarda l’ultimo aspetto al quale Lei faceva riferimento - l’eccessiva frammentazione partitica - debbo innanzi tutto notare come in questi ultimi anni ciò non sia dipeso tanto dal meccanismo elettorale. Infatti, le liste che hanno conseguito eletti sono state in numero esiguo mentre in seguito - al momento di costituire i gruppi parlamentari o di comunicare all’esterno la propria appartenenza partitica - il quadro si è frammentato. In ogni caso, ritengo che sia necessario pensare ad una soglia di sbarramento più alta rispetto a quella del 4 per cento.

Lei, comunque, concorda con me che la legge elettorale proposta determina, anche nel lungo periodo, la fine del sogno di raggiungere un tendenziale bipartitismo: tramontano i "partiti di coalizione" e trionfano le "coalizioni di partiti"...

Concordo fino ad un certo punto. Il bipolarismo, che la legge elettorale proposta rafforza, può infatti essere anche concepito come una tappa intermedia sulla strada del bipartitismo. E raggiungere una tappa realistica in politica è spesso più fruttuoso che sacrificare tutto ad una impossibile utopia. A tal proposito faccio una digressione pertinente: un sistema coerentemente maggioritario a doppio turno - che il Pds ha proposto e che "esteticamente" appare senz’altro più rassicurante - non è stato rigettato dal Polo per bassi calcoli di bottega, così come è stato sostenuto. Il vero motivo è che quella proposta in questo momento storico avrebbe portato alla nascita di un terzo polo, formato dalla confluenza dei vari spezzoni sorti dall’esplosione della Dc (Popolari, Ccd, Cdu), che per legittima difesa si sarebbero ritrovati insieme. Se Lei si va a rileggere, su questo punto, il discorso di De Mita in Bicamerale, si renderà conto di come ciò che dico fosse ben presente agli occhi degli ex democristiani. Così, per conquistare una legge in apparenza più avanzata, avremmo corso il rischio di perdere ciò che di più importante il processo di transizione è riuscito a determinare: la bipolarizzazione della vita politica e l’alternanza degli schieramenti al governo, accettata come legittima da tutti i principali attori dello scontro politico. Questo bipolarismo è ancora incerto, pieno di debolezze e contraddizioni. Meglio rafforzare quanto abbiamo, piuttosto che spingersi in avanti nel tentativo di acchiappare utopie. E in questo contesto anche la candidatura di Di Pietro nell’Ulivo rafforza, almeno apparentemente, il bipolarismo.

Se il bipolarismo è un orizzonte obbligatorio, vale la pena analizzare da più vicino i problemi del Polo, del quale il Suo partito fa parte. L’evoluzione politica a livello continentale - penso, in particolare, alle ultime elezioni francesi - sembra suggerirci che, per vincere, non sia più sufficiente cercare di sommare l’elemento liberale con quello conservatore. Quale strada politica alternativa il Polo può allora immaginare?

Il Polo non è stato in passato e non è oggi una aggregazione di tipo liberal-conservatore. È il tentativo d’individuare un minimo comun denominatore, portato avanti da quelle forze che, pur avendo tradizioni culturali diverse, si sono trovate insieme contro la sinistra e la continuità che essa incarnava. In questa aggregazione è possibile rintracciare tre anime: una liberale, una nazionale, una cattolica. Il problema di fronte al quale ci si trova è individuare il percorso attraverso il quale plasmare queste tre tradizioni in una proposta politica univoca e vincente. In tal senso, ritengo che bisogna relativizzare l’importanza delle indicazioni che provengono dal contesto europeo. Credo che l’andamento elettorale nel continente abbia a che vedere assai più con la logica di fondo del trattato di Maastricht che con l’evoluzione delle ideologie. La politica monetarista da esso imposta agli Stati nazionali porta i governi che l’hanno gestita ad essere, inevitabilmente, puniti dagli elettori. Azzardo, in tal senso, una previsione a rischio di smentita: lungo questa deriva anche Kohl perderà le elezioni.

Per individuare gli "avversari" che hanno consentito al Polo di ritrovarsi, Lei usa il concetto di "sinistra". Le chiedo, allora: che senso ha oggi parlare ancora di "destra" e di "sinistra" quando si fa riferimento alla ricerca di nuovi orizzonti politici e culturali? Di fronte alla babele di linguaggi e proposte che vien fuori sia a destra sia a sinistra - penso, in particolare, al recente convegno dei giovani della destra, dove le distanze culturali si sono rilevate abissali - non bisogna iniziare ad abbandonare la comodità di certe categorie a favore di una maggiore precisione e determinatezza? Insomma, non crede che sia giunta l’ora di arrischiarsi oltre la destra, e non limitarsi più solo ad oltrepassare il Polo?

L’identità del Polo somiglia ancora all’abito di Arlecchino: è la somma spesso confusa di identità diverse. Abbiamo, però, il tempo di compiere un percorso in quanto il governo Prodi, per ragioni di carattere europeo e per l’attivarsi del meccanismo delle riforme, è destinato a durare a lungo. D’altro canto, io credo che sia giusto così: non possiamo passare da un ribaltone ad un altro ribaltone e dobbiamo noi per primi dimostrare di voler essere coerenti con quella logica dell’alternanza - per la quale chi vince governa e chi perde si prepara alla successione - che avremmo voluta rispettata dai nostri avversari. Impegnamoci, dunque, affinché il tempo a disposizione sia utilizzato per giungere a selezionare una proposta unitaria del Polo ed un’identità comune. Se per far questo sarà necessario oltrepassare i confini della destra - sia a livello ideologico sia a livello politico - non sarà da noi che verranno opposizioni. Io sono d’accordo con Lei: "destra" e "sinistra" sono concetti forti che risalgono alla storia del Novecento, così come si è sviluppata dalla fine della prima guerra mondiale fino alla caduta del Muro. Quell’epoca è finita: non vi è dubbio che gli sviluppi geopolitici di questi ultimi anni hanno quasi del tutto svuotato di senso vecchie tradizioni ed antiquate categorie. La politica va ripensata e, con essa, i suoi strumenti. Prima si è parlato di partiti: provocatoriamente Le dirò che anche essi - almeno così come ricorrono nel nostro immaginario - appartengono al mondo di ieri. Quel che resta sono alcuni valori di fondo che non si possono gettare assieme all’acqua sporca; che vanno recuperati ed iscritti in nuovi contesti. E resta il fatto che, per comodità ed omaggio ad una logica binaria, continueremo ancora a lungo a denominarci "destra" e "sinistra"...

Lei accenna al percorso per la conquista di un’identità comune. Reputa una buona partenza il varo della "strana coppia" Borghini-Buontempo per la conquista del Campidoglio? In questa scelta non potrebbe scorgersi la ripetizione "in sedicesimi" dell’errore compiuto da Chirac, quando al secondo turno delle elezioni legislative ha creduto di potersi salvare mettendo insieme Séguin e Madelin: due uomini che esprimono proposte difficilmente conciliabili e, dunque, insieme poco credibili...

Io credo che il valore della sintesi "Borghini più Buontempo" dipenderà in gran parte dal programma che essi presenteranno. Se dovessimo trovarci di fronte ad un programma del sindaco ed un programma del vice-sindaco avrebbe ragione Lei: saremmo alla pura sommatoria di due elettorati potenziali, ma nella realtà non componibili. Se si dovesse arrivare ad una proposta unitaria ed originale, beh, la cosa sarebbe assai diversa e più interessante...

Lei, però, concorderà con me che oggi in politica più del programma contano la faccia e la storia dei candidati...

Non c’è dubbio, anche se non è di per sé un fatto positivo. D’altro canto, Lei deve considerare che oggi il politico deve avere un orizzonte ideale di riferimento ma, soprattutto, deve avere presente la contingenza nella quale opera. Non può più permettersi - per fortuna - di sacrificare il quotidiano all’estetica di una sintesi culturale valida. Ebbene, in tale contesto, il centro-destra non poteva fare di meglio. Non poteva e non può permettersi di fermarsi in attesa di raggiungere un’identità più definita e più soddisfacente. Perché, vede, l’altro schieramento non ha problemi d’identità minori rispetto a noi, e pure continua ad andare avanti con una spregiudicatezza che, a volte, in politica paga. Pensi solo a quanta disinvoltura c’è stata da parte della sinistra, al momento delle elezioni nazionali, nell’"operazione Dini" ed, oggi, con l’"operazione Di Pietro".

Veniamo ad An e, in particolare, a quanto è stato fatto da Fiuggi ad oggi. Sottopongo alla Sua attenzione alcune grandi questioni. Partiamo dalla cosiddetta "forma-partito". È stato Lei a mettere l’accento sui mutamenti epocali ai quali si sta assistendo nel campo dell’organizzazione e della socializzazione politica. An verso quale modello di partito si muove?

Sarà questa una delle sezioni portanti della Conferenza programmatica. L’occasione che stiamo preparando non sarà un’altra Fiuggi, né proporrà nuovi "strappi". D’altra parte, una forza politica che propone uno strappo a stagione perde credibilità e fa perdere credibilità agli "strappi" proposti. C’è però un’altra ragione al fondo di tale scelta: le tesi di Fiuggi restano valide. Quel che va verificato è il loro grado di penetrazione nel corpo vivo del partito, il livello della loro attuazione e la loro traduzione programmatica. Se si è scelto di dedicare una sezione al modello di partito è perché si è convinti che le idee marcino sulle gambe degli uomini e che, dunque, anche il miglior programma resta lettera morta se non ci si dà gli strumenti per realizzarlo. Per quanto riguarda l’edificazione del nuovo partito, il bilancio da Fiuggi ad oggi è pieno di luci ed ombre. In periferia si registra spesso ancora una scarsa apertura ad esperienze diverse da quelle selezionate dalla nostra provenienza. Sarò più preciso: nel momento in cui si è deciso di fare una cosa nuova, non ha più senso domandarsi se chi vuole aderirvi sia un ex democristiano ovvero un ex socialista. Se persiste la diffidenza nei riguardi di tali soggetti, non si capisce perché in altri ambiti dovrebbe venir meno la diffidenza nei riguardi degli ex missini... Tutto ciò vale, ovviamente, nel caso in cui chi entra in una esperienza nuova voglia parteciparvi su un piano di parità e non come "corpo separato", puntando a trasferire sul carro del vincitore, vero o presunto, legami, amicizie, abitudini provenienti dalla passata militanza politica. Per farLe un esempio diverso, Le dirò che a Roma la situazione è, invece, del tutto differente. E non è un caso che una diversa apertura abbia prodotto anche soluzioni organizzative inedite ed innovative. Qui, ad una rete territoriale tradizionale è stata abbinata una struttura organizzativa che ha come riferimento l’ambiente nel quale l’individuo opera nella sua quotidianità. E sono possibili anche "doppie adesioni". Persino Rifondazione, in uno studio presentato sulla sua rivista teorica, si è accorta del valore e dell’originalità di questa ipotesi organizzativa.

E per quel che riguarda la creazione di una nuova classe politica, anche in questo caso può presentarsi un bilancio di luci ed ombre? Non La preoccupa che vi siano intellettuali che, magari, nel segreto dell’urna voteranno anche per il Polo, ma che ritengono la sua classe politica "impresentabile"?

È questo un giudizio ingeneroso che nasce da una verve polemica che non ci deve offendere bensì stimolare. Il problema è che, se si ammette che la politica sta cambiando, si deve anche accettare il fatto che mutano i percorsi e gli strumenti atti alla selezione della classe dirigente. Il cursus honorum politico tradizionale - federazione giovanile, Consiglio comunale, incarico di partito, Parlamento - è venuto meno e, contestualmente, sta svanendo l’illusione di attingere la classe politica dalla cosiddetta società civile. Serve, dunque, una nuova definizione del dirigente politico, che a tutt’oggi manca tanto a destra quanto a sinistra. Tutto ciò provoca una difficoltà, che non è solo del Polo ma dell’intero sistema politico. Forse, per quanto riguarda il Polo, essa è più evidente solo perché il nostro schieramento ha una minore "riserva" che proviene dal passato; attinge meno dei suoi avversari al "residuo" della vecchia classe politica. Così, d’altro canto, si spiega anche la maggiore attenzione che i giovani hanno verso di noi. Ed è proprio sui giovani che dovremo puntare...

Questa attenzione non è una novità assoluta. Basta ricordare i successi del Fuan nelle università negli anni Cinquanta. In quei casi, però, si trattava di atteggiamenti provvisori, destinati nella maggior parte dei casi a modificarsi con la maturità. È così ancora oggi?

Non credo che l’attenzione dei giovani sia una moda. Ritengo sia l’espressione di un senso di disagio, anche confuso, che fa riferimento a bisogni sia di carattere materiale sia di carattere ideale. I giovani sentono che nel nostro schieramento vi è più attenzione ai loro problemi in quanto siamo meno interessati a salvaguardare i "già garantiti", a conservare quella massa di privilegi che provengono dalla corruzione di vecchi miti della sinistra e che oggi colpiscono innanzi tutto la generazione più giovane e le sue possibilità vitali. Inoltre, i giovani hanno compreso che il mito dell’uguaglianza non può tradursi nell’assenza di selezione e di gerarchia. Si deve essere uguali ai posti di partenza, poi deve andare avanti chi è più capace, ed una società ordinata è una società in cui la gerarchia è gerarchia dei valori.

Un’ultima questione. Lei ha confermato la validità delle tesi di Fiuggi. Vediamo se è possibile emendarle almeno su un punto. In quelle tesi, tra i pensatori ai quali An intenderebbe ispirarsi, erano inseriti, tra gli altri, Gentile, Pareto, Marinetti, D’Annunzio, Rocco, Spirito. E nel patrimonio culturale, erano ricompresi Dante, Machiavelli, Rosmini, Gioberti, Mazzini, fino a raggiungere Gramsci...

Quella parte delle nostre tesi fu scritta in fretta e male fu interpretata. Pur ammettendo che debba ancora esistere la biblioteca ideale di un iscritto ad un partito - ed io non sono affatto persuaso che ciò sia necessario - nessuno voleva allineare gli autori ai quali Lei ha fatto riferimento sullo scaffale del "buon militante" di An. L’operazione era un’altra: riaffermare che ogni nazione possiede una cultura unitaria, patrimonio indiviso e condiviso nel quale devono essere compresi anche i testi di alto valore dei propri avversari politici. Si trattava di un passaggio verso la conquista della normalità politica per la nostra Patria. Oggi vi è forse la possibilità di proporre una selezione più rigorosa, che tenga in maggior conto sia il pensiero dei nostri intellettuali sia la nostra evoluzione. In tal senso, mi sentirei di avanzare i nomi di tre autori dei quali due non compresi nelle tesi di Fiuggi: Einaudi, Sturzo e Gentile; un liberale, un cattolico ed un liberal-nazionalista.

E a livello della tradizione culturale continentale, se dovesse indicare il nome di un intellettuale che possa "forzare" il percorso nel quale An è impegnata?

Popper, prima di ogni altro.

Gaetano Quagliariello


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1997