Intervista
a Gianfranco Fini
DA DESTRA VERSO
UNA NUOVA FORMA DI PARTITO
di Gaetano Quagliariello
DOMANDA: Onorevole
Fini, Lei è stato indicato come il vero vincitore della Bicamerale.
Innanzitutto dai suoi "avversari": Scalfaro lo ha detto senza
mezzi termini; D’Alema ha indicato Lei come il nuovo vero leader del Polo.
Non è né questo il momento, né questa la sede per prender posizione a
favore o contro le conclusioni della Commissione. D’altra parte, non si può
fare a meno di chiederLe conto di alcuni problemi aperti che suscitano
perplessità anche in chi non ha un atteggiamento di pregiudiziale
opposizione. Provo ad indicargliene quattro: la cosiddetta soluzione
federale che, in realtà, propone un assetto dei rapporti centro-periferia
non del tutto convincente; la correlata proposta di nuovo bicameralismo con
la "protesi" di una terza Camera; la giustizia sulla quale la
Commissione ha rinviato le sue scelte; la legge elettorale che, in ogni
caso, segna un arretramento sulla via della conquista di un sistema
compiutamente maggioritario...
RISPOSTA: I
riconoscimenti degli avversari, in questo caso, non sono né sgraditi, né
suscitano sospetti. Essi registrano il ruolo di co-protagonista che siamo
riusciti ad assumere in Commissione ed il fatto che la scelta più
imprevista - l’elezione diretta del capo dello Stato - sia da sempre nel
programma riformista della destra politica e nelle aspettative del mio
partito. Prendo atto con piacere che Ideazione ha un atteggiamento critico -
proprio di chi vuol capire, cercare d’influire e poi orientarsi - e non un
atteggiamento di aprioristico rigetto delle soluzioni adottate. Il percorso
per le riforme è ancora lungo ed il passaggio parlamentare è pieno
d’incognite. In questa fase non è utile al Paese chi si affanna già ad
organizzare il dissenso precostituito, così come non servono adesioni
aprioristiche a un prodotto certamente perfettibile. Servono forze critiche
che si sforzino d’influire sui processi aperti per migliorare quanto è
stato ottenuto: un risultato che, è inutile negarlo, è stato
compromissorio ed imperfetto e, d’altra parte, non sarebbe potuto essere
altrimenti. Soprattutto, servono forze intellettuali e d’opinione pubblica
che sappiano impedire che il Parlamento possa peggiorare il risultato del
lavoro della Commissione.
Sulla base di queste premesse passo a rispondere alla Sua domanda. Procederò
per punti.
Primo, il federalismo. La "bozza d’Onofrio" non poteva subire
sorte differente da quella che le è toccata. Si trattava di un testo troppo
avanzato, che avrebbe comportato rischi reali d’indebolimento ulteriore
dello Stato centrale. Si deve avere il coraggio di affermare che la
soluzione alla quale si è pervenuti non comporta una vera riforma in senso
federale, bensì accentua un processo di riconoscimento di autonomia
legislativa e di decentramento, non solo a livello amministrativo, che dà
competenze assai rilevanti a Comuni, Province e Regioni, rimanendo però
nell’ambito di un’organizzazione generale dello Stato che non è di tipo
federale. In futuro, si potrà anche giungere al federalismo, ma oggi questa
scelta avrebbe portato alla "separazione di fatto" del Nord:
avrebbe messo in moto un processo di federalismo a più velocità il cui
risultato non sarebbe potuto essere diverso dalla disgregazione dello Stato.
Secondo, il bicameralismo. Quando in Bicamerale è venuto al pettine questo
nodo, è emersa una divisione trasversale in seno alla Commissione. In
particolare, il problema di creare una "Camera delle regioni" si
scontrava con opposizioni molto forti in seno ai partiti. Questo dissenso
non è da sottovalutare: sono convinto che qui si trova lo scoglio
principale per il passaggio della riforma in Parlamento. In sede
parlamentare, lo vedremo, le opposizioni maggiori saranno quelle nei
riguardi della diminuzione del numero dei deputati e della perdita di un
ruolo paritario da parte del Senato. Le scelte finali della Commissione sono
state condizionate dalla necessità di tener conto di queste opposizioni e
di prevenirne altre più difficili da sconfiggere. D’altra parte, non
credo si possa affermare che dalla Bicamerale sia stato partorito il
"tricameralismo". La così detta "terza Camera",
infatti, non è altro che la costituzionalizzazione della Conferenza
Stato-Regioni e Stato-Comuni che già esisteva.
Terzo, la legge elettorale: il convitato di pietra. Ha influenzato tutto il
dibattito sulla forma di governo, ma va tenuto presente che la soluzione
adottata - quella di un ordine del giorno che fissa princìpi generali -
lascia margini di possibilità ancora molto ampi. Deve essere molto chiaro,
a questo proposito, che io non sottoscriverò una soluzione che non preveda
una legge elettorale a prevalente impianto maggioritario. Se poi la
preoccupazione è quella avanzata da Mancino - e cioè che con la soluzione
adottata i partiti possano far eleggere un "listone bloccato",
sottraendo al corpo elettorale la possibilità di scegliere i candidati -
dico che la preoccupazione è legittima e che devono trovarsi i correttivi
necessari: gli eletti, con la cosiddetta "quota di governabilità",
potranno essere scelti con un meccanismo analogo a quello oggi vigente per i
senatori eletti dalla quota proporzionale, cioè attraverso il recupero dei
candidati non eletti nei collegi uninominali con la percentuale di voti più
alta. Non credo, d’altro canto, che il prevalente impianto maggioritario
sia in contrasto con la previsione di un "premio di governabilità"
che garantisca la stabilità dell’esecutivo. La previsione di questo
meccanismo è, infatti, una svolta nella storia d’Italia che va nel senso
dell’accettazione, nel profondo delle coscienze, della logica di fondo del
maggioritario. Non si dimentichi che fino a poco tempo fa una simile
soluzione sarebbe stata considerata una truffa...
Quarto, la giustizia. Smentisco che la scelta di non votare gli emendamenti
alla "bozza Boato" sia stata una soluzione "pilatesca"
o, peggio ancora, un cedimento di fronte a pressioni e ricatti. Si è
trattato, invece, di una scelta di grande responsabilità politica da parte
di tutti e, in particolare, da parte del Polo. Non bisogna, infatti,
sottovalutare le contingenze: mentre si stava passando alla votazione degli
emendamenti, erano pronti i leghisti ad intervenire con l’unico scopo di
incendiare il clima politico e far fallire tutto. L’accantonamento degli
emendamenti non significa la loro liquidazione. Quando, a settembre, i
lavori della Commissione riprenderanno, quegli emendamenti verranno rimessi
ai voti e su di essi il Polo condurrà fino in fondo la sua battaglia.
Insomma, da parte
Sua una difesa su tutta la linea delle conclusioni della Commissione...
No, ma voglio essere
ancora più esplicito. La Commissione non poteva che produrre un risultato
di compromesso, così come ogni processo costituente nella storia delle
istituzioni. D’altro canto, questo compromesso era necessario affinché la
politica riguadagnasse la propria centralità ed una nuova legittimità. Chi
oggi si sforza di dimostrare che il compromesso raggiunto è indecente, in
molti casi lo fa in nome di poteri che non vogliono perdere il centro della
scena e, perciò, non vogliono che la politica riguadagni credibilità. Mi
riferisco, in particolare, ai rappresentanti di una "tecnocrazia"
che con i governi Ciampi e Dini e con il "tentativo Maccanico"
sembrava aver ormai stabilmente assunto un ruolo centrale all’interno del
potere politico. Mi riferisco anche ad alcune procure, che per un certo
periodo hanno svolto un ruolo di supplenza politica ed oggi non hanno
compreso che è giunto il momento di rientrare nell’alveo di poteri
costituzionalmente definiti e fissati dal Parlamento.
Lei si riferisce
ad una nuova centralità della politica. Dovrà però riconoscere che tra
quanti hanno espresso perplessità sui lavori della Bicamerale vi è anche
chi non lo ha fatto in nome di altri poteri, ma perché ha scorto nel
sistema proposto una logica doppia e contraddittoria: da un lato, un ampio
spazio riservato ancora ai partiti ed alle loro oligarchie nella previsione
del lavoro parlamentare, nei meccanismi di finanziamento della politica,
nella forte frammentazione delle formazioni incoraggiata dalla legge
elettorale; dall’altro, un presidente che in tale contesto potrebbe
prestarsi ad essere il punto di riferimento di un’opposizione ai partiti
cronica e permanente. Insomma, non teme che vi sia il rischio che la ricerca
di una nuova centralità della politica possa incontrare un piano inclinato
e scivolare verso un nuovo lacerante confronto tra partitocrazia ed
antipartitocrazia?
Nella mia concezione
"centralità della politica" e "partitocrazia" non solo
non sono concetti coincidenti ma, addirittura, devono considerarsi
antitetici. Quando parlo di ripristino della centralità della politica mi
riferisco, soprattutto, all’esigenza di mettere ordine tra i poteri. In
tale quadro, anche i partiti devono trovare i loro spazi d’agibilità:
spazi legittimi ma ferreamente limitati. Io credo che ci si stia muovendo in
questa direzione. È vero, infatti, che il "tasso di
presidenzialismo" non è quello che avremmo sperato e che avrebbe
garantito un perfetto equilibrio al sistema. D’altro canto, il "tasso
di partecipazione popolare" che la nuova Carta consentirà è
addirittura maggiore di quello che avevamo immaginato. Oltre all’elezione
diretta del presidente, va tenuto presente che sono stati previsti:
l’istituto del referendum propositivo; la possibilità per il singolo
cittadino di ricorrere alla Corte Costituzionale; i meccanismi atti ad
ottenere un’indicazione chiara, da parte del corpo elettorale, della
maggioranza che deve governare. Sono tutte tessere di un mosaico che, se
correttamente composto, esalterà la politica e nel contempo limiterà molto
il potere dei partiti. In tal senso, è possibile spingersi anche oltre:
vanno riviste le norme che regolano le candidature alla presidenza della
Repubblica. Resta valida l’esigenza di evitare la "fiera del
mitomane" ma, d’altra parte, va anche garantito che parti consistenti
del corpo elettorale si possano organizzare (attraverso raccolte di firme)
per esprimere candidature diverse da quelle che proverranno dal mondo delle
istituzioni. Inoltre, oltre i limiti della materia trattata dalla
Bicamerale, alle soglie del terzo millennio va finalmente regolato lo stato
giuridico del partito: una vecchia battaglia "garantista" da
riprendere e far giungere in porto. Se la nuova legge sul finanziamento
pubblico deve essere rivista nei suoi tratti meno gradevoli (penso
all’anticipo dei 160 miliardi di quest’anno, che non potrà essere
riproposto), il suo principio di fondo - lasciare al contribuente la scelta
di finanziare o meno la politica attraverso una sorta di contributo
volontario - penso debba essere difeso e addirittura sviluppato. Per quel
che riguarda l’ultimo aspetto al quale Lei faceva riferimento -
l’eccessiva frammentazione partitica - debbo innanzi tutto notare come in
questi ultimi anni ciò non sia dipeso tanto dal meccanismo elettorale.
Infatti, le liste che hanno conseguito eletti sono state in numero esiguo
mentre in seguito - al momento di costituire i gruppi parlamentari o di
comunicare all’esterno la propria appartenenza partitica - il quadro si è
frammentato. In ogni caso, ritengo che sia necessario pensare ad una soglia
di sbarramento più alta rispetto a quella del 4 per cento.
Lei, comunque,
concorda con me che la legge elettorale proposta determina, anche nel lungo
periodo, la fine del sogno di raggiungere un tendenziale bipartitismo:
tramontano i "partiti di coalizione" e trionfano le
"coalizioni di partiti"...
Concordo fino ad un
certo punto. Il bipolarismo, che la legge elettorale proposta rafforza, può
infatti essere anche concepito come una tappa intermedia sulla strada del
bipartitismo. E raggiungere una tappa realistica in politica è spesso più
fruttuoso che sacrificare tutto ad una impossibile utopia. A tal proposito
faccio una digressione pertinente: un sistema coerentemente maggioritario a
doppio turno - che il Pds ha proposto e che "esteticamente" appare
senz’altro più rassicurante - non è stato rigettato dal Polo per bassi
calcoli di bottega, così come è stato sostenuto. Il vero motivo è che
quella proposta in questo momento storico avrebbe portato alla nascita di un
terzo polo, formato dalla confluenza dei vari spezzoni sorti
dall’esplosione della Dc (Popolari, Ccd, Cdu), che per legittima difesa si
sarebbero ritrovati insieme. Se Lei si va a rileggere, su questo punto, il
discorso di De Mita in Bicamerale, si renderà conto di come ciò che dico
fosse ben presente agli occhi degli ex democristiani. Così, per conquistare
una legge in apparenza più avanzata, avremmo corso il rischio di perdere ciò
che di più importante il processo di transizione è riuscito a determinare:
la bipolarizzazione della vita politica e l’alternanza degli schieramenti
al governo, accettata come legittima da tutti i principali attori dello
scontro politico. Questo bipolarismo è ancora incerto, pieno di debolezze e
contraddizioni. Meglio rafforzare quanto abbiamo, piuttosto che spingersi in
avanti nel tentativo di acchiappare utopie. E in questo contesto anche la
candidatura di Di Pietro nell’Ulivo rafforza, almeno apparentemente, il
bipolarismo.
Se il bipolarismo
è un orizzonte obbligatorio, vale la pena analizzare da più vicino i
problemi del Polo, del quale il Suo partito fa parte. L’evoluzione
politica a livello continentale - penso, in particolare, alle ultime
elezioni francesi - sembra suggerirci che, per vincere, non sia più
sufficiente cercare di sommare l’elemento liberale con quello
conservatore. Quale strada politica alternativa il Polo può allora
immaginare?
Il Polo non è stato
in passato e non è oggi una aggregazione di tipo liberal-conservatore. È
il tentativo d’individuare un minimo comun denominatore, portato avanti da
quelle forze che, pur avendo tradizioni culturali diverse, si sono trovate
insieme contro la sinistra e la continuità che essa incarnava. In questa
aggregazione è possibile rintracciare tre anime: una liberale, una
nazionale, una cattolica. Il problema di fronte al quale ci si trova è
individuare il percorso attraverso il quale plasmare queste tre tradizioni
in una proposta politica univoca e vincente. In tal senso, ritengo che
bisogna relativizzare l’importanza delle indicazioni che provengono dal
contesto europeo. Credo che l’andamento elettorale nel continente abbia a
che vedere assai più con la logica di fondo del trattato di Maastricht che
con l’evoluzione delle ideologie. La politica monetarista da esso imposta
agli Stati nazionali porta i governi che l’hanno gestita ad essere,
inevitabilmente, puniti dagli elettori. Azzardo, in tal senso, una
previsione a rischio di smentita: lungo questa deriva anche Kohl perderà le
elezioni.
Per individuare
gli "avversari" che hanno consentito al Polo di ritrovarsi, Lei
usa il concetto di "sinistra". Le chiedo, allora: che senso ha
oggi parlare ancora di "destra" e di "sinistra" quando
si fa riferimento alla ricerca di nuovi orizzonti politici e culturali? Di
fronte alla babele di linguaggi e proposte che vien fuori sia a destra sia a
sinistra - penso, in particolare, al recente convegno dei giovani della
destra, dove le distanze culturali si sono rilevate abissali - non bisogna
iniziare ad abbandonare la comodità di certe categorie a favore di una
maggiore precisione e determinatezza? Insomma, non crede che sia giunta
l’ora di arrischiarsi oltre la destra, e non limitarsi più solo ad
oltrepassare il Polo?
L’identità del Polo
somiglia ancora all’abito di Arlecchino: è la somma spesso confusa di
identità diverse. Abbiamo, però, il tempo di compiere un percorso in
quanto il governo Prodi, per ragioni di carattere europeo e per
l’attivarsi del meccanismo delle riforme, è destinato a durare a lungo.
D’altro canto, io credo che sia giusto così: non possiamo passare da un
ribaltone ad un altro ribaltone e dobbiamo noi per primi dimostrare di voler
essere coerenti con quella logica dell’alternanza - per la quale chi vince
governa e chi perde si prepara alla successione - che avremmo voluta
rispettata dai nostri avversari. Impegnamoci, dunque, affinché il tempo a
disposizione sia utilizzato per giungere a selezionare una proposta unitaria
del Polo ed un’identità comune. Se per far questo sarà necessario
oltrepassare i confini della destra - sia a livello ideologico sia a livello
politico - non sarà da noi che verranno opposizioni. Io sono d’accordo
con Lei: "destra" e "sinistra" sono concetti forti che
risalgono alla storia del Novecento, così come si è sviluppata dalla fine
della prima guerra mondiale fino alla caduta del Muro. Quell’epoca è
finita: non vi è dubbio che gli sviluppi geopolitici di questi ultimi anni
hanno quasi del tutto svuotato di senso vecchie tradizioni ed antiquate
categorie. La politica va ripensata e, con essa, i suoi strumenti. Prima si
è parlato di partiti: provocatoriamente Le dirò che anche essi - almeno
così come ricorrono nel nostro immaginario - appartengono al mondo di ieri.
Quel che resta sono alcuni valori di fondo che non si possono gettare
assieme all’acqua sporca; che vanno recuperati ed iscritti in nuovi
contesti. E resta il fatto che, per comodità ed omaggio ad una logica
binaria, continueremo ancora a lungo a denominarci "destra" e
"sinistra"...
Lei accenna al
percorso per la conquista di un’identità comune. Reputa una buona
partenza il varo della "strana coppia" Borghini-Buontempo per la
conquista del Campidoglio? In questa scelta non potrebbe scorgersi la
ripetizione "in sedicesimi" dell’errore compiuto da Chirac,
quando al secondo turno delle elezioni legislative ha creduto di potersi
salvare mettendo insieme Séguin e Madelin: due uomini che esprimono
proposte difficilmente conciliabili e, dunque, insieme poco credibili...
Io credo che il valore
della sintesi "Borghini più Buontempo" dipenderà in gran parte
dal programma che essi presenteranno. Se dovessimo trovarci di fronte ad un
programma del sindaco ed un programma del vice-sindaco avrebbe ragione Lei:
saremmo alla pura sommatoria di due elettorati potenziali, ma nella realtà
non componibili. Se si dovesse arrivare ad una proposta unitaria ed
originale, beh, la cosa sarebbe assai diversa e più interessante...
Lei, però,
concorderà con me che oggi in politica più del programma contano la faccia
e la storia dei candidati...
Non c’è dubbio,
anche se non è di per sé un fatto positivo. D’altro canto, Lei deve
considerare che oggi il politico deve avere un orizzonte ideale di
riferimento ma, soprattutto, deve avere presente la contingenza nella quale
opera. Non può più permettersi - per fortuna - di sacrificare il
quotidiano all’estetica di una sintesi culturale valida. Ebbene, in tale
contesto, il centro-destra non poteva fare di meglio. Non poteva e non può
permettersi di fermarsi in attesa di raggiungere un’identità più
definita e più soddisfacente. Perché, vede, l’altro schieramento non ha
problemi d’identità minori rispetto a noi, e pure continua ad andare
avanti con una spregiudicatezza che, a volte, in politica paga. Pensi solo a
quanta disinvoltura c’è stata da parte della sinistra, al momento delle
elezioni nazionali, nell’"operazione Dini" ed, oggi, con
l’"operazione Di Pietro".
Veniamo ad An e,
in particolare, a quanto è stato fatto da Fiuggi ad oggi. Sottopongo alla
Sua attenzione alcune grandi questioni. Partiamo dalla cosiddetta
"forma-partito". È stato Lei a mettere l’accento sui mutamenti
epocali ai quali si sta assistendo nel campo dell’organizzazione e della
socializzazione politica. An verso quale modello di partito si muove?
Sarà questa una delle
sezioni portanti della Conferenza programmatica. L’occasione che stiamo
preparando non sarà un’altra Fiuggi, né proporrà nuovi
"strappi". D’altra parte, una forza politica che propone uno
strappo a stagione perde credibilità e fa perdere credibilità agli
"strappi" proposti. C’è però un’altra ragione al fondo di
tale scelta: le tesi di Fiuggi restano valide. Quel che va verificato è il
loro grado di penetrazione nel corpo vivo del partito, il livello della loro
attuazione e la loro traduzione programmatica. Se si è scelto di dedicare
una sezione al modello di partito è perché si è convinti che le idee
marcino sulle gambe degli uomini e che, dunque, anche il miglior programma
resta lettera morta se non ci si dà gli strumenti per realizzarlo. Per
quanto riguarda l’edificazione del nuovo partito, il bilancio da Fiuggi ad
oggi è pieno di luci ed ombre. In periferia si registra spesso ancora una
scarsa apertura ad esperienze diverse da quelle selezionate dalla nostra
provenienza. Sarò più preciso: nel momento in cui si è deciso di fare una
cosa nuova, non ha più senso domandarsi se chi vuole aderirvi sia un ex
democristiano ovvero un ex socialista. Se persiste la diffidenza nei
riguardi di tali soggetti, non si capisce perché in altri ambiti dovrebbe
venir meno la diffidenza nei riguardi degli ex missini... Tutto ciò vale,
ovviamente, nel caso in cui chi entra in una esperienza nuova voglia
parteciparvi su un piano di parità e non come "corpo separato",
puntando a trasferire sul carro del vincitore, vero o presunto, legami,
amicizie, abitudini provenienti dalla passata militanza politica. Per farLe
un esempio diverso, Le dirò che a Roma la situazione è, invece, del tutto
differente. E non è un caso che una diversa apertura abbia prodotto anche
soluzioni organizzative inedite ed innovative. Qui, ad una rete territoriale
tradizionale è stata abbinata una struttura organizzativa che ha come
riferimento l’ambiente nel quale l’individuo opera nella sua quotidianità.
E sono possibili anche "doppie adesioni". Persino Rifondazione, in
uno studio presentato sulla sua rivista teorica, si è accorta del valore e
dell’originalità di questa ipotesi organizzativa.
E per quel che
riguarda la creazione di una nuova classe politica, anche in questo caso può
presentarsi un bilancio di luci ed ombre? Non La preoccupa che vi siano
intellettuali che, magari, nel segreto dell’urna voteranno anche per il
Polo, ma che ritengono la sua classe politica "impresentabile"?
È questo un giudizio
ingeneroso che nasce da una verve polemica che non ci deve offendere bensì
stimolare. Il problema è che, se si ammette che la politica sta cambiando,
si deve anche accettare il fatto che mutano i percorsi e gli strumenti atti
alla selezione della classe dirigente. Il cursus honorum politico
tradizionale - federazione giovanile, Consiglio comunale, incarico di
partito, Parlamento - è venuto meno e, contestualmente, sta svanendo
l’illusione di attingere la classe politica dalla cosiddetta società
civile. Serve, dunque, una nuova definizione del dirigente politico, che a
tutt’oggi manca tanto a destra quanto a sinistra. Tutto ciò provoca una
difficoltà, che non è solo del Polo ma dell’intero sistema politico.
Forse, per quanto riguarda il Polo, essa è più evidente solo perché il
nostro schieramento ha una minore "riserva" che proviene dal
passato; attinge meno dei suoi avversari al "residuo" della
vecchia classe politica. Così, d’altro canto, si spiega anche la maggiore
attenzione che i giovani hanno verso di noi. Ed è proprio sui giovani che
dovremo puntare...
Questa attenzione
non è una novità assoluta. Basta ricordare i successi del Fuan nelle
università negli anni Cinquanta. In quei casi, però, si trattava di
atteggiamenti provvisori, destinati nella maggior parte dei casi a
modificarsi con la maturità. È così ancora oggi?
Non credo che
l’attenzione dei giovani sia una moda. Ritengo sia l’espressione di un
senso di disagio, anche confuso, che fa riferimento a bisogni sia di
carattere materiale sia di carattere ideale. I giovani sentono che nel
nostro schieramento vi è più attenzione ai loro problemi in quanto siamo
meno interessati a salvaguardare i "già garantiti", a conservare
quella massa di privilegi che provengono dalla corruzione di vecchi miti
della sinistra e che oggi colpiscono innanzi tutto la generazione più
giovane e le sue possibilità vitali. Inoltre, i giovani hanno compreso che
il mito dell’uguaglianza non può tradursi nell’assenza di selezione e
di gerarchia. Si deve essere uguali ai posti di partenza, poi deve andare
avanti chi è più capace, ed una società ordinata è una società in cui
la gerarchia è gerarchia dei valori.
Un’ultima
questione. Lei ha confermato la validità delle tesi di Fiuggi. Vediamo se
è possibile emendarle almeno su un punto. In quelle tesi, tra i pensatori
ai quali An intenderebbe ispirarsi, erano inseriti, tra gli altri, Gentile,
Pareto, Marinetti, D’Annunzio, Rocco, Spirito. E nel patrimonio culturale,
erano ricompresi Dante, Machiavelli, Rosmini, Gioberti, Mazzini, fino a
raggiungere Gramsci...
Quella parte delle
nostre tesi fu scritta in fretta e male fu interpretata. Pur ammettendo che
debba ancora esistere la biblioteca ideale di un iscritto ad un partito - ed
io non sono affatto persuaso che ciò sia necessario - nessuno voleva
allineare gli autori ai quali Lei ha fatto riferimento sullo scaffale del
"buon militante" di An. L’operazione era un’altra: riaffermare
che ogni nazione possiede una cultura unitaria, patrimonio indiviso e
condiviso nel quale devono essere compresi anche i testi di alto valore dei
propri avversari politici. Si trattava di un passaggio verso la conquista
della normalità politica per la nostra Patria. Oggi vi è forse la
possibilità di proporre una selezione più rigorosa, che tenga in maggior
conto sia il pensiero dei nostri intellettuali sia la nostra evoluzione. In
tal senso, mi sentirei di avanzare i nomi di tre autori dei quali due non
compresi nelle tesi di Fiuggi: Einaudi, Sturzo e Gentile; un liberale, un
cattolico ed un liberal-nazionalista.
E a livello della
tradizione culturale continentale, se dovesse indicare il nome di un
intellettuale che possa "forzare" il percorso nel quale An è
impegnata?
Popper, prima di ogni
altro.
Gaetano
Quagliariello
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