Congetture & confutazioni
UN PAPA TRA MOLTITUDINI
E DESERTO

di Vittorio Mathieu

La sensibilità di Cacciari per certi aspetti della religione - gli angeli, soprattutto - è ben nota. Sul Corriere della Sera, poi, Cacciari mostra non soltanto simpatia, ma comprensione per una situazione in certo senso paradossale, in cui si trova oggi il pontefice romano. Riempie gli stadi di giovani, come i cantautori. È accolto come la massima autorità, e non solo religiosa, nei consessi internazionali. Gli si attribuisce - e, forse, con ragione - il merito di aver usato per primo la fiamma ossidrica per perforare la cortina di ferro. D’altro canto, però, se tutti gli danno ragione - e non per opportunismo, bensì perché persuasi - quando proclama la necessità di ritrovare certi valori, nulla, assolutamente nulla fa presagire che questi valori siano in recupero presso qualcuna delle società, pur così diverse, di tutta la Terra. Si direbbe, anzi, che l’unanimità dei consensi sia dovuta alla constatazione che nulla manca tanto, oggi, quanto appunto ciò che il Papa auspica.

La situazione è simmetrica a quella che pure qualcuno rimpiange (credo tuttavia a torto, e non del tutto sinceramente) della Chiesa perseguitata, e appunto per ciò trionfante: predetta nei Vangeli e addirittura enfatizzata come momento finale della storia nell’Apocalisse. Il momento in cui l’Anticristo, pieno di fascino, s’impadronisce della Terra sarebbe il penultimo, che precede immediatamente la seconda Venuta. Ma oggi non c’è nessun Anticristo in vista. Fino a ieri si poteva presumere d’identificarlo nel comunismo, sinceramente scambiato da qualcuno per un annunzio di salvezza: ma a questo annunzio oggi non finge più di credere neppure Fidel Castro. Senonché, questa mancanza di Anticristo non è appunto ciò che minaccia di svuotare dall’interno il cristianesimo e colui che ha sulle spalle il compito di annunziarlo?

Forse, però, neppure questa situazione paradossale è del tutto nuova per la Chiesa che, in un paio di millenni, ne ha vissute di tutti i colori. Anziché a momenti di derelizione, il momento attuale della Chiesa cattolica va paragonato a momenti di egemonia poco o punto contrastata. Anziché a Pio VI, morto in cattività per opera dei rivoluzionari francesi, dopo aver lottato invano contro tutti i rappresentanti dell’ancien règime, il Papa d’oggi andrebbe forse paragonato a Pio VIII, nel momento in cui il secondo romanticismo rese di moda la Chiesa di Roma e le conversioni di molti intellettuali protestanti segnarono la fine non solo del protestantesimo, ma anche del libero pensiero.

Il pericolo che corre la Chiesa oggi non è paragonabile a quello che correva negli ultimi anni del Settecento, ma piuttosto a quello che corse poco dopo il mezzo del secolo scorso, quando le due principali potenze europee, Francia e Austria, nemiche tra loro in tutto, erano però concordi nel difendere non solo il cattolicesimo, ma il suo stesso potere temporale. A ciò subentrò l’ascesa irresistibile della Germania protestante e guglielmina, nonché la presa di potere da parte delle massonerie anticlericali in Italia e in Francia, così diverse dalla massoneria anglosassone ed anglicana. E ciò sembrò metter fine, nella seconda metà del secolo, a quel momento della prima metà, trionfale e al tempo stesso precatastrofico. Eppure quando, nel 1870, sembrò che la Chiesa fosse destinata a diventare un ricordo storico come il Sacro Romano Impero, proprio allora la catastrofe tornò a preparare una rigenerazione che rese il Vaticano, forte di poche guardie svizzere, più potente dell’Unione Sovietica con tutte le sue divisioni. Adombra questo recupero, dopo il crollo apparente seguìto a una situazione troppo trionfale, un’interpretazione della perdita del potere temporale emersa anni fa nell’ambiente storiografico vicino a Renzo De Felice. Nel settembre del 1870 Roma era piena di preti e assediata da nugoli di liberali che volevano entrare e si trovavano di fronte le mura. Finalmente i bersaglieri aprirono una breccia, i preti poterono uscire e conquistarono l’Italia.

Dobbiamo allora aspettarci, dopo la fase attuale di un Papa che predica non nel deserto, bensì negli stadi affollati, un tracollo paragonabile a quello che nel ’70 seguì ai successi della restaurazione? E possiamo prevedere, dopo il tracollo, un recupero paragonabile agli altri innumerevoli di cui la Chiesa è stata capace? Non tocca a noi il compito di profeti. Ma, se c’è un pericolo insito nella situazione attuale, è che il metro del successo e del fallimento sia divenuto estraneo a quello su cui si misura la vita della Chiesa. O, in altri termini, che i valori predicati dal Pontefice e accolti con tanta acclamazione siano interpretati, non solo fuori della Chiesa, ma al suo stesso interno, come valori mondani, sia pure di solidarietà sociale, di bene comune e via di questo passo. Sulla carità, per lo meno a parole, sono tutti d’accordo. Ma la carità cristiana discende dalla trascendenza, quali che siano le difficoltà teologiche e filosofiche di questo concetto. Non si darà il caso che anche sulla trascendenza siano tutti d’accordo, ma per farne un termine puramente allusivo; e allusivo non a una realtà che solo la fede dischiude all’intelletto, bensì a una socialità tutta mondana, anche se intesa a fare (falsamente) del mondo la sede adatta a un amore universale?

C’è un’ambiguità di fondo nel parlare di valori, e perfino nell’esemplificarli in concreto. È ben possibile che l’entusiasmo con cui il pubblico di una società scristianizzata accetta le prediche del vicario di Cristo si fondi sull’equivoco. E, quel che è peggio, è ben possibile che anche molti di coloro che collaborano istituzionalmente con il vicario di Cristo interpretino in perfetta buona fede (ma non c’è nulla di così pericoloso come la perfezione, anche nella buona fede) i valori cristiani al modo in cui li interpretano i rappresentanti di una variegata e dichiarata secolarizzazione. Ciò spiegherebbe la solitudine che Cacciari acutamente nota nei bagni di folla che circondano il Pastore. Ma per le gerarchie della Chiesa prendere atto di tale solitudine può e deve diventare una cosa soltanto: un’occasione, da non perdersi, per meditare.

Vittorio Mathieu


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1997