An, la "svolta", due anni dopo
NUOVIO GOVERNANTI CRESCONO

di Luciano Lanna
 

Esiste un modello identificante di "amministrazione" locale di destra, così come si era affermato con grande visibilità quello delle giunte rosse? Per l’osservatore esterno e l’analista politico è questa la vera scommessa per An, ancor più che l’affannosa ricerca di legittimazione da parte dell’establishment che sembra animare i vertici del partito di Fini. Se storicamente si cerca un atto di nascita per la destra dell’era post-democristiana esso infatti non va individuato né in Fiuggi, né nella creazione del Polo delle libertà, né tanto meno nella presenza di ministri e sottosegretari di An nel governo Berlusconi, ma negli avvenimenti che nel 1993, in occasione delle elezioni amministrative, hanno spostato milioni di voti in direzione dei candidati missini.

La "rivoluzione" del ’93

In quell’anno l’entrata in vigore della nuova legge per l’elezione diretta dei sindaci e la contemporanea disarticolazione del vecchio sistema partitico a centralità dc ha consentito al Msi di catturare una vasta fetta di opinione pubblica moderata che in precedenza votava per le forze del pentapartito. A partire dalla primavera del ’93, il Msi ha conquistato, da solo o attraverso liste e alleanze civiche, le amministrazioni di centinaia di comuni grandi e piccoli - fra i quali una ventina di capoluoghi -, di otto province, di sette regioni: 254 posti di sindaco, 554 assessorati comunali e oltre 50 incarichi nelle giunte provinciali e regionali, inclusa la presidenza della Regione Campania. Risultati che hanno imposto di fatto una rapida acquisizione di ruoli e competenze.

Personaggi che per anni, per decenni, avevano soltanto condotto battaglie di opposizione e di ostruzionismo si ritrovavano immediatamente ad amministrare. La destra di governo nasceva nei fatti. Poi la candidatura di Fini a sindaco di Roma, la benedizione di Berlusconi, e gli avvenimenti dell’anno successivo hanno determinato il percorso che è arrivato fino a Fiuggi. Ma, in sostanza, il "processo" di Alleanza nazionale è stato in qualche modo preceduto (forse imposto) dall’affermazione dei sindaci missini del ’93. Il fatto poi che il successo elettorale fosse stato determinato soprattutto attraverso liste civiche - che collegavano, seppure in maniera anomala, i quadri missini all’elettorato "orfano" di altri partiti - metteva per la prima volta chiarezza all’eterna questione "irrisolta" del Msi: la politica delle alleanze.

Gli uomini del piccolo partitino della destra di opposizione e "d’alternativa" scoprivano d’un tratto le due dimensioni della politica verso le quali sembravano come condannati da una preclusione divina: l’assunzione di incarichi amministrativi e di governo, la determinazione di una strategia delle alleanze.

Un esercito di quarantenni

Se quindi l’affermazione di centinaia di amministratori locali "di prima nomina" definisce l’origine storica per la prospettiva di una destra di governo, la tenuta e le caratteristiche di questa situazione vanno a diventare il vero banco di prova per il futuro del partito guidato da Gianfranco Fini. Nel ’95, dopo il congresso di fondazione di Fiuggi, le liste elettorali di An sono state aperte a nuovi aderenti che vantavano precedenti esperienze come consiglieri o assessori di partiti di centro, oppure a personaggi non provenienti dal Msi. Eppure una veloce inchiesta sull’identikit dell’amministratore locale medio di Alleanza nazionale mostra una preponderanza di quarantenni, formatisi nelle organizzazioni giovanili missine negli anni Settanta, spesso con anni di opposizione dai banchi dei consigli comunali.

La recente "candidatura" romana di Teodoro Buontempo è solo la punta di un iceberg sul quale occorre riflettere. Con quale categoria spiegare l’affermazione di questo particolare "ceto" politico: il populismo, il radicamento territoriale, un nuovo interclassismo post-democristiano? Una chiave di lettura ce la offre Pasquale Serra, autore del recente Individualismo e populismo. La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio (Datanews, 1997), secondo il quale la classe politica arrivata ad amministrare con il trionfo della destra negli anni Novanta è stata segnata dalle esperienze, dalle suggestioni e dai fermenti del biennio ’76/77, quando cominciava ad entrare in crisi il rapporto dei partiti della sinistra con le istanze più profonde della società italiana. "La destra - scrive Serra - è la prima forza politica che applica rigorosamente i dati della nuova ricerca aperta dal ’77 […] e comincia ad uscire dal ghetto, avvicinandosi per la prima volta agli umori della società. Motore di questo riavvicinamento non è la destra, ma la società". Più avanti si fa riferimento ai tentativi di quegli anni di superare il paradigma neofascista, "al fine di entrare in relazione con i nuovi fermenti della società civile, ormai non più rinchiudibili dentro l’universo di Marx o di Freud". Ed infine: "Se si vuole realmente interloquire con e conquistare il consenso di una società che si avvia ad uscire dai paradigmi della prima Repubblica, una nuova prospettiva occorre costruirla insieme ad essa. La tematica dell’egemonia (il cosiddetto "gramscismo di destra"), alla lunga, trascina questa posizione dentro la democrazia".

Serra, in sostanza, vede una forte sintonia tra le intuizioni e i fermenti della destra giovanile di quegli anni e il processo che si è aperto più di un decennio dopo con Cossiga, il sistema elettorale maggioritario promosso da Segni e gli avvenimenti successivi. È come se i giovani di destra formatisi negli anni Settanta si fossero dotati di una fisionomia che poi si sarebbe rivelata particolarmente adatta per il dialogo con la società degli anni Novanta.

Chi sono, del resto, la gran parte degli attuali amministratori locali di destra e qual è stato il loro "brodo di coltura"? Si tratta, come dicevamo, per lo più di quarantenni che avevano vent’anni circa nel ’75/76, quando trionfava il modello delle giunte rosse, e che nella loro militanza di quel periodo hanno costruito i presupposti dell’attuale "cultura" amministrativa. Qualche nome che corrisponde a questo profilo medio, tra i tanti che si potrebbero fare: Biagio Cacciola, vice-sindaco e assessore alla Cultura del Comune di Frosinone; Carmelo Briguglio, Marzio Tricoli e Nino Strano, rispettivamente assessori alla Formazione, al Bilancio e al Turismo della Regione Sicilia; Marcello Taglialatela e Luciano Schifone, assessori alla Formazione e al Turismo alla Regione Campania; Pasquale Viespoli, sindaco di Benevento; Antonio Cicchetti, sindaco di Rieti; Raffaele Zanon, assessore alle Politiche sociali della Regione Veneto; Giuseppe Tagliente, sindaco di Vasto; Stefano Cetica, neo-sindaco di Cerveteri.

Il cronista potrebbe indagare su questa galassia di amministratori, individuando storie e personaggi, raccontando vicende che potrebbero confermare questa analisi. Su qualche caso simbolico occorre comunque soffermarsi, per tratteggiare le costanti della classe dirigente in formazione di Alleanza nazionale.

Strade d’Europa

"Dovremmo riflettere molto sull’esperienza di personaggi come Burlando o Bersani, capire bene da dove vengono e dove hanno costruito il proprio background…". È chiara l’indicazione di Antonello Trizza, sindaco al secondo mandato di San Vito dei Normanni, in provincia di Brindisi. Alla luce del suo primo quadriennio amministrativo è convinto che il patrimonio di esperienze acquisito dai tanti amministratori di destra non deve andare disperso ma, al contrario, può determinare, così come è stato per la sinistra, una classe dirigente in grado di governare il Paese. "La nostra esperienza? È l’antitesi della politica romana, dove non c’è comprensione per ciò che accade realmente negli enti locali e dove, soprattutto, manca l’impatto europeo". Dimensione che paradossalmente si respira subito a San Vito, questo centro agricolo di 21mila abitanti con una piazza principale che ricorda quella del paesino siciliano di Nuovo Cinema Paradiso.

Arrivi lì, dov’è il municipio, e accanto alla Gazzetta del Mezzogiorno trovi nelle edicole la Süddeutsche Zeitung. Sui muri c’è il manifesto in tedesco con le manifestazioni estive di Salzwedel, il centro della Sassonia con cui sono gemellati. "E pensare - ci dice Trizza - che anche in questa vicenda c’è una specie di ironia della storia. Nell’89 l’allora giunta di sinistra che amministrava San Vito decise di gemellarsi con quello che era un paese comunista della Germania est. Chi avrebbe pensato che di lì a qualche mese sarebbe caduto il Muro, che ci sarebbe stata la riunificazione e che Salzwedel avrebbe poi costruito un vero gemellaggio, fatto di intense relazioni e di collaborazione, con un sindaco che viene dal Msi?". E le relazioni internazionali non si fermano qui.

Trizza, che dal ’94 è anche europarlamentare, ha già attivato una serie di gemellaggi con cittadine greche, spagnole e portoghesi, convinto com’è che solo un aggancio dell’identità euromediterranea può rilanciare il nostro Mezzogiorno. Il primo appuntamento è con Igoumenitsa, il paese greco che costituisce la sponda naturale del brindisino. Ma il fiore all’occhiello dell’impegno di questo sindaco è l’euro-sportello: un servizio del Comune per promuovere e aiutare le piccole e medie aziende a muoversi più agilmente sui mercati, ad acquisire le necessarie competenze, a dotarsi delle tecnologie indispensabili. L’iniziativa è stata organizzata in collegamento con la Finpuglia, l’Assindustria, la Cna e il Banco di Napoli. L’obiettivo è quello di candidare al cofinanzamento dell’Unione europea un progetto di assistenza alle piccole e medie imprese e a quelle artigianali.

Ma chi è Antonello Trizza? Nipote di Vincenzo, il primo sindaco eletto a San Vito nel dopoguerra in una lista civica di ispirazione monarchica, è un avvocato di quarantuno anni, con alle spalle una lunga militanza nelle organizzazioni giovanili missine: nel dicembre 1971, a quindici anni, aderisce alla Giovane Italia che poi diventa Fronte della Gioventù, e lì ricopre vari incarichi; nel 1980 diventa consigliere comunale e nei banchi dell’opposizione resta fino al 1993, quando, di colpo, viene candidato a primo cittadino con una lista civica (Msi più cattolici e rappresentanti dell’area laica e socialista) e diventa il primo sindaco di San Vito eletto direttamente dai cittadini. "Fu un fatto sorprendente - ricorda - in un centro che, dopo l’egemonia democristiana degli anni Cinquanta e Sessanta, aveva registrato per oltre un decennio consensi al Pci con punte che andavano oltre il 60 per cento. Ma in quel preciso momento abbiamo saputo comprendere e godere dell’entusiasmo del nuovo. Dopo, certo, le cose sono state diverse…".

Trizza è infatti consapevole della modificazione del quadro politico avvenuta rispetto al biennio ’92/93: "Allora abbiamo avuto la possibilità improvvisa di inserirci nella scomposizione in atto dei vecchi equilibri politici e di riuscire a catalizzare molte energie e consensi. Adesso che un nuovo quadro, per quanto ancora instabile, si è andato determinando, la prospettiva per il nostro ruolo è chiaramente diversa". Non a caso se nel ’93 la sua elezione era avvenuta con Nuove prospettive, una lista civica dai contorni politici ancora indefiniti, soggetto allo "stato nascente" per dirla con Alberoni, nell’aprile del ’97 Trizza si è ripresentato agli elettori candidato dalle liste dei partiti del Polo delle libertà, venendo riconfermato sindaco al primo turno con il 66 per cento dei voti. E, per quanto attiene i voti di lista, An è diventato il primo partito cittadino con il 23 per cento dei consensi. Il sindaco, comunque, non si lascia andare a ragioni di bottega e a patriottismi di partito: "L’eletto oggi è chi riesce ad instaurare un rapporto diretto col cittadino, il resto, i sensi d’appartenenza, le ideologie hanno fatto il loro tempo". Trizza, in proposito, mostra di avere le idee chiare: "Il nostro compito come amministratori è quello di rappresentare la nuova fase del governo delle città. Agli inizi del secolo, l’amministrazione del territorio era nelle mani dei nobili, dei grandi latifondisti. Poi, col fascismo, c’è stato un primo ricambio, l’inserimento di quadri della piccola e media borghesia. Nel dopoguerra c’è la borghesia agraria e quella delle professioni. Negli anni Sessanta è stato il turno del ceto impiegatizio e della sua filosofia dell’amministrazione, quella che poi, degenerando, ha dato origine a Tangentopoli. Oggi, dopo il ’93, sono saltati gli schemi classisti. Il nuovo modello di governo delle città corrisponde in fondo al nuovo assetto della nostra società. Si è instaurato un nuovo rapporto di cittadinanza fondato sulla democrazia diretta. Nostro compito è oggi quello di guidare questo processo, non di vantare un primato nella spartizione partitocratica delle amministrazioni locali". Da questo punto di vista è importante vedere come molti schemi ideologici sono destinati a saltare.

A San Vito dei Normanni, così come in molti altri centri governati dalla destra, è fortissima la collaborazione del Comune con la realtà del volontariato: ottimo il rapporto di collaborazione con la comunità Emmanuel, attiva nel recupero dei tossicodipendenti, come con un centro parrocchiale di soccorso che ha dato alloggio a decine di esuli albanesi. Il sindaco è consapevole di tutto questo: "Di fatto non c’è nessuna identificazione tra An e l’amministrazione. Della mia squadra solo due assessori aderiscono ad Alleanza nazionale, per il resto di tratta di indipendenti e cattolici che in qualche modo si riconoscono nel Polo". Ed è comunque una situazione che, a suo avviso, deve sollecitare una riflessione nei vertici del suo partito: "Dobbiamo ripensare il ruolo dei partiti sul territorio. Gli enti locali e il governo del territorio offrono le condizione per pensare un protagonismo partitico di tipo nuovo e per selezionare una nuova classe dirigente".

Modernizzazione e qualità della vita

Se dal Mezzogiorno agricolo ci spostiamo all’Italia centrale ci si imbatte in un altro interessante esperimento: quello di Colleferro. Centro industriale di ventimila abitanti, a quaranta chilometri a sud di Roma, sorto negli anni Trenta, si era tramutato nel tempo in una cittadina operaia assurta alle cronache per il primato del territorio più inquinato d’Italia, perché lì si è fatto le ossa come manager Cesare Romiti, perché è il paese dell’ex brigatista Barbara Balzarani. Domenico Starnone, il noto professore-scrittore, che per alcuni anni ha insegnato a Colleferro, ne aveva fatto il teatro del suo romanzo Segni d’oro, cambiando metaforicamente il nome della cittadina in Montemori, "il mondo dove si muore".

Negli anni Ottanta Colleferro entra in una fase di crisi senza precedenti. Con un’economia tutta gravitante sull’industria di grandi proporzioni nei settori, tra gli altri, della chimica, degli armamenti e aerospaziale (Bpd, in seguito Snia Viscosa, più il gruppo Fiat e l’Italcementi), nel momento in cui s’impone una ristrutturazione del modello industriale la città viene segnata dalla pesante espulsione di centinaia di lavoratori dalla fabbrica. Per un territorio, che per decenni aveva puntato tutto sul centro motore dell’industria di grandi proporzioni, sembrava l’inizio della fine. Parallela è la latitanza di qualsiasi progetto politico: dopo l’egemonia delle sinistre della metà degli anni Settanta, il centro viene amministrato da giunte a guida dc che contribuiscono ad accentuarne la crisi. E nel vuoto, nei primi anni Novanta, si arriva anche ad una Tangentopoli locale.

Questa realtà è il terreno di formazione dell’attuale sindaco, Silvano Moffa, che a Colleferro vive sin dall’adolescenza. Giovanissimo, nel ’75 è già consigliere comunale d’opposizione per il Msi. Nel ’77 fa parte della pattuglia di ventenni che, eletti nel Comitato centrale missino, determineranno un rinnovamento profondo, nella sensibilità e nelle tematiche, di un partito traumatizzato dalla scissione di Democrazia nazionale. L’impegno di Moffa sia in seno al Msi che in Consiglio comunale sarà molto intenso sul fronte delle battaglie ambientali e per la qualità della vita. Con gli anni Ottanta, intraprende la professione giornalistica ed entra nella Direzione nazionale del partito, fino a raggiungere la carica di capo della segreteria politica. Si occupa a tempo pieno di enti locali, entra nell’assemblea dell’Anci, l’associazione dei comuni d’Italia, e, soprattutto, è quotidianamente presente nelle battaglie sul territorio: i suoi interventi in Consiglio comunale, le sue accuse al malgoverno delle giunte che si succedono a Colleferro, le manifestazioni che promuove in difesa dell’ambiente e dell’occupazione, gli conquistano la stima dei cittadini e degli stessi avversari politici. Nel ’90, anno che segna la massima ascesa ma anche l’inizio della fine dei partiti della prima Repubblica, il Msi subisce un ridimensionamento che lo porta appena sopra il 3 per cento. Fenomeno che si registra anche a Colleferro: dopo tanti anni Moffa non riesce neanche ad entrare in Consiglio comunale. Eppure, solo tre anni dopo, tutto si ribalta: il sindaco dc finisce indagato e la giunta è costretta a dimettersi. Nel frattempo è entrata in vigore la nuove legge per l’elezione diretta: Moffa si candida con una lista civica, Aria Nuova, arriva al ballottaggio e diventa sindaco. Ed è quello il momento in cui mette in campo tutta l’esperienza maturata in quasi un ventennio di "fare politica". Esperienza che lo vede oggi anche nel ruolo di vice di Enzo Bianco alla presidenza dell’Anci.

"Lavorando sodo, recandomi al Comune la mattina alle otto e mezzo e spesso lavorando fino alle dieci di sera - commenta oggi il sindaco, a quattro anni di distanza - abbiamo costruito un vero miracolo". Tanto che nell’aprile scorso della rielezione di Moffa si sono occupati tutti i giornali per un record nazionale: la conferma popolare è arrivata sin dal primo turno, con il 66,5 per cento dei voti. Il segreto? "Aver lavorato con spirito costruttivo, in modo nuovo e diverso rispetto al passato, imponendo uno stile di comportamento lineare che ha ridato certezze ai cittadini, liberandoli dai condizionamenti che li rendevano sudditi del potere politico. E, soprattutto, amministrando senza far prevalere logiche di parte sugli interessi della città. Un esempio: della mia squadra di assessori soltanto uno è iscritto ad An; gli altri si rifanno a varie posizioni che vanno dall’area cattolica al mondo del volontariato".

Moffa è infatti convinto che con l’elezione diretta dei sindaci si è determinato un nuovo modo di impostare il rapporto tra cittadini e amministratori: sempre meno contano le identificazioni partitiche, sempre più le proposte. "Sin dall’inizio - prosegue - abbiamo dimostrato di avere chiaro un progetto: quello di cementare una comunità territoriale che, fondata su basi eterogenee, si stava scollando per la crisi del modello industriale su cui si era comunque costruita. Abbiamo compreso che Colleferro doveva trasformare il suo volto di città industriale in quello di polo strategico nel settore del terziario non più ancorato alla grande industria e ai ritmi da essa dettati". E per la prima volta da quando la città è stata fondata si è invertito un processo: un tempo era la Snia-Bpd a prendere territorio dal Comune, adesso è il Comune che recupera porzioni rilevanti di quel terreno per consegnarlo alle piccole e medie imprese, per localizzarvi un sistema imprenditoriale moderno, unico nel suo genere nell’Italia centro-meridionale, che funga da grande centro servizi per lo stoccaggio e la movimentazione delle merci in un quadro intermodale di scambio gomma-ferro. Il Comune recupera quell’area vasta per installarvi uno Space Center, un parco tecnologico sul modello già avviato negli Stati Uniti: anche questa è un’iniziativa unica nel suo genere, capace di attrarre scolaresche e famiglie in un mix di formazione e svago, del tutto in sintonia con l’alta produzione tecnologica e scientifica che Colleferro sviluppa nel settore aerospaziale. Ovvia la ricaduta in termini di indotto, di commercio e di capacità ricettive da potenziare.

"L’altra nostra grande scommessa - prosegue Moffa - è stata quella di aver imboccato la strada dell’accesso ai fondi dell’Unione europea, che poi è stato il modo per invertire un processo di crisi e di declino". Il Comune, in pratica, si è fatto imprenditore, si è attrezzato per cogliere, riuscendovi, tutte le opportunità offerte tramite i fondi strutturali e per guidare il nuovo sviluppo, intervenendo anche come ammortizzatore sociale oltre che come costruttore di occupazione stabile. Ne è esempio la società Gaia, multiservizi in corso di formazione a livello comprensoriale sulla base dei "lavori socialmente utili": più di trecento lavoratori sono stati impiegati negli ultimi tre anni, recuperati i cassintegrati e quelli in mobilità che erano stati espulsi dal ciclo produttivo.

Ma non sono solo questi i frutti dell’amministrazione avviata con il ’93: un centro, che fino a quell’anno aveva solo un liceo scientifico e un istituto tecnico industriale, avrà quest’anno i primi diplomati del corso di laurea breve in Macatronica (Ingegneria meccanica ed elettronica), istituito per volontà della Giunta nel ’95 con la collaborazione della II Università di Roma. Anche questa è un’iniziativa importante e qualificante, nata col contributo dei cittadini e delle imprese locali e che ha gratificato Moffa in sede europea: la Comunità scientifica europea ha ritenuto il modello non solo valido quanto a capacità di coniugare il momento di formazione con quello dell’ingresso nel mondo del lavoro, ma degno di essere esportato in tutta Europa.

Insomma, la giunta guidata da Moffa ha amministrato in maniera nuova soprattutto perché ha lavorato avendo ben presente un nuovo modello di sviluppo per la città. E tutto questo senza perdere di vista tutta una serie di opere: dalla razionalizzazione del traffico alla dotazione di un piano parcheggi, dalla sistemazione del verde agli interventi nel campo del commercio e del terziario, al progetto di una piazza telematica, alla collaborazione con il volontariato, alla modernizzazione dei servizi del Comune attraverso l’introduzione della total quality community per gli amministratori, i dirigenti e il personale.

Fondamentale in tutto questo è, secondo Moffa, il fattore culturale: "Non ci si può inventare sindaci o amministratori da un giorno all’altro. Credo che, nel mio caso, sia stata determinante la lunga militanza politica e culturale, le suggestioni, le intuizioni, i rapporti maturati in quegli anni. A cominciare dall’aver fatto propria una cultura che valorizza i fattori comunitari e organici del territorio". Ma quanto pesa e che significato ha il fatto di essere un sindaco di An? "Credo - commenta Moffa - che il problema vada ribaltato, non a caso la nostra esperienza ha preceduto la stessa nascita di Alleanza nazionale. L’elezione diretta dei sindaci ha creato un modo nuovo di vivere la democrazia, in cui il fattore centrale è il rapporto fiduciario con l’eletto. L’identificazione partitica è secondaria. Per cui, semmai, sono le forze politiche che, sempre più, debbono dare spazio e voce alle esperienze che nascono dalla periferia, dal territorio e modellarsi su queste. È dalla galassia degli amministratori di oggi che i partiti stessi possono trovare linfa vitale, radicamento ai cittadini e una classe dirigente reale".

Cultura e managerialità

Quello della cultura e dell’organizzazione culturale è stato sinora il fronte sul quale le amministrazioni di sinistra hanno forse costruito la maggiore visibilità egemonica.

Ma anche qui, con la rivoluzione del maggioritario, sono scesi in campo uomini di An. "Quando nel ’95, in qualità di coordinatore regionale di An, accettai di diventare assessore alla Cultura della Lombardia, per noi si trattava di una vera e propria scelta strategica". Ne è consapevole Marzio Tremaglia, il cui identikit corrisponde in pieno a quello della nostra analisi: classe 1958, dalla fine degli anni Settanta nell’esecutivo nazionale del Fronte della Gioventù; dal 1980, per quindici anni, consigliere comunale d’opposizione a Bergamo; contemporaneamente, scrive sui giornali e riviste d’area; alla fine degli anni Ottanta è anche vice-presidente del Comitato centrale del Msi. "La nostra scuola - confessa - è stata il lungo esercizio dell’opposizione: quando, per un ventennio, sei stato in grado di impegnarti oltre le lusinghe del potere, maturando un rapporto costante con i problemi della società e proseguendo un cammino di approfondimento culturale, allora sopravvive in te la consapevolezza che la politica corrisponde a un dovere morale. E quando vai a tradurre questo da ruoli di governo sei sicuramente più attrezzato degli altri".

Tremaglia spiega come ha fatto a trasformare quello che, fino al suo arrivo, era considerato un assessorato destinato ai "trombati" in un forte vettore d’innovazione. A sfogliare l’elenco degli eventi realizzati nel primo biennio di attività, la lista è davvero lunga e di alto livello. Solo per ricordare qualche cosa: la mostra "Mode e modi del vivere metropolitano" con Michel Maffesoli; il convegno nazionale su Marinetti e il futurismo a Milano; il convegno sui quarant’anni della rivolta d’Ungheria con Pasquale Chessa, Sergio Romano, Francesco Perfetti, Sandro Curzi e Piero Melograni; il colloquio internazionale "Modernità e crisi delle ideologie" con Ernst Nolte, François Furet, Emanuele Severino; e poi convegni su Mircea Eliade, Tolkien, la mutazione antropologica, federalismo e fiscalità, Nietzsche, la cultura giapponese, la società dell’informazione e la multimedialità. Su altri piani: una forte politica di acquisizioni - collezioni, beni librari, tra cui un fondo Montale, uno Quasimodo, uno D’Annunzio -; l’aumento del 50 per cento dei trasferimenti alle ben 1.200 biblioteche di pubblica utilità lombarde; iniziative di formazione a getto continuo; attenzione ai sistemi culturali integrati; la creazione di una Borsa con tutte le occasioni di sponsorizzazione culturale; il coordinamento delle reti telematiche civiche della Lombardia.

Nel suo lavoro Tremaglia ha dimostrato di non avere paraocchi ma, anzi, di coinvolgere nella sua attività persone come Erri De Luca, Giorgio Galli o Emanuele Severino, che sicuramente di destra non sono. Così come ha ottenuto la collaborazione e l’apprezzamento dell’editore Gabriele Mazzotta, lo stesso che negli anni Settanta pubblicava il Manuale di autodifesa proletaria, della critica letteraria Maria Corti, con la quale è stata costituita un’associazione per il sostegno a un fondo manoscritti del Novecento, o di Fiorella de Cindio, esperta di Reti civiche e schierata a sinistra. Grazie a Tremaglia, la Lombardia è l’unica Regione che ha collaborato con il Fondo per l’ambiente italiano presieduto da Giulia Maria Crespi.

In qualche modo la sua esperienza è una negazione di quella "impresentabilità" della destra di cui ha parlato Ernesto Galli della Loggia. O meglio: se sul piano parlamentare e mass-mediale gli uomini di An continuano a non godere di una piena legittimazione, il discorso non sembra sussistere sul piano dell’amministrazione locale, come dimostra questo giovane assessore che conversa citando Heidegger e i nuovi paradigmi epistemologici. "Occorrono però risultati: di fronte a realizzazioni concrete - conferma Tremaglia - non regge il simulacro di una destra immaginaria, incolta e becera. Io continuo a lavorare e a ricevere continui attestati di stima da ambienti della sinistra. La realtà è che non dobbiamo avere alcun complesso d’origine e non dobbiamo rincorrere nessuna benemerenza. Dobbiamo, semmai, incarnare la consapevolezza che la destra ha tutte le carte in regola per governare i problemi della post-modernità e della società complessa". Pragmatismo post-ideologico, quindi: Tremaglia ha proseguito a collaborare con amministratori provinciali o comunali sia di sinistra sia leghisti, senza pensare in termini di egemonia centralista.

Ma sta emergendo un modello di politica culturale, diverso da quello sinora proposto dalla sinistra? "Certamente. E si diversifica - spiega Tremaglia - dal dirigismo toscano ed emiliano. È un modello misto, in cui l’ente locale si fa promotore di una sensibilità culturale ma in maniera flessibile, coordinando tutte le realtà e i soggetti già operanti sul territorio. Si tratta di riunire le forze, parlare, metterle attorno a un tavolo. E questo anche per quanto attiene agli strumenti e ai finanziamenti. Non è un caso che tanto a Roma quanto in Toscana il progetto di Rete civica sia fallito, da noi no".

Conclusioni

Riuscirà questo esercito di amministratori locali a trasformarsi nella classe dirigente di An? L’esperimento di San Vito, quello di Colleferro, il bilancio culturale della Regione Lombardia, e i tanti altri che probabilmente si potrebbero fare, sembrano mostrare l’avvenuta formazione di uno specifico "ceto" amministrativo, con proprie motivazioni e una sua specifica, per quanto ancora scientificamente da indagare, cultura politica. Emerge, poi, in primo piano, da parte dei cittadini la non-identificazione degli amministratori con i partiti e, quindi, in questo caso con An: un aspetto, questo, che contraddice la tradizionale articolazione centralista dei partiti e impone una ridefinizione dei rapporto centro-periferia nell’ambito di una nuova forma-partito. Come a dire: se i sindaci missini del ’93 sono stati l’anticipazione di An, la nuova fase di questo partito non può allora partire dall’astratta risoluzione di dispute ideologiche ma forse proprio dalla valorizzazione politica dei suoi amministratori locali e delle loro esperienze.

In proposito, il politologo Marco Tarchi, analizzando (nel suo recente Dal Msi ad An. Organizzazione e strategie, Il Mulino, 1997) il modo in cui si è sinora svolto il processo interno ad Alleanza nazionale, sulla scorta di un rigoroso esame dei dati empirici, è arrivato alle seguenti conclusioni: "Il mutamento in atto è stato tutt’altro che intenzionale ed ha seguito un andamento sporadico, dettato dalla necessità di reagire alle situazioni che via via si presentavano e non dalla volontà di anticiparle […]. Quel che si può dire già ora con certezza è che il passaggio dal Msi ad An sta producendo effetti di lunga durata, e che, non potendo più puntare come in passato sui benefici della rendita di posizione, la classe dirigente di Alleanza nazionale dovrà rassegnarsi ad affrontare le incognite dell’innovazione".

Si ripropone, quindi, la questione di fondo: qual è e quale sarà questa classe dirigente?

Luciano Lanna


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1997