Affari esteri. Islam
SOTTO GLI OCCHI DELL'OCCIDENTE
di Alberto Pasolini Zanelli 

I "turchi" sono alle porte come al tempo in cui assediarono Vienna? C’è da chiederselo sul serio, naturalmente se per "turchi" si intende l’Islam e per Vienna la civiltà, soprattutto politica, dell’Europa e dell’Occidente. Ci sono dei fatti, dei dati che molto raccontano e suggeriscono ancora di più. Nella classifica mondiale dei bestsellers le opere di Marx, Engels e Lenin sono prevedibilmente scomparse, ma il loro posto è stato preso dal Corano. La più popolosa città europea non è più Londra, né Parigi, ma Istanbul, che continua a crescere di mezzo milione di abitanti l’anno ed ha un sindaco del partito islamico integralista.

M.J. Akbar, uno scrittore musulmano indiano, annuncia che la prossima grande partita del mondo si giocherà, si sta giocando tra il suo mondo e il nostro: "La lotta per un nuovo ordine mondiale comincerà con una grande spinta delle nazioni islamiche, dal Maghreb al Pakistan". "L’Islam sarà il movimento ideologico del XXI secolo" profetizza Hassan el-Turabi, il leader, educato ad Oxford e alla Sorbona, del movimento integralista al potere nel Sudan. "La nostra marcia è cominciata", aggiunge lo sceicco libanese Saïd Schaaban, "l’Islam conquisterà l’Europa e, alla fine, anche l’America".

Sono previsioni audaci, ma che non possono essere respinte o rinchiuse in un cassetto. La presenza dell’Islam nel pianeta è davvero massiccia. Vi si riconosce ora più di un miliardo di esseri umani, in un’area geografica che si estende per quindicimila chilometri, dal Marocco fino all’estrema propaggine dell’Indonesia nel Pacifico. Cinquantatré Paesi, un quarto del totale della Terra, l’hanno per religione di Stato, e nessun’altra fede si estende così rapidamente. Sono constatazioni impressionanti e ancora di più in una coincidenza temporale: nel cinquantesimo anniversario del giorno in cui tutto questo cominciò. Il subcontinente indiano ottenne, il 15 agosto 1947, l’indipendenza dal dominio britannico e noi lo ricordiamo soprattutto perché fu la data di nascita dell’India, la più popolosa democrazia del mondo: A mezzanotte la libertà è il titolo di una cronaca su quell’evento di Lapierre e Collins, tuttora famosa, letta ed attuale. E certo l’indipendenza e l’unità dell’India laica furono un grosso evento nella storia contemporanea.

Ma poche ore prima di quella mezzanotte, a Karachi invece che a Nuova Delhi, era nato, dalla divisione violenta ed inevitabile della principale provincia dell’impero di Londra, un altro Stato indiano, il Pakistan, e questo evento, cui si pensa alquanto meno, si è rivelato ancor più denso di conseguenze. L’indipendenza dell’India segnò, certo, l’inizio della fine del colonialismo europeo nel mondo. Il resto dell’impero britannico diventò intenibile e, con questo, il primogenito del colonialismo marittimo moderno, caddero quelli francese, olandese, belga, portoghese. La fondazione del Pakistan aprì invece una nuova era: per la prima volta dopo secoli un grande Paese si veniva a creare non su una base geografica (era un’accozzaglia di province senza collegamenti terrestri), non attorno a una dinastia, a un conquistatore o a un’ideologia laica, bensì su base esclusivamente religiosa.

Pakistan è sì una sigla delle regioni che lo compongono (dalla P come Punjab a K come Kashmir) ma significa anche "Terra dei puri", della Pura Fede. La sua nascita nel sangue di reciproci massacri con gli indù e di migrazioni bibliche delle minoranze di ambedue le parti dal fuoco dei pogrom, aprì un capitolo nuovo, che divenne ancora più drammatico meno di un anno dopo, allorché due altri Paesi furono generati dalle ceneri del medesimo impero, in terra di Palestina, uno ebraico e l’altro, di nuovo, musulmano.

Da Karachi a Gerusalemme scoccò una scintilla e cominciò la marcia affannosa di un movimento su scala planetaria. Fra le sue conseguenze ricordiamo soprattutto la crisi petrolifera del 1973, che colpì i nostri equilibri e le nostre tasche. Più di rado menzioniamo un evento ancora più risonante: la sconfitta militare e politica dell’Armata rossa per mano dei guerriglieri islamici dell’Afghanistan, che segnò l’inizio della fine dell’Unione Sovietica, della guerra fredda e dell’ideologia comunista nel mondo.

Tale evento ha portato la libertà all’Europa, ma non al resto del pianeta e certamente non a quella sua parte che si riferisce ad Allah ed a Maometto. La democrazia trionfa oggi ovunque, nei Paesi a religione cattolica, protestante, ebraica, induista, confuciana, scintoista e anche, naturalmente, in quelli completamente secolarizzati. L’eccezione sono quelli islamici. L’accurata e autorevole statistica che ogni anno compila la Freedom House di Washington sullo "stato della libertà" nelle singole nazioni del mondo, rivela che fra quelle classificate come "totalmente libere" nessuna è di civiltà musulmana. Invece lo sono più della metà dei regimi "non liberi". Dei diciotto classificati come i peggiori quanto a peso della repressione dei diritti civili e umani, dieci sono islamici. Fra questi alcune repubbliche che facevano parte dell’Unione Sovietica e in cui il fattore religioso impedisce di essere investite dall’ondata di marea liberale nel mondo. Il muro di Berlino da quelle parti non è ancora crollato e, anzi, altre mura si erigono. Bernard Lewis, uno studioso americano, ripropone una definizione aggiornata della democrazia liberale:  .

Anche se la dottrina islamica in sé condanna il dispotismo e comprende la tolleranza e la giustizia, essa è dichiaratamente incompatibile con la democrazia liberale. Le è alieno, per cominciare, lo stesso concetto di "cittadinanza", una parola che manca nelle lingue arabe, iraniana e del gruppo linguistico turco. Maometto fondò una religione e uno Stato contemporaneamente: a differenza di Abramo e di Gesù, comandò eserciti, promulgò leggi, si appropriò del potere temporale.

La distinzione, fondamentale nell’Occidente cristiano, fra la dimensione spirituale e quella politica è assente nell’Islam, che anzi la respinge e vi vede il nemico numero uno della sopravvivenza culturale dei popoli "fedeli" nella civiltà tecnologica. La comunicazione di massa, che ha disgregato i regimi comunisti (o li ha profondamente modificati, come nel caso della Cina) non ha intaccato tale identità. La giacchetta alla Mao ha lasciato il posto agli abiti all’occidentale, ma il chador prende il posto dei tailleurs. Non solo nel Medio Oriente, ma anche in Europa.

Sono fra gli otto e i dieci milioni gli stranieri di religione islamica che vivono oggi nei Paesi dell’Unione di Maastricht, giunti dalla Bosnia, dall’Albania, dalla Turchia, dal Maghreb, dalla Somalia. Ci sono più moschee in Europa oggi di quante fossero le chiese cristiane nel Africa del Nord prima della conquista maomettana. Solo la Francia ne conta un migliaio; la piccola Olanda oltre trecento. Dopo il cattolicesimo, l’Islam è la seconda religione in Italia. E queste moschee sono ben frequentate, ciò che sollecita comprensione e simpatia in quelle persone del nostro mondo che non si sono rassegnate alla sua secolarizzazione. Il principe Carlo d’Inghilterra ha incitato l’Occidente a  . Papa Wojtyla non si stanca di definirlo, nella preparazione del Giubileo dell’anno Duemila,  . Contemporaneamente alle sue nobili parole, i fondamentalisti islamici sgozzano missionari e monaci in Algeria. Essi non offrono reciprocità per la tolleranza che noi predichiamo nei loro confronti. Anche nei Paesi europei e cristiani che avvertono una reazione di rigetto i musulmani possono pregare nei loro templi, mentre nella maggioranza dei Paesi islamici la conversione al cristianesimo è considerata apostasia e, dunque, reato.

La contraddizione è in parte tradizionale: l’Islam ha sempre considerato "irreversibili" le conversioni dei popoli conquistati, nella convinzione che prima o poi tutto il mondo avrebbe riconosciuto la sovranità di Allah. Indietro non si può tornare. La "dottrina Breznev", sotterrata dal comunista Gorbaciov, è più che mai viva nelle moschee.

Ma ad acutizzare la contrapposizione e la crisi è intervenuto un fattore fondamentale: nel momento della sua massima espansione, l’Islam che abbiamo di fronte è in guerra con se stesso. Tutti i suoi governi, anche quelli retti in nome della Fede, subiscono l’aggressione del fondamentalismo, che li vuole distruggere perché ad ognuno nega qualsiasi legittimità. Un’eredità comune, che avrebbe potuto essere un fattore di stabilità, è invece origine di un furioso conflitto. Sappiamo tutto dell’Iran e della teocrazia instaurata da Khomeini.

Il Pakistan, il "Paese dei puri", che ha dato origine cinquant’anni fa all’inondazione, è retto da integralisti, e così il Sudan e l’Afghanistan. La pace in Palestina, cercata dopo tanta guerra e terrore dal "laico" Arafat, è ora aggredita dai "guerriglieri di Dio" dello Hamas.

L’Algeria è sconvolta e dissanguata da un orrore che supera tutte gli altri per quantità ed efferatezza. È il Paese in cui i "rivoluzionari" girano di villaggio in villaggio portandosi dietro una "ghigliottina semovente" per accelerare le esecuzioni di massa; in cui si taglia la gola a donne e bambini con le regole dedotte dai sacrifici rituali degli agnelli; in cui si pratica la decapitazione al fine di rendere impossibile la "ricomposizione dei corpi" nell’aldilà e si bruciano i cadaveri per anticipare il Fuoco eterno. I militari al potere reagiscono con pari durezza.

La Turchia, pilastro della laicità e del modernismo nel mondo islamico, è sottoposta a un’offensiva integralista, per ora soprattutto pacifica ma penetrante, che rende sempre più probabile un nuovo scontro con l’esercito, custode dell’eredità di Atatürk. Le statue di quest’ultimo, Padre della Patria, dominano ancora le piazze, mentre quelle del suo contemporaneo Lenin sono state quasi ovunque abbattute. Il suo mausoleo ad Ankara ha tutto l’arroganza sublime del tempio di un culto non seppellito. Ma i custodi della sua dottrina, il kemalismo, sono già dovuti intervenire tre volte per salvarne l’eredità. L’ultima nel settembre 1980, contro tre estremismi: "nero", rosso e "verde". Quel golpe fu una marziale dichiarazione d’amore all’Europa: il suo autore, il generale Evren, si presentò in televisione accompagnato dalle note della Quinta di Beethoven. Ma oggi le voci dei muezzin soverchiano quella musica occidentale. I busti di Ataturk restano, ma ogni anno si costruiscono più moschee, si aprono più scuole religiose, più donne si mettono il pio velo in capo.

In Egitto, il solo Paese arabo che da due secoli cerca di darsi una legge, una Costituzione e una forma di governo ispirate ai princìpi che regolano il resto del mondo civile, l’architrave degli equilibri nel Medio Oriente e delle speranze di pace, il capo dello Stato, Mubarak, è sfuggito a più di un tentativo di assassinio e il suo predecessore, Sadat, è caduto sotto le pallottole, "punito", fra l’altro, per aver osato parlare di pace con Israele. Uno degli attentatori, prima di finire sulla forca, raccontò perché l’aveva fatto. E fornì un’analisi di quella che, secondo gli integralisti come lui, è la causa principale se non addirittura l’unica, della crisi e delle umiliazioni del mondo arabo: la sua "caduta dalla Grazia", la sua "prostituzione al mondo moderno", allo Stato Nazionale, al laicismo, alla liberalizzazione dei commerci. A quella che quel terrorista morto e molti dei suoi compagni di lotta ancora vivi definiscono "ripaganizzazione". Secondo questa visione i Paesi che noi chiamiamo islamici in realtà non lo sono affatto o, meglio, non lo sono più: hanno abbandonato i precetti coranici, sono ricaduti nello stato di "barbarie" religiosa e civile cui Maometto mise fine. I successori moderni degli idoli abbattuti alla Mecca sono i valori occidentali, corruttori e materialistici.

L’Islam non è dunque da preservare, come cercano di fare i conservatori che regnano, ad esempio, sull’Arabia Saudita, bensì da rifondare mediante una rivoluzione senza compromessi e senza limiti. L’estremismo di cui vediamo il volto assassino ad Algeri, al Cairo, a Teheran, in Palestina, non è l’Islam e non è suo figlio: ne è una malattia. Definire "anti-islamico" chi lo combatte equivarrebbe a dire che chi ha combattuto il marxismo o il leninismo o il nazismo, figli e malattie dell’Europa, ha combattuto l’Europa. Per questi estremisti tutti i governi dell’area musulmana sono parimenti illegali: quelli egiziano e turco confortati dalle urne, le dittature socialnazionaliste dell’Iraq o della Siria, gli emiri e i re, i militari algerini, lo stesso Arafat arroccato fra i rifiuti di Gaza, sono tutti strumenti del demonio perché contaminati dall’Occidente che è, tutto intero, il Grande Satana. È dunque dovere dei fedeli abbatterli. La loro società è malata, nelle tenebre del peccato, nell’attesa di una redenzione: che non è però Salvezza personale, come nella fede cristiana, bensì un fatto politico e sociale, di governo e di potere.

È la guerra degli Zeloti, che conosciamo da una storia che è anche nostra. Lo Zelota è l’uomo che si rifugia nelle abitudini per combattere il nuovo, che va in battaglia contro i mezzi e le strategie superiori del suo Nemico ricorrendo alle armi più antiche, arcaiche come lui. Nella Palestina di 2000 anni fa, nei deserti di Arabia fino al secolo scorso, egli agiva ai margini delle città e delle strutture sociali; oggi abbiamo lo "Zelota urbano". Se guardiamo una carta, non geografica ma statistica, dei Paesi musulmani coinvolti nell’incendio integralista, notiamo che tutti stanno conoscendo un declino di potere e di qualità di vita che non risponde a parametri puramente economici. I Paesi arabi sono spesso più poveri di quelli occidentali a causa della loro altissima natalità; ma dispongono, nel loro complesso, di ricchezze naturali, petrolio in testa, certamente superiori a quelle di alcuni grandi Paesi industriali dell’Occidente, per esempio il Giappone e l’Italia.

Questa ricchezza recente non riesce però a penetrare nella società, pur essendo abbastanza forte da sconvolgerla. L’urbanizzazione frenetica vede crescere a dismisura le città con le loro periferie polverose e disorganizzate, mentre si spopolano le campagne, povere ma tradizionalmente strutturate. Queste metropoli, che crescono a vista d’occhio, dal Cairo a Istanbul, sono invase da milioni di contadini sradicati, che la disperazione spinge nelle braccia dei Mahdi più o meno impazziti. Dove lo Stato fallisce, la moschea rimane l’unico punto di incontro, di comunità. L’Islam non ha gerarchie religiose, e lascia spazi alle iniziative e alle interpretazioni degli estremisti, che propongono la strada più facile, l’invettiva contro tutti e contro tutti, la lapidazione di una società.

In questa guerra civile è in gioco la sopravvivenza delle nazioni, tutte, sotto un’ondata che vorrebbe sommergerle. La difesa degli Stati è difficile, siano essi laici come la Turchia o islamici ortodossi. Di tutti è in gioco la legittimazione interna, anche per motivi storici profondi. Ad esempio, perché essa era originariamente fondata sul "diritto di guerra" e di conquista, che però per l’Islam è un diritto a senso unico in obbedienza a una "verità" assoluta e universale. Un altro fattore, forse più di un dettaglio, è stato annotato da Lewis: l’abbondanza del petrolio, da cui vengono i redditi degli Stati, dall’Iran all’Indonesia, diminuisce o annulla la necessità delle tasse. Esse sono per il cittadino un gravame ma anche uno strumento di partecipazione al potere. La rivoluzione americana nacque dalla richiesta, respinta da Londra, che alla tassazione si accompagnasse, appunto, la rappresentanza, cioè una voce nelle decisioni. Quando un potere si nutre dei prodotti del sottosuolo non ha bisogno dei frutti del lavoro dei sudditi, ma neppure del loro consenso.

Sono tante, oppure è una sola, le radici della "guerra islamica". Demografiche, ma anche geografiche. La sconfitta sovietica in Afghanistan è stata seguita da un reflusso, per cui l’integralismo, "stuzzicato" nelle sue roccaforti sulle montagne remote, è ora sceso a valle e invade le terre degli aggressori. Non soltanto i Talebani, gli "studenti coranici", hanno preso il potere a Kabul e la governano con la spada e il sasso delle lapidazioni: i loro "fratelli" militano nelle guerre in corso nelle Repubbliche islamiche dell’ex Urss. Dentro la stessa Russia è nata la Cecenia, al termine di una guerra d’indipendenza feroce ed anche eroica, ed ha festeggiato la vittoria in una piazza di Grozny con due spettacoli: un grande ballo popolare e una pubblica fustigazione.

E nel cuore dell’Europa, con l’occhio sull’Adriatico, è nata, da un’altra guerra lunga e crudele, una Bosnia molto diversa da quella che i suoi sostenitori occidentali auspicavano: uno Stato semi-confessionale, che pratica con l’espulsione dei serbi ortodossi una "pulizia etnica" di ritorno e in cui lo speaker del telegiornale si presenta salutando gli ascoltatori in arabo.

Le avanguardie di questa penetrazione tumultuosa si spingono ancora più a Nord e ad Occidente: un cittadino britannico, lo scrittore Salman Rushdie, vive da più di otto anni sotto la spada di Damocle di una condanna a morte inflittagli da un tribunale religioso dell’Iran, Paese verso il quale egli non ha alcun obbligo e alcun legame. È stato condannato perché "blasfemo". Nell’ultimo anniversario di questa sentenza, un giornale di Teheran, lo Jomhuri Islami, ha dedicato all’evento un inserto speciale di 15 pagine e il suo editore, l’ayatollah Sanei, dalla città santa di Qom, ha raddoppiato la taglia promessa all’assassino, portandola a 4 miliardi di lire, più gli interessi bancari maturati.

E intanto le autorità del cantone di Ginevra, nell’ambito delle celebrazioni del bicentenario della nascita di Voltaire, hanno vietato la rappresentazione della sua tragedia Maometto o il fanatismo: per non "urtare le sensibilità".

Se ne è fatta, di strada, dal giorno della fondazione della "Terra dei puri" nel remoto Pakistan.

Alberto Pasolini Zanelli


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1997