Il ritorno dell'uomo qualunque
IN PRINCIPIO
E' UNO STATO D'ANIMO

di Giovanni Orsina 

La parola "qualunquismo" nasce all’indomani del secondo conflitto mondiale insieme al movimento dell’Uomo Qualunque, fondato nel 1944-45 dal commediografo Guglielmo Giannini. Il movimento si spense, poco più che neonato, nel 1948. Il sostantivo, però, e il suo aggettivo gli sopravvissero, e per analogia vennero da allora usati per definire un generico stato d’animo antipolitico al quale, nell’iperpoliticizzata Italia repubblicana, si guardava per lo più con ostilità e riprovazione. Non è mai facile identificare con precisione gli elementi caratterizzanti di un patrimonio ideologico, tanto meno quando, più che di una "ideologia", si deve appunto parlare di un "generico stato d’animo". Con una certa approssimazione, è tuttavia possibile tentare di illustrare quali siano le opinioni e i sentimenti che caratterizzano il qualunquismo.

Il qualunquista manifesta notevole scetticismo nei confronti delle divisioni che attraversano al suo interno la classe politica, negandone o minimizzandone la rilevanza. Democristiani e comunisti, socialisti e liberali condividono tutti lo status di "uomo politico", e questa loro identità comune può essere intaccata in superficie, ma mai seriamente messa in pericolo dalle differenze ideologiche e politiche. Insomma, "sono tutti uguali". E sono tutti intenti a giocare il "loro" gioco, con le "loro" regole, strumentali ai "loro" interessi: gioco, regole e interessi che hanno scarso o nessun rapporto con i problemi di chi nel Paese reale nasce e lavora, procrea e muore. Gioco, regole e interessi, anzi, che là dove entrano in contatto con l’"uomo qualunque" lo fanno per sottrargli risorse scarse e preziose, per imporgli regole e divieti al di là della logica e del senso comune, per fornirgli in regime di monopolio servizi assurdamente costosi e inefficienti.

Avendone questa immagine, il qualunquista ovviamente condanna e rifiuta la politica, rituali, logiche e procedure della quale gli appaiono delle inutili mistificazioni, avide dissipatrici di tempo e di denaro. Affronta con estrema ostilità e insofferenza qualsiasi forma di vincolo, obbligo o divieto che provenga dal "Paese legale", e soprattutto il più gravoso ed evidente di questi vincoli: le tasse. È sempre pronto a rilevare quanto inadeguate, inefficienti e fallimentari siano le strutture pubbliche, e a misurare la distanza che separa il molto che egli dà allo Stato dal poco che ne riceve. In breve, il qualunquista ritiene che il potere politico sia lontano e alieno, inutile anzi dannoso, invadente e opprimente, asservito al tornaconto privato di chi è riuscito a impadronirsene.

Questa essendo la sua natura, il qualunquismo germoglia e fiorisce nelle crepe che frantumano la legittimità del potere pubblico e ne indeboliscono la capacità di rappresentare la società civile. Non sorprende dunque che abbia trovato terreno fertile in Italia: nel nostro Paese troppo spesso il potere ha sofferto di scarsa legittimazione ed è stato quindi costretto a cristallizzarsi su posizioni difensive, smarrendo progressivamente ogni legame con i sudditi e dovendo allo stesso tempo imporsi ad essi con maggiore o minore violenza fisica e morale. Né sorprende che lo abbia trovato nell’Italia repubblicana. Molto è stato detto e scritto sui gravi difetti che hanno tormentato la vita istituzionale della nostra Repubblica. Sull’esasperato assemblearismo che ha sottratto agli elettori il potere di designare i vertici del potere esecutivo. Sull’opposizione antisistema del Pci che ha inchiodato al potere la Democrazia Cristiana, impedendo che nascesse una competizione seria e reale fra i diversi segmenti della classe politica. Sulle oligarchie partitiche, sempre più potenti e invadenti e sempre meno responsabili e controllabili, che hanno utilizzato le enormi risorse a loro disposizione nel (vano) tentativo di rafforzare una legittimità traballante.

Questi difetti hanno indebolito, sempre di più con il trascorrere dei decenni, la capacità della classe politica repubblicana di rappresentare il Paese. E la carenza di rappresentatività ha creato le condizioni adatte perché si sviluppasse un robusto sentimento antipolitico di tipo qualunquistico. Questo atteggiamento è cresciuto soprattutto - anche se non esclusivamente - sul lato destro dell’arena politica. La sinistra, infatti, ha avuto maggior successo nel salvaguardare il legame con la "base", accoppiando alla gestione della sua non irrilevante quota di potere l’attenta costruzione di un patrimonio culturale e ideologico che la legittimasse. A destra, invece, la legittimazione ideologica ha avuto un carattere prevalentemente negativo: l’anticomunismo. Molti elettori moderati hanno dunque dato un voto difensivo e obbligato, "turandosi il naso", senza però sentirsi mai realmente rappresentati all’interno delle istituzioni, e sentendosi sempre meno rappresentati via via che la minaccia comunista si andava dissolvendo.

La conclusione del grande scontro ideologico fra Oriente e Occidente ha reso evidente in quasi tutti i Paesi democratici l’esistenza di un più o meno grave problema di logoramento dei meccanismi della rappresentanza. Sparito il nemico, tornano a galla i difetti, le insufficienze, gli egocentrismi del potere. La nascita e l’affermazione dei movimenti di tipo localistico possono almeno in parte essere considerate una conseguenza di questo fenomeno, e rappresentano una non illogica ipotesi di risolverlo riavvicinando fisicamente i governanti ai governati. In Italia poi, per le ragioni che ho già accennato, il 1989 ha fatto emergere in maniera particolarmente violenta la crisi di rappresentatività della classe politica, spazzando via i partiti fondati su un anticomunismo ormai non più necessario e lasciando paradossalmente in piedi proprio il Pci-Pds, abilmente riuscito negli anni a far evolvere la propria giustificazione ideologica da comunista in progressista.

Il dissolversi dei veli ideologici della guerra fredda dovrebbe oggi spingerci a riflettere con maggiore attenzione su uno dei caposaldi della tradizione politica liberale, che alla fine del secolo scorso avevano compiutamente teorizzato grandi studiosi di scienze sociali come Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, ma che negli ultimi decenni è stato un po’ sacrificato alla retorica della democrazia e al materialismo storico marxista. Ossia che la divisione fra chi detiene il potere politico e chi non lo detiene rimane, sotto qualsiasi regime, la più importante fra quante attraversano le società umane. E che nemmeno le istituzioni rappresentative, per quanto successo possano avere, per quanto bene possano funzionare, sono in grado di eliminarla. Dopo il 1989 è più agevole percepire che, da un certo punto di vista, i politici sono davvero tutti uguali o, quanto meno, si assomigliano l’uno all’altro molto più di quanto non somiglino all’"uomo qualunque". Essi sono davvero portatori di interessi egoistici propri, che anche in un Paese compiutamente e sanamente democratico non è affatto scontato siano i medesimi della collettività, come dimostra la scuola economica della Public Choice, presentata in questo numero di Ideazione da Nadia Fiorino. Quando denuncia l’omogeneità della classe politica e la sua distanza dal "Paese reale", allora, il qualunquista non può più essere liquidato semplicisticamente come un eterno insoddisfatto o un antidemocratico. Perché sta attirando l’attenzione sulla natura intrinsecamente oligarchica ed egocentrica del potere, natura che, come del resto avviene nei Paesi di tradizione politica anglosassone, sarebbe bene non dimenticare mai. E perché, nel suo specifico contesto storico e geografico, sta segnalando il pericoloso cedimento del vincolo rappresentativo.

Non è soltanto dal punto di vista della rappresentatività delle istituzioni democratiche che la "fine delle ideologie" ci sta inducendo a considerare sotto nuova luce le ragioni dell’"uomo qualunque". Nel 1989 si è conclusa - o almeno sembra essersi conclusa - l’era bisecolare dell’onnipotenza della politica. La rivoluzione francese ha dato vita all’utopia giacobina, all’illusione che l’intera società potesse essere ricostruita razionalmente per via politica, così da generare in terra il paradiso. Il figlio più diretto e autentico dell’utopia costruttivistica nata nel 1789 è stato il regime sovietico. Nemmeno le liberaldemocrazie, però, sia pure in forma ben più moderata, sono rimaste insensibili al sogno (o incubo) giacobino. Anche nel mondo occidentale la politica, gravata del peso di tutte le speranze e sofferenze umane, ha assorbito poteri sempre maggiori ed ha ampliato sempre di più, in larghezza e in profondità, il proprio campo di intervento, incidendo sul corpo vivo della nazione nel tentativo, per lo più vano, di adeguarlo all’immagine perfetta che la razionalità utopica le suggeriva. Questo processo ha avuto una rilevanza non solo materiale - aumento della pressione fiscale, crescita della burocrazia, nazionalizzazione di vasti settori produttivi, legificazione e regolamentazione sempre più massicce e dettagliate - ma anche morale. Con un immenso sforzo pedagogico la classe politica ha cercato di imprimere profondamente negli individui i valori fondanti della comunità politica e di costruire per questa via una coscienza civica diffusa, valorizzando la partecipazione alla vita della collettività e, di conseguenza, attribuendo uno stigma pesantemente negativo all’astensione e al disinteresse.

Oggi, più di quanto non potessimo nei decenni trascorsi, ci rendiamo conto della gravità dei problemi creati dall’ipertrofia della politica. E siamo quindi in grado di considerare con maggiore attenzione e benevolenza l’atteggiamento antipolitico del qualunquista. La sua insofferenza e la sua ostilità nei confronti del peso opprimente dell’apparato pubblico, dell’avidità di denaro che esso dimostra, dei vincoli assurdi che esso impone, acquistano nuova forza e trovano nuove giustificazioni. Allo stesso modo, può essere oggi diversamente rivendicato il desiderio del qualunquista di non essere ingozzato a forza con i sacri valori del civismo, di non essere permanentemente politicizzato e mobilitato, di essere insomma lasciato in pace, a godersi il diritto all’incoscienza civica.

Del resto - come dimostra l’articolo di Nicola Iannello su Ayn Rand, pubblicato in questo stesso numero di Ideazione - il qualunquismo condivide queste insofferenze e queste rivendicazioni con una tradizione politica antica e rispettabile: il filone libertario del liberalismo.

Sempre più difficile da liquidare, infine, è l’insistenza qualunquista sulla qualità e sull’efficienza dei servizi. Quando la politica ci prometteva il paradiso in terra, quando gli obiettivi erano la società comunista o, al contrario, la difesa dalla società comunista, potevamo forse tollerare i disguidi postali, i ritardi dei treni, le file all’anagrafe, il caos nelle scuole. Oggi non possiamo più. Non ci sono più grandi traguardi attendendo i quali possiamo sopportare pazientemente che l’autobus non passi. Lo Stato di questa fine di millennio deve essere, prima di ogni altra cosa, un amministratore capace ed efficiente dei servizi pubblici.

Meritorio quando percepisce l’isolamento e l’egocentrismo della classe politica, più che condivisibile quando denuncia l’invadenza e l’inefficienza dell’apparato pubblico, il qualunquista cade però in errore quando si illude che i problemi dell’"uomo qualunque" possano essere risolti declassando il potere a pura e semplice competenza amministrativa. , scriveva Giannini nel primo numero de L’Uomo Qualunque, . Ridurre la gestione di un sia pur ridottissimo apparato statale al mero dato tecnico, depurandola da qualsiasi forma di conflittualità politica, è non soltanto impossibile, ma anche molto pericoloso. Da un punto di vista generale, la negazione della conflittualità si riconnette direttamente all’utopia costruttivista: solo nel mondo perfetto, ricostituito sulla base della razionalità illuministica, potrebbero scomparire le differenze e i dissensi. Da un più limitato punto di vista istituzionale, è proprio la presenza di una sana e reale competizione fra gli spezzoni della classe politica a garantire, da un lato, che i detentori del potere siano periodicamente rinnovati, e non sia loro consentito di trasformarsi in un’oligarchia di mandarini; dall’altro, che chi governa o desidera governare cerchi di adeguarsi ai desideri degli elettori, e costruisca così un rapporto di rappresentanza non troppo imperfetto.

I problemi, più o meno gravi, che affliggono le grandi democrazie dimostrano che la competizione - alla quale l’Italia sta arrivando oggi con grande ritardo - non è sufficiente. Ciò nonostante, essa rimane il migliore e più potente strumento di controllo sul potere del quale l’"uomo qualunque" disponga. Del "teatrino della politica", insomma, non possiamo fare a meno nemmeno in una prospettiva qualunquista.

Collocatosi su una posizione radicalmente antipolitica, concentrata la propria attenzione sulla frattura fra "noi" e "loro" ("la folla" e "i capi", diceva Giannini), per il qualunquista - almeno sul piano logico, che in politica è meno irrilevante di quanto non si creda - diventa estremamente difficile, se non impossibile, tradurre in chiave positiva la propria asprezza critica. L’unica via che ha per realizzare concretamente i propri ideali è infatti la via politica, che però ha rifiutato in partenza. Nel momento stesso in cui la imbocca, poi, sia pure per distruggerla, da che era "uno di noi" rischia di trasformarsi immediatamente in "uno di loro". La strada di chi vuole afferrare il potere per porre fine al potere è irta di trappole: la classe politica tradizionale lo ostacola con ogni mezzo, cercando ora di delegittimarlo ora di cooptarlo; partecipando a lungo al gioco politico è facile che egli dimentichi le ragioni per le quali ha iniziato a giocare; e quando infine dovesse raggiungere il potere, troverebbe estremamente arduo e doloroso spogliarsene.

Perché il "ritorno dell’uomo qualunque" possa essere oggi utilizzato in maniera costruttiva - il che, nel nostro Paese, gioverebbe al diffuso sentimento qualunquista, allo schieramento politico che riuscisse a compiere questa operazione e alla solidità delle istituzioni democratiche - è dunque necessario che esso trovi un interprete politico. Il quale ne converta le insofferenze e le rivendicazioni in un programma che dovrà in molte se non in tutte le sue pagine avere un carattere schiettamente liberale di tipo libertario. Come ho già accennato, infatti, il qualunquismo, diffidente nei confronti del potere, sensibile alle necessità quotidiane dell’individuo comune, appartiene per molti suoi aspetti all’universo ideologico liberale. Giannini rivendicava con fierezza questa parentela:  . Rappresentando un’ampia e radicata tradizione politica nazionale, il qualunquismo indica con chiarezza che, diversamente da quanto si sente spesso affermare, non mancano in Italia solide fondamenta sulle quali costruire un movimento liberale di massa.

Un programma politico liberale-libertario che intenda recuperare il patrimonio qualunquista dovrà riuscire a interpretarne il sentimento di perenne diffidenza critica nei confronti della classe ristretta che ha l’enorme privilegio di detenere il potere. Dovrà promuovere la costruzione di istituzioni compiutamente e fortemente rappresentative, contrastando quell’ostilità verso la sovranità popolare che è radicata nella tradizione politica italiana, e che è riemersa in continuazione anche in questi ultimi anni. A questo fine, dovrà avvicinare fisicamente i governanti ai governati con un serio progetto federalista; valorizzare gli strumenti della democrazia diretta; attribuire senza riserve agli elettori il potere di designare il vertice dell’esecutivo; imporre stretti vincoli legali all’eccessiva professionalizzazione della classe politica. Dovrà tagliare seriamente le unghie al potere, riducendo più che sia possibile gli insopportabili privilegi che sono ad esso collegati, costringendo l’apparato pubblico a rifugiarsi entro limiti accettabili, facendo sì che all’"uomo qualunque" sia finalmente lasciata un po’ più di libertà di movimento.

Dovrà, insomma, essere il programma di un animale politico molto raro: un "Capo" al quale il potere non ha fatto dimenticare di essere stato anch’egli, una volta, "folla".

Giovanni Orsina


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1997