Editoriale
LA CRISI PIU' SERIA
DEL MONDO

di Domenico Mennitti

Valutando le ragioni che stavano determinando la caduta del suo governo, Romano Prodi sostenne di non riuscire a coglierne di valide e si sentì autorizzato a definire la vicenda "la crisi più pazza del mondo". Gli fece eco il sistema dell’informazione che, mobilitato per accreditare la tesi di "Bertinotti personaggio irragionevole, quasi folle", si è appropriato della definizione ed ha continuato ad utilizzarla, come fosse uno slogan, sino alla ricucitura dello strappo.

Va rilevato che il commento di Prodi gronda di banalità, perché è superficiale - oltre che interessata - questa interpretazione minimale della crisi, ridotta alle velleità di un protagonista scomodo o anche alla resa dei conti fra gli ex comunisti. Le ragioni della instabilità, che continua a flagellare l’Italia nonostante la modifica del sistema elettorale, risiedono nella indeterminatezza del quadro politico dovuta al sostanziale equilibrio dei due blocchi contrapposti, all’ancora ibrido meccanismo dell’attribuzione dei seggi, ma sono soprattutto collegate all’evento più significativo del nostro tempo - la riforma dello Stato sociale - con cui governo, partiti e sindacati stanno facendo i conti. Gli interventi sullo Stato sociale non è che possano impegnare la sinistra più che la destra: investono tutti contemporaneamente per l’obiettiva constatazione che le cose non possono restare come stanno e modificarle è ineludibile. Anche improcrastinabile. Il governo di centro-destra guidato da Berlusconi cadde quando tentò di mettere le mani sul sistema pensionistico, e quello di centro-sinistra, guidato da Prodi, è rimasto in piedi solo perché ha deciso di fare marcia indietro rispetto al proposito di intervenire sullo stesso problema.

Non è stata "la crisi più pazza del mondo"; se mai è stata una manifestazione del complesso malessere di fine millennio, destinato a produrre effetti sconvolgenti sui sistemi politici ed anche su quelli costituzionali. La posta in gioco è l’organizzazione della nuova società, quale emergerà alla fine del processo di trasformazione in atto; l’individuazione del punto di equilibrio fra le nuove e le vecchie generazioni, che oggi sono contrapposte (fortunatamente in forme conflittuali non ancora clamorosamente esplose) perché le prime sono protese a conquistare un futuro di dignità e di lavoro, mentre le seconde difendono le garanzie acquisite. Non ci sono ricette pronte per risolvere questi problemi, sui quali maggioranza e opposizione farebbero bene ad attrezzarsi rinunciando ad ogni tentazione demagogica; ma c’è un modo certo per renderli più difficili e spingere i protagonisti all’esasperazione: rinviare le decisioni per guadagnare qualche mese di permanenza nelle stanze del potere.

La preoccupazione è che Prodi abbia scelto questa strada, un po’ per opportunismo e molto perché insegue l’illusione di poter conseguire il risanamento del Paese senza riformare lo Stato sociale, che peraltro in Italia ha subìto degenerazioni gravissime e per certi aspetti scandalose, determinate con ostentata irragionevolezza proprio dalle forze politiche delle quali egli è debole guida e controllatissimo prigioniero. Comunisti ed ex comunisti in posizione politica strategica per il destino del governo (tutti insieme, come dimostriamo in questo stesso fascicolo nella sezione dedicata alla crisi, capaci di ricomporsi sulle scelte che furono del vecchio Pci) sono la palla al piede dell’Italia nel suo faticoso procedere verso la modernizzazione. Perché sono gli stessi che idearono e costruirono lo Stato della discriminazione, dividendo i cittadini in privilegiati ed emarginati; ed ora sono questi ultimi che chiedono voce ed assumono un ruolo trainante. Soprattutto i giovani che, lasciati fuori dalla cittadella degli occupati, sono stati tuttavia caricati di costi altissimi.

Per le considerazioni svolte è difficile apprezzare lo stato di sottomissione che serpeggia in alcuni settori del centro-destra. Emerge con sconcertante puntualità un deficit di analisi e di temperamento ogni volta che la vicenda parlamentare volge a favore dell’attuale maggioranza. Seguono dichiarazioni di riconoscimento all’avversario, condite da rassegnate previsioni di lunga durata, senza rendersi conto che questa può essere assicurata solo da un’opposizione debole ed incapace di svolgere il proprio ruolo. Ci sono materia e ragione per ritenere precaria la stabilità del governo - e purtroppo anche quella del Paese - proprio nella previsione dell’ingresso nella moneta unica europea, che pure sta producendo tanto incauto ottimismo.

L’Italia entrerà nel sistema della moneta unica con il primo gruppo di nazioni grazie agli sforzi di risanamento compiuti, ma soprattutto grazie alla circostanza che ha legato il nostro destino a quello della Francia. Siccome non è possibile ipotizzare una qualsiasi struttura europea senza la partecipazione della Francia, abbiamo evitato di restare con il patema d’animo sino all’ultimo giorno. Sappiamo già che il gioco è fatto, ma dobbiamo anche essere consapevoli che entreremo collocati su un asse debole, Roma-Parigi, che si contrappone all’altro, forte, anglo-tedesco. Non è questione da valutare sotto il profilo delle qualificazioni politiche dei governi, piuttosto sotto quello della capacità di gestire i rispettivi Paesi nella fase di transizione che stiamo vivendo.

Il nostro aggancio alla Francia, enfatizzato in particolare da Bertinotti ma non da lui soltanto, ci colloca in una posizione di retroguardia, dalla quale deriveremo conseguenze pesanti. Dal risultato elettorale francese, oltre i problemi degli schieramenti interni, emergono segnali inquietanti di incapacità ad affrontare nodi che non sono eludibili. Ci riferiamo soprattutto al fenomeno della globalizzazione, della mondializzazione dei mercati, che l’elettorato francese si è illuso di poter risolvere semplicemente rimuovendolo. Con il successo dei socialisti, in verità, la Francia rischia di diventare il guardiano del suo museo, che notoriamente non è la sede adatta per disegnare le strategie del futuro. Tuttavia Jospin, e non Tony Blair, rappresenta il faro per la sinistra di casa nostra, che così rinnova la vocazione a perpetuare i ritardi culturali e politici che ci hanno tenuti fuori dall’Europa e dall’Occidente.

Una crisi pazza? A noi sembra una crisi vera e profonda, della quale stiamo solo leggendo una pagina. Non decisiva, tanto meno definitiva.

Domenico Mennitti


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1997