Sinistra di lotta e di governo
IL PREZZO DELLE
"DUE SINISTRE"

di Stefano Folli

L’anno dell’Ulivo, che era cominciato con la grande promessa della riforma (la Bicamerale), è terminato con l’altrettanto grande paura della crisi di governo. Scampata la quale, sono rimasti sul terreno i dubbi e le inquietudini relative al prossimo futuro. Sono inquietudini che coinvolgono in modo non troppo diverso il centro-sinistra e il centro-destra, tanto il governo e la sua maggioranza quanto l’opposizione. In definitiva, i due schieramenti hanno adesso la medesima necessità di ridefinirsi, di trovare una convincente idea di se stessi. E di porsi il problema del domani.

L’Europa di Maastricht diventa ogni giorno di più una discriminante in grado di determinare i comportamenti politici, obbligando le forze politiche a fare i conti con l’incerto bipolarismo del sistema e con la sua logica di fondo. Da un lato, l’Europa ha imposto la sua legge, nel senso che protagonisti della breve crisi sono stati anche i mercati finanziari e le cancellerie di Francia e Germania: tutti concordi nell’agire come se la moneta unica fosse non solo a portata di mano, ma nei fatti già operante, almeno dal punto di vista degli effetti politici. Dall’altro lato, questa inedita situazione induce, o indurrà tra breve, sia la sinistra sia la destra a chiarire i propri programmi di lungo periodo. E a questo proposito l’esperienza anche recente consente di fare qualche utile riflessione, in ultima analisi qualche scoperta.

Cominciamo dalla fine, cioè dalla conclusione della crisi di governo. Ci sono due tesi al riguardo. Una sostiene che ha vinto il bipolarismo, perché Rifondazione è stata costretta ad accettare il proprio posto all’interno dello schieramento di sinistra, o di sinistra-centro. L’altra tesi parla invece di una semplice tregua tra filoni non conciliabili della sinistra, una tregua pagata a caro prezzo dal governo Prodi perché si è tradotta in uno spostamento a sinistra dell’asse del governo.

La verità, a mio avviso, è proprio nel mezzo delle due tesi, a conferma della saggezza degli antichi proverbi. Il bipolarismo (o quello che ci accontentiamo di chiamare bipolarismo) è uscito solo parzialmente rafforzato dalla sbandata del governo Prodi. Non solo perché manca ancora un impianto di riforme istituzionali e una legge elettorale adeguata. Ma soprattutto perché le due sinistre, per restare unite, hanno pagato reciprocamente un prezzo non trascurabile.

Bertinotti ha dovuto lasciare sul campo l’ambizione di essere in eterno la "sinistra antagonista": oggi il "patto di un anno" lo spinge più vicino all’area del governo, lo avvicina a quel ruolo di "ala sinistra" dell’Ulivo che egli finora aveva rifiutato. D’Alema, a sua volta, ha perso credibilità come leader della nuova socialdemocrazia italiana. O meglio: prima bisogna capire che cosa s’intende per "socialdemocrazia". Socialdemocratico, al giorno d’oggi, lo è anche Cossutta, ma nel senso togliattiano del termine. D’Alema aveva e ha altri progetti. La sua idea del Pds, come è noto, s’identifica con l’esperienza inglese di Blair assai più che con quella della Spd tedesca. Un partito nominalmente socialdemocratico, ma in realtà percorso da forti tratti riformisti liberali. Capace, proprio per questo, di raccogliere il consenso di ceti sociali elettoralmente lontani dalla sinistra tradizionale e tentati, piuttosto, dall’offrire sostegno alla destra moderata. O, se ci fosse, a una formazione francamente liberaldemocratica.

Questo progetto, inteso a fare del Pds un partito laburista alla Blair, non è uscito vincente dalle calde settimane d’ottobre. D’Alema non solo non ha ottenuto l’umiliazione di Bertinotti, ma ha dovuto concedergli qualcosa, a cominciare dall’impegno sulle 35 ore; e ha dovuto in qualche modo subire quel parziale scavalcamento a sinistra del sindacato (sulla riforma delle pensioni e le categorie esenti) che era stato prima respinto. Confindustria e sindacati si sono trovati entrambi spiazzati dagli accordi politici D’Alema-Prodi-Bertinotti. Entrambi, sia pure in forme diverse, hanno attaccato il governo e hanno interrotto quel filo di sintonia che durava da tempo. Bertinotti non ha ottenuto dalla crisi tutto ciò che voleva, ma è riuscito a mettere un bastone tra le ruote della   tra governo e sindacati. Ha spezzato l’ingessatura che la filosofia di Maastricht aveva costruito, creando un interesse comune tra maggioranza di governo, sindacati e organizzazioni imprenditoriali. Quel che più conta, ha dimostrato che la mediazione del Pds, in circostanze di forte tensione, si riduce a poca cosa.

Di fronte alla crisi il ruolo di D’Alema come leader della maggioranza è apparso di non decisivo rilievo. Ha giocato quasi sempre sulla difensiva, lasciando a Prodi il compito di trovare l’intesa programmatica con Bertinotti. Questo, se vogliamo, è nella logica di un sistema maggioritario che vede nel primo ministro, e non nel capo di un partito, il naturale punto di riferimento. Ma noi sappiamo che le cose, nella pratica, non stanno esattamente così. D’Alema è apparso impacciato perché era lui, assai più di Prodi, il bersaglio dell’offensiva di Rifondazione. Lui e Sergio Cofferati. Il compromesso realizzato sul programma, creando problemi sia alla Quercia sia alla Cgil, dimostra che questa interpretazione non è lontana dal vero.

Prodi ha ricavato dall’intesa la certezza che sarà lui e non un altro a sancire, tra pochi mesi, l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. A D’Alema resta la leadership di una sinistra meno divisa di prima, poiché in qualche misura è costretta a marciare insieme dallo spirito del bipolarismo, per quanto primitivo esso sia. Ma è una sinistra che a D’Alema non può piacere troppo, perché non riesce a rappresentare una sintesi politica convincente, né a porsi fino in fondo come referente di un nuovo blocco sociale che comprende il mondo produttivo. Avrebbe dovuto, per riuscirci, garantire la riforma dello Stato sociale. Ma il risultato del travaglio d’autunno è assai deludente. In luogo di una riforma definitiva dello Stato assistenziale, abbiamo avuto la promessa (o meglio la minaccia) delle 35 ore, l’appannarsi di ogni serio discorso sulla flessibilità del mercato del lavoro, il malessere di sindacati e Confindustria.

Posta di fronte alla grande sfida europea, la sinistra ha risposto a metà. Porta il Paese nel recinto della moneta unica, ma si tratta di un Paese che non ha sanato le sue debolezze strutturali. Nel ’98, quando l’euro sarà cosa fatta, l’Italia si troverà ad affrontare in condizioni generali più difficili gli stessi nodi che oggi ha eluso. Il che sarà un problema non solo e non tanto per Bertinotti, quanto per D’Alema e per la sua idea di sinistra moderna e razionalizzatrice.

In tutto questo il centro-destra risulta privo di una sua proposta e di una sua strategia in forme quasi clamorose. Durante i giorni della crisi Berlusconi ha avanzato un’idea di grande coalizione che era del tutto irrealistica e quindi improponibile in quelle circostanze. A parte questo, il Polo è rimasto alla finestra, chiuso nell’ipotesi consolatoria che gli eventi in corso riguardavano solo la sinistra. Il risultato è che nessuno ha capito se esiste una posizione alternativa del centro-destra sullo Stato sociale, sull’Europa di Maastricht, sulle linee di sviluppo economico. Come se non bastasse, Berlusconi dà l’impressione di non credere più nel bipolarismo; mentre Fini vi rimane aggrappato, come pure alla Bicamerale, senza sapere esattamente che cosa gli porterà il domani. Di sicuro, il Polo entra nel nuovo anno, l’anno della moneta unica, privo di un ruolo visibile sulla scena politica e in grado solo di giocare di rimessa rispetto ai turbamenti o ai passi falsi della sinistra.

Ecco, allora, l’aspetto singolare del caso italiano. La sinistra si è caratterizzata a lungo, sul piano dei programmi, per il tentativo di fare una politica moderata. Ciampi, Prodi, Dini, lo stesso D’Alema: il messaggio che veniva da questi uomini in marcia verso l’Europa di Maastricht era inequivocabile. È diventato quasi un luogo comune: la sinistra italiana fa la politica della destra, ciò che quest’ultima non è in grado di fare. Colpito e frastornato da tanta avversità, il Polo è rimasto spiazzato e silenzioso. Con i fatti ha dato ragione alla sinistra, e la sua creatività politica e programmatica, già poco appariscente, si è spenta del tutto. Poi, come spesso accade, la realtà si è dimostrata più fantasiosa del prevedibile.

Proprio il compromesso Prodi-Bertinotti-D’Alema dimostra che l’omologazione della sinistra al modello moderato è tutt’altro che acquisita. Esistono forti margini di ambiguità nei programmi, nonché un’evidente difficoltà a saldare un nuovo blocco sociale. Tony Blair resta lontano dall’orizzonte della sinistra dalemiana, alla quale è assai più prossimo l’esempio del francese Jospin. E in ogni caso la cosiddetta "rivoluzione liberale" è un obiettivo ancora troppo ambizioso e vago per questa sinistra piuttosto statica e appesantita.

La domanda è allora se c’è qualcuno, in altri settori del Parlamento, capace di affrontare i rischi di un totale rinnovamento dei programmi e del costume politico, per occupare gli spazi e i territori anche elettorali che la sinistra non riesce a far suoi stabilmente. La risposta per il momento non c’è o è molto sconfortante. Il Polo, come abbiamo visto, o tace o ripone ogni speranza nella riforma della Costituzione. Ora, è vero che il semi-presidenzialismo rappresenta per se stesso un potente fattore di rinnovamento, un fattore quasi rivoluzionario nell’ottica istituzionale italiana. Ed è vero che compromettere la Bicamerale significa affossare le residue prospettive di dare all’Italia un bipolarismo compiuto. Ma non si può negare che il percorso del semi-presidenzialismo è ancora lungo e incerto. Lo stretto rapporto che si è instaurato tra D’Alema e Fini al riguardo è positivo, ma non garantisce da solo l’obiettivo finale. Soprattutto, non garantisce la brevità e l’assenza di incidenti nel tragitto parlamentare.

In attesa che il semi-presidenzialismo veda la luce e dispieghi i suoi eventuali benefici, il Polo dovrà pur decidere quale ruolo svolgere sulla scena politica. L’esperienza recente insegna che la strada è una sola. Contro la tendenza di questi anni, a favore di una certa convergenza dei programmi e del venir meno di forti differenze tra destra e sinistra, il Polo dovrà probabilmente, se ne è capace, recuperare una propria identità. Come ha detto François Furet nell’ultima intervista rilasciata a Le Monde poco prima di morire, il compito di una destra moderna non può non essere quello di  . Il che implica un certo coraggio e in primo luogo la volontà di agitare e rendere popolari i temi della "rivoluzione liberale", che una parte del mondo occidentale ha conosciuto negli ultimi vent’anni e che in Italia non è mai arrivata. Non si tratta, con ogni evidenza, di ricalcare in modo pedissequo le orme della Thatcher, bensì di considerare fino in fondo la lezione del liberalismo e di tradurla nella realtà italiana.

Se D’Alema non riesce, o non riesce ancora, a essere il Blair nostrano, ciò dipende dal fatto che prima l’Italia non ha avuto una Thatcher. C’è qualcuno nel centro-destra in grado di candidarsi a questo ruolo? In attesa del futuro semi-presidenzialismo, il lavoro non mancherà.

Stefano Folli


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1997