Il ritorno dell'uomo qualunque
TRA ALBERTONE, BERTOLDO
E PANTALONE

di Eugenia Cavallari

Gli anni dell’ascesa dell’Uomo Qualunque furono gli stessi in cui trionfava il neorealismo letterario e cinematografico, e in cui circolava un’idea di cultura come strumento privilegiato di intervento e di cambiamento del mondo. Etichettando come "realismo" o "neorealismo" una poetica legata a una specifica interpretazione del reale, si commetteva evidentemente un peccato di arroganza concettuale. Mentre l’Europa ormai da tempo si interrogava sul fondamento dei linguaggi artistici, sulle problematiche di approccio alla realtà, gli intellettuali italiani, al contrario, restringevano il campo, prescrivevano un’aderenza stretta al reale inteso solo come sociale, e proclamavano che quella dipinta da loro era la vera realtà.

Ma il cinema neorealista, pur così efficace, non ebbe grande successo. Presto il neorealismo si tinse di rosa, acquistò i toni della commedia, dimenticò l’impegno desantisiano nelle risaie e trovò quello delle risate, aprendo una stagione assai ricca della storia del nostro cinema. L’eroe degli schermi divenne Alberto Sordi, con i suoi personaggi tra furbizia e ingenuità, trasformisti, qualunquisti, divenuti il simbolo dell’italiano medio, tanto da far dire a Nanni Moretti in un suo film:  

Ce lo meritiamo, infatti, ma la questione non ha il significato immediatamente negativo che il regista le attribuisce. Fin dai gloriosi tempi dell’impegno, in cui l’Italia colta era unanimemente mobilitata per creare i presupposti civici di una nuova Repubblica, è esistita una silenziosa zona di resistenza passiva, che non riusciva ad esprimersi compiutamente attraverso una cultura e una politica, ma era pervicace nel rifiuto ad assorbire la pedagogia civile della nuova classe dirigente e delle élites culturali. Per quest’area Giannini fu un momento unico di sintesi, che però non riuscì a "traghettare", come si direbbe oggi, i suoi seguaci sulle sponde ardue della politica.

L’ombrello politico lo fornì invece la Democrazia Cristiana, che non chiedeva ai suoi elettori l’anima, come i comunisti, ma solo il voto, e per il resto li lasciava campare. Questa fu la forza e il limite della capacità rappresentativa della Dc. Il tollerante ecumenismo cattolico lasciava al qualunquismo la possibilità di esistere e di resistere, ma non gli dava in cambio una voce, una dignità, e soprattutto un’identità. Lo inglobava rubricandolo sotto altro titolo, e perciò, mentre ne garantiva la presenza, la svuotava di senso.

Cosa è stato e cosa è oggi il qualunquismo lo spiegano in queste pagine Orsina, Cofrancesco, Chiarini. Lo si può storicizzare, o invece fissare in categorie, o teorizzare. Ma in ogni caso vi serpeggia all’interno l’impulso a separare l’esperienza personale della vita dalle interpretazioni canonizzate, dalla tendenza delle élites dominanti a spacciare una visione del reale come l’unica ammissibile. È un impulso che, tradotto in politica, diventa rifiuto dell’ideologia e dell’appartenenza partitica, e, tradotto in cultura, si manifesta nella difesa di un irriducibile margine di soggettività e persino di creatività. È da qui che deriva l’impresentabilità - come direbbe Galli Della Loggia - delle opinioni del qualunquista, l’eclettismo, l’irritante incoerenza e genericità delle conversazioni da treno. Ma ne deriva anche la libertà di non appartenere a sistemi, anche a sistemi di pensiero; la libertà di non sapere dove si è collocati o, peggio, di non volere una precisa collocazione.

Pretesa insopportabile per un’epoca iperpoliticizzata come quella che l’Italia ha attraversato dal dopoguerra ad oggi. Ed è per questo che l’accusa di qualunquismo, sopravvissuta ben oltre Giannini, ha avuto pressappoco il peso negativo dell’accusa di fascismo. A chi si sottraeva al mito della partecipazione democratica, rifiutando di schierarsi o di scegliere una precisa ascendenza culturale, si diceva:  . Ma anche il non voler sapere, o il non voler scegliere, può essere un atto di consapevolezza, un circostanziato rifiuto. Può voler dire, per esempio, difendere il proprio spazio soggettivo rispetto alle opinioni codificate e partitizzate; e soprattutto può voler dire, attraverso una indisponibilità, non voler schiacciare l’individuale sul sociale, negare alla società una così grande pretesa di privilegio.

Il difetto di nascita della Repubblica italiana, il collante che teneva insieme tanta cultura del dopoguerra (magari politicamente attestata su sponde opposte) è proprio questa universalità dell’impegno, questa sovrapposizione tra sociale e reale, propugnata, all’epoca, dagli alfieri del realismo più o meno socialista. Mentre la crisi della modernità frantumava l’identità del soggetto, e moltiplicava i possibili angoli di visuale, in Italia avveniva il contrario, e ci si aggrappava a una visione "solida" e "oggettiva" del mondo.

È qui che il qualunquismo avrebbe potuto incrociare l’individualismo e la cultura liberale (vedi l’articolo su Ayn Rand). E avrebbe ancora potuto farlo con la rivoluzione nonviolenta che ha provocato nel ’94 la catastrofe dei partiti e della classe dirigente italiana. Si trattava, infatti, di un movimento d’opinione dai caratteri tipicamente qualunquisti: i politici "tutti ladri" si erano dimostrati tali, il Parlamento era delegittimato, il sistema elettorale in crisi. La "gente" (categoria che ha sostituito gli antichi appelli alla "classe") non voleva, come nelle rivoluzioni di un tempo, più eguaglianza o più diritti, ma una nuova classe politica, un sistema elettorale diverso. Voleva restringere, cioè, quel solco profondo che ormai la separava dal potere economico-politico. Gli eroi di questa rivoluzione sono stati prima Bossi, poi Di Pietro e infine Berlusconi. Sembrano, invece, aver vinto Prodi, D’Alema, Scalfaro, Agnelli.

I protagonisti della fase eroica dell’abbattimento della prima Repubblica sono ormai, chi in un modo chi in un altro, messi un po’ nell’angolo, se non sconfitti certo logorati o ridimensionati.

Di Pietro, per esempio, incarnava la figura dell’eroe puro, che aveva tra le mani la mannaia che finalmente si abbatteva sui potenti e la maneggiava per conto del popolo. Ma non c’era una voluttà da tricoteuse, in coloro che assistevano allo spettacolo dell’umiliazione della nostra classe dirigente. C’era, invece, la soddisfazione di una verità finalmente svelata, e cioè che i partiti e i politici rubano, e sono in questo davvero tutti simili tra loro: verità che ciascun cittadino conosceva, ma che non si poteva esprimere. La figura del pubblico ministero si rifaceva allo stereotipo di Bertoldo, del contadino un po’ rozzo ma furbo, così tipico della nostra tradizione comico-popolare, che Di Pietro ha interpretato assai meglio di Dario Fo. È riuscito, infatti, a produrre qualcosa di simile al rovesciamento carnascialesco dell’ordine costituito, anche linguisticamente: il ricorso a formule semi-dialettali, come il famoso "che ci azzecca", il tu per tu familiare con cui trattava personaggi intoccabili, e così via.

A questa rivisitazione di stereotipi letterari non ignobili, Di Pietro affianca una vocazione ducesca e decisionista molto meno apprezzabile. È l’anima antidemocratica del qualunquismo, quella che risolve l’incomprensibile inefficienza e macchinosità del sistema parlamentare e della burocrazia pubblica con una semplificazione antica, la necessità dell’uomo forte, di un capo che interpreti direttamente la volontà delle masse. Ma nonostante la notevolissima ambizione e l’immensa popolarità di cui "Tonino" ha goduto, oggi non pare navigare in acque promettenti. Si trova imprigionato in una coalizione che gli è profondamente estranea, che rappresenta il punto più alto di conservazione della prima Repubblica, e i cui elettori possono, al massimo, condividere la vocazione giustizialista dell’ex poliziotto, che è, politicamente, il suo tratto più plateale ma meno significativo. Ridotto al 4% (tale è attualmente, secondo i sondaggi, il potenziale elettorale di Di Pietro) e alla funzione di eventuale riequilibratore delle lotte di potere interne all’Ulivo, può ambire solo a far tornare gli striminziti conti elettorali di D’Alema, qualora si decida a rompere con Bertinotti. Triste prospettiva per colui che, fino a poco tempo fa, era il più amato dagli italiani.

Più complesso il caso di Bossi. Anche per la Lega lo slogan di maggior successo è quello che colpisce le ruberie dei politici, "Roma ladrona". In questo caso, però, non si accusano i partiti di furti generici, ma di un’intesa di malaffare tra Sud e governo, ai danni di un Nord orfano di rappresentanza politica. Se Di Pietro è l’eroe del qualunquismo contadino che finalmente rovescia i ruoli, Bossi fa rivivere un altro stereotipo classico (e nordico) della nostra commedia dell’arte, quello di Pantalone che paga. Il Settentrione, cioè, come maschera del ricco sfruttato dalla propria famiglia, dai propri servi persino; incapace di difendere se stesso e le proprie sostanze dall’avidità parassitaria di chi vive alle sue spalle.

Anche con la Lega la rivoluzione linguistica è fondamentale: esattamente come nel caso di Giannini, la violenza verbale, le metafore immaginose e semplificatorie, l’uso del ridicolo e dell’invettiva per screditare gli avversari, danno un colpo mortale al cosiddetto politichese, il gergo inventato dalla classe politica italiana nel dopoguerra, buono per mandare messaggi trasversali, conciliare l’inconciliabile, dire e non dire, esprimere la complessità senza alcuna chiarezza.

Ma anche il temuto leader della Lega, spregiudicato e certo non digiuno di politica, non riesce a dare, al qualunquismo nordico che invoca meno tasse e più autonomia, altro che un ghetto di sopravvivenza. Incapace di tradurre le istanze leghiste in azione di governo qualificante, preferisce rinunciare all’occasione unica offerta dal governo Berlusconi, in cui la Lega aveva un peso certo superiore alle sue forze reali. Berlusconi ha una cultura di governo, Bossi no: è per questa consapevolezza che il leader padano preferisce far saltare il governo e ritirarsi oltre la linea gotica. Oggi amministra una posizione difficile, sempre precariamente in bilico tra secessionismo violento e marginalità inefficace, senza vere prospettive.

L’unica occasione seria offerta ai sentimenti neo-qualunquisti degli italiani, l’unica occasione compiutamente politica, l’ha offerta Berlusconi. La creazione di Forza Italia e poi del Polo è finalmente l’incontro, mancato ai tempi di Giannini, tra qualunquismo e liberalismo. Il liberalismo italiano, pur così prestigioso fino al secondo dopoguerra, è fallito nel momento in cui avrebbe dovuto affrontare la società di massa. Si è chiuso all’interno di un club, di un gruppo autosufficiente e sottilmente segnato da venature snobistiche, che oltre a interventi individuali di commento, bellissimi giornali e passeggiate a via Veneto, ha prodotto ben poco. Nel frattempo, il mondo cattolico e quello comunista si attrezzavano per misurarsi con le nuove necessità create dalla cultura di massa. Giannini fu il solo, in quegli anni, a tentare di dare anima e corpo, e non solo intelletto, al liberalismo, attraverso i sentimenti diffusi della gente comune.

Con Berlusconi, lo sforzo di far aderire il magmatico atteggiamento qualunquista a una politica, e non solo a una protesta, è stato a un passo dal successo. Anzi, al successo era già arrivato, e se una componente importante come la Lega non si fosse ritratta, spaventata dalla concretezza della sfida, non saremmo qui a discettare di sconfitta. Non possiamo sapere quello che sarebbe accaduto, ma certo Berlusconi ha fornito per la prima volta agli italiani un programma politico, uno stile e un’immagine di forte rappresentatività per un liberalismo di massa. E ha tradotto esigenze e pulsioni tipicamente qualunquiste in un’ipotesi di governo.

Quando il leader di Forza Italia parla di "teatrino della politica", esprime una profonda, irrisolta estraneità a un mondo di cui pure fa ormai stabilmente parte. Giannini, e anche Bossi, hanno patito la contraddizione tra la vocazione anti-politica, l’accentuazione del divario tra governanti e governati, e la necessità di accedere alla politica, e magari al governo. Questa contraddizione si condensa nel personaggio carismatico a cui è affidata la leadership: Bossi, per esempio, se facesse effettivamente il ministro o il presidente del Consiglio, perderebbe immediatamente il suo carisma e la sua credibilità da capopopolo. A Berlusconi questo non accade. Imprenditore, e soprattutto "creatore" di imprese, di progetti, il leader rappresenta non l’attrito fra proposta e protesta, ma quello tra chi fa e chi dice, l’efficienza di chi agisce contro la burocratica inefficienza di chi parla. Il modello della politica "parassitaria" viene confrontato con quello più moderno, più efficiente, fornito dal mondo dell’impresa.

Ma l’imprenditorialità che Berlusconi incarna non è quella a cui gli italiani sono abituati, quella barricata dietro ai propri privilegi, assistita dalla politica. È quella del self-made-man, di chi la ricchezza l’ha prodotta, e non vi è soltanto nato dentro. La forza comunicativa di questo modello così poco italiano è molto convincente. Berlusconi esprime la possibilità di liberarsi dallo stereotipo dell’italiano furbo, che deve venire a patti, per sopravvivere, con la politica, il potere, la sua coscienza. Il suo stile è più americano che italiano, ha pochissimo a che fare con la tradizione rappresentata da Alberto Sordi, che "l’americano" lo voleva fare, ma doveva misurarsi con una realtà in cui più che l’iniziativa e la capacità personale contava l’ossequio ai potenti. Con il Polo il neo-qualunquismo poteva e può uscire dall’impoliticità, dalla rassegnazione a inscenare la protesta, a ripetere lo scontento e il mugugno, per trovare finalmente uno sbocco politico.

Si è detto che con l’Ulivo ha vinto la politica. Ha vinto, piuttosto, il più puro gioco di potere, un gioco di squadra tra i detentori del potere economico consolidato e rappresentato, e coloro che hanno della politica un’idea togliattiana, ovvero di spregiudicata tecnica della prise de pouvoir.

La politica è anche altro; per esempio la ricerca di un rapporto non strumentale, non divorante, pedagogico, prevaricante, con la società civile, un rapporto che non lasci aperte sacche troppo vaste di disaffezione e risentimento. In questo modo i sentimenti qualunquisti vengono respinti di nuovo nella marginalità, privati di sponda politica e resi inoffensivi, ma l’operazione, come si è visto nel ’94, ha i suoi rischi, e non sono rischi da poco.

Eugenia Cavallari


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1997