Chi
ha paura dei referendum?
NON DISTURBARE
IL MANOVRATORE
di Beniamino Caravita
Dopo la lettura dei
dispositivi e dopo un primo esame delle motivazioni, rese pubbliche il 10
febbraio, con cui sono stati dichiarati ammissibili 6 referendum presentati
da Pannella su 18, e 5 referendum regionali su 12 (per un totale di 11
referendum ammissibili su 30), rimane la sensazione di una Corte
Costituzionale che ha perso due grandi occasioni, ambedue di rango
costituzionale: da un lato, quella di ridisegnare in maniera compiuta e
certa lo statuto del referendum abrogativo; dall'altro, quella di aiutare e
indirizzare verso la sua definizione il processo di riforma del sistema
istituzionale.
1. L'analisi
approfondita delle contraddizioni intime delle sentenze della Corte permette
di spiegare perché si sia persa la prima occasione e illumina nel contempo
le ragioni di una scelta di politica costituzionale rischiosa e sbagliata.
Il grande numero di
referendum posti sul tappeto aveva sollecitato parte della dottrina a
chiedere alla Corte Costituzionale di operare - non apparendo
costituzionalmente possibile la limitazione del numero di referendum per via
giurisprudenziale, pur richiesta da alcuni costituzionalisti - una
complessiva e coerente ridefinizione dell'istituto.
La strada indicata da
altri giuristi - in particolare, in un seminario tenuto presso la Consulta
nel luglio 1996 - era stata quella dell'esclusione dei referendum cosiddetti
manipolativi, cioè quelli - di cui è ricca la pregressa esperienza
referendaria, tali essendo quelli elettorali del 1993, o quelli in tema di
commercio e di televisione del 1995, o quello sull'aborto del 1981, o ancora
quello in materia ambientale del 1993 - in cui il ritaglio di una o più
parole muti il significato della legge sottoposta a referendum (abrogare la
parola "non" capovolge il senso di un testo normativo). In
dottrina, comunque, altrettante voci si erano dichiarate contrarie a una
siffatta operazione, sulla base del significativo argomento dell'identità
di natura tra l'abrogazione legislativa e l'abrogazione referendaria.
La drastica soluzione
prospettata presupponeva comunque - per la sua praticabilità - il rispetto
di alcune condizioni. In primo luogo, sarebbe occorsa una rigida coerenza
applicativa: i referendum o non possono mai essere manipolativi o lo possono
essere sempre.
In secondo luogo,
occorreva probabilmente abbandonare contemporaneamente la strada per cui i
referendum possono essere dichiarati inammissibili nel caso della cosiddetta
"disomogeneità della normativa di risulta", se cioè rimangono
nell'ordinamento disposizioni incompatibili con quelle di cui è richiesta
l'abrogazione (il che presuppone un controllo capillare su tutto
l'ordinamento normativo, controllo impossibile nel nostro sistema).
In terzo luogo, la
tesi secondo cui i referendum non possono essere manipolativi presuppone
l'abbandono di quelle ipotesi di inammissibilità basate sul timore del
vuoto creato dall'esito abrogativo del referendum. L'inammissibilità del
referendum manipolativo si potrebbe giustificare, infatti, solo sostenendo
che il referendum non può mai creare nuove norme, ma può solo cancellare
leggi o disposizioni: dall'orizzonte teorico del referendum sarebbero così
escluse tutte quelle operazioni tendenti a creare nuovo diritto; e
dovrebbero però essere esaltate tutte quelle operazioni tendenti a creare
il vuoto, in nome di un potere referendario cui spetta la pars destruens,
vuoto destinato ad essere colmato dall'intervento construens del legislatore
rappresentativo.
2. Ammesso che
la Corte abbia pensato di perseguire questa strada, nessuna di queste
condizioni è stata rispettata dal gruppo di sentenze emesse dalla Corte il
10 febbraio 1997. Cominciamo dalla prima condizione, vale a dire dalla
necessità che un presunto divieto di referendum manipolativi venga
applicato in modo generalizzato. Nella sent. n. 36, relativa alla riduzione
della pubblicità della Rai-tv, la Corte Costituzionale è giunta alla
valutazione di inammissibilità del quesito referendario (così formulato
per evitare una precedente dichiarazione di inammissibilità del 1995) sulla
base della (esclusiva) considerazione
che il fine
oggettivato nella domanda referendaria appare perseguito in modo
inammissibile, in quanto contrario alla logica dell'istituto, giacché si
adotta non una proposta puramente ablativa, bensì innovativa e
sostitutiva di norme
.
In definitiva -
ha proseguito la Corte - l'abrogazione parziale chiesta con il quesito
referendario si risolve sostanzialmente in una proposta all'elettore,
attraverso l'operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente
stravolgimento dell'originaria ratio e struttura della disposizione, di
introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall'ordinamento,
ma anzi del tutto estranea al contesto normativo
.
A parte la sent. n.
39, in cui l'argomento del carattere manipolativo è accennato, ma non
utilizzato conclusivamente per motivare l'inammissibilità, in molte altre
decisioni di inammissibilità relative a quesiti sicuramente manipolativi
l'argomento non è nemmeno citato (v. per tutte la sent. n. 19, relativa a
un quesito in cui - per l'appunto - si abrogava la parola "non",
capovolgendo il significato della disposizione). E, soprattutto, sono stati
dichiarati ammissibili due quesiti aventi carattere manipolativo: tanto vale
per la sent. n. 25, relativa ai controlli regionali sugli atti degli enti
locali (quesito che, oltre a essere manipolativo, poneva anche qualche
problema di omogeneità, toccando questioni diverse); e per la sent. n. 31,
relativa alla cosiddetta obiezione di coscienza, in cui il
mutamento di
qualificazione giuridica della pretesa dell'obiettore di coscienza, nel
passaggio dal testo attuale della legge a quello che ne residuerebbe
viene definito come
effetto di
sistema
derivante
da un'operazione
in se stessa conforme alla natura abrogativa dell'istituto previsto
dall'art. 75 della Costituzione
(argomenti non
dissimili sono contenuti anche nella sent. n. 40).
La citata sentenza n.
36 sembra invero provare a tracciare una linea distintiva tra operazioni
referendarie ammissibili e non ammissibili, sostenendo lÕinammissibilità
di quelle operazioni in cui una nuova norma deriverebbe direttamente da una
operazione di ritaglio condotta su singole parole, saldando
frammenti
lessicali appartenenti a due norme completamente diverse;
mentre a siffatta
conclusione non si arriverebbe nel caso di introduzione di una nuova norma
derivante
dall'estensione
di preesistenti norme o dal ricorso a forme autointegrative
. Sembrerebbe, secondo
la sent. n. 36, che sia possibile rintracciare, nelle ventinove decisioni
sui referendum, una distinzione tra referendum manipolativi e referendum
abrogativi parziali. A prescindere dal fatto che le citate sentenze n. 31 e
n. 36 esprimono probabilmente sensibilità contrastanti sul tema del
significato della natura abrogativa del referendum, che appaiono tuttora
irrisolte in seno alla Corte Costituzionale, così come lo erano e lo sono
nella dottrina costituzionalistica, va da sé che i riferimenti, contenuti
nella sent. n. 36, alla differenza tra operazioni additive derivanti da
ritagli di frammenti lessicali ovvero da estensione di preesistenti norme o
da forme autointegrative e la conseguente distinzione tra referendum
manipolativi - inammissibili - e referendum abrogativi parziali -
ammissibili - non paiono in grado di fondare una solida, congrua e coerente
giustificazione di un presunto divieto di referendum manipolativi. E
soprattutto aprono un ulteriore, gravissimo fronte di incertezza: di nuovo,
nessuno è oggi in grado di sapere se i referendum cosiddetti manipolativi
siano o meno ammissibili; e nessuno è in grado di spiegare quando un
quesito è solo abrogativo parziale e quando invece è
"addirittura" manipolativo e, dunque, inammissibile.
3. A fianco
della nuova "spada di Damocle" di un inafferrabile carattere
manipolativo, continua a pendere sui referendum - anche se forse un po' più
spuntata - la vecchia "spada" della omogeneità della normativa di
risulta. Anche in questo caso, tuttavia, la chiave di lettura di questa
nuova giurisprudenza è quella di una sostanziale incertezza e incoerenza.
Nella sent. n. 38,
relativa all'Ordine dei giornalisti, si afferma - con interessante chiarezza
argomentativa - che
la carenza del
requisito della completezza non è ravvisabile per il solo fatto che non
siano investiti tutti gli altri frammenti, richiami o parti di norme che,
in conseguenza dell'abrogazione, verrebbero a subìre i normali effetti
caducatori o di adattamento da parte del giudice o del legislatore.
L'incompletezza è, invece, ravvisabile solo quando la stessa norma o lo
stesso principio oggetto del referendum costituiscano il contenuto
essenziale di un altro autonomo corpo normativo che, sopravvivendo
all'eventuale abrogazione per voto popolare, determinerebbe
un'intollerabile contraddizione, traducendosi in un difetto di chiarezza
verso gli elettori
.
Argomenti non
dissimili sono svolti nelle sentenze n. 21 e 22, nelle quali - correttamente
- si stabilisce che
sarà compito
dell'interprete apprezzare le conseguenze che dallÕeventuale esito
positivo della consultazione potranno derivare sulla normativa di contorno
non inclusa nel quesito
.
Tuttavia, a fianco di
queste nette affermazioni convivono decisioni che fondano l'inammissibilità
proprio su di una (presunta) incoerente normativa residua.
A tale tradizionale
motivo di inammissibilità sembra rifarsi - pur se in modo perplesso - la
sent. n. 30, sulla cosiddetta smilitarizzazione della Guardia di Finanza,
secondo cui
il ricorso allo
strumento referendario per abrogare il carattere militare insito nella
struttura complessiva e nei modelli organizzativi del Corpo appare
inidoneo ed incongruo rispetto al fine dichiarato:
secondo la Corte
quanto sopra
esposto trova riscontro nella corposa disciplina normativa non compresa
nel quesito referendario;
e vi sarebbe una
imponente
legislazione, diversa dalla legge n. 189 del 1959, non toccata dal
referendum.
E anche
all'applicazione del criterio della normativa di risulta fa riferimento la
sent. n. 23, in cui la Corte - per dichiarare una, sorprendente,
inammissibilità del referendum sul ministero dell'Industria - fa
riferimento al fatto che non sarebbero state incluse nel quesito altre -
innominate - disposizioni
che attengono
alle funzioni dell'apparato
.
4. Dal
pacchetto di sentenze emerge inoltre un diverso problema in cui incorrono i
cosiddetti referendum abrogativi parziali, sempre che di essi se ne possa
dare una categoria diversa da quelli manipolativi.
E' evidente che in un
referendum abrogativo parziale - che a giudizio di chi scrive è comunque
"manipolativo" - il quesito viene formulato allo scopo di
imprimere allÕesistente testo legislativo - attraverso più o meno ardite
operazioni di ritaglio di singole parole - un significato diverso,
eliminando certi significati ovvero riducendone la portata o addirittura
ribaltando il significato della norma ricavabile dal testo. Questa
operazione di ritaglio è effettuata avendo presente un certo obiettivo,
leggendo il testo da abrogare alla luce di esso e "piegando" il
risultato dell'abrogazione rispetto a quell'obiettivo. Invero, nella nuova
giurisprudenza della Corte Costituzionale appare evidente come la Corte
voglia ripercorrere la congruenza e la tenuta della normativa residua,
reinterpretando - con i suoi occhi - quod superest.
In tali casi -
esemplari, in senso negativo, il giudizio sul referendum sulla responsabilità
civile dei giudici, sent. n. 34, e quello sulla smilitarizzazione della
Guardia di Finanza, sent. n. 30, e, in senso positivo, quello sull'obiezione
di coscienza, sent. n. 31 - la Corte Costituzionale, dopo aver effettuato
una penetrante indagine sulla volontà dei promotori, ripercorre le
conseguenze del ritaglio referendario, verificando la conseguenzialità e il
funzionamento della normativa: nel caso dei referendum abrogativi parziali
occorre, dunque, che la Corte
sia d'accordo
con il ritaglio e con
le sue conseguenze; in caso contrario, scatta non già una possibile
correzione del quesito, bensì lÕinammissibilità del referendum.
5. Rimane poi
il problema - cruciale, a giudizio di chi scrive - della inammissibilità
dei referendum elettorali, quando da essi non derivi una coerente normativa
applicabile, inammissibilità che appare incoerente con una presunta (ma
ancora non sicura) inammissibilità dei referendum manipolativi.
Sia nella sent. 5 del
1995, che nell'odierna n. 26, la Corte ha osservato che la disciplina
risultante dall'eventuale esito positivo del referendum non è
immediatamente
applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità dell'inerzia
legislativa, la costante operatività dell'organo
. E ciò in ragione
del fatto che dal ritaglio referendario residuerebbe un numero di collegi
inferiore al numero costituzionalmente previsto (475 su 630 per la Camera
dei deputati; 232 su 315 per il Senato della Repubblica), cosicché si
dovrebbe provvedere, quanto meno, alla riformulazione dei collegi, in modo
da renderne il numero pari a quello dei seggi costituzionalmente fissato.
Si tratta - com'è
noto - di una posizione che risale alla sent. n. 29 del 1987 della Corte
Costituzionale, ormai - almeno apparentemente - consolidata, attraverso un
numeroso gruppo di sentenze successive (47/1991; 32/1993; 33/1993; 5/1995;
10/1995). Eppure, si annida in questa giurisprudenza un equivoco su cui è
opportuno ancora una volta soffermarsi e offrire all'opinione pubblica gli
argomenti contrari a questa tesi.
Affermò la sent. n.
29 del 1987:
Gli organi
costituzionali o di rilevanza costituzionale non possono essere esposti
alla eventualità, anche soltanto teorica, di paralisi di funzionamento.
Per tale suprema esigenza di salvaguardia di costante operatività,
l'organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla
Costituzione, una volta costituito, non può essere privato, neppure
temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella
propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere
abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova
disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di
assolvere
.
Si è da quella
sentenza formato un filone di giurisprudenza paradossalmente contraddittorio
con la costituzionalmente proclamata natura abrogativa del referendum.
Infatti, mentre una giurisprudenza costituzionale costante (e un'altrettanto
costante prassi referendaria) ritengono generalmente utilizzabile,
nell'esercizio del diritto di cui allÕart. 75 Cost., sia la tecnica
dell'abrogazione di intere leggi, articoli o commi (quella che viene
definita come "abrogazione secca"), sia la tecnica
dell'abrogazione manipolativa, per cui - attraverso l'accorta espunzione di
singole parole - si muta significato a un testo (questa posizione pare
parzialmente contraddetta dalle nuove posizioni della Corte, su cui ci si è
soffermati sopra), in materia elettorale - e solo in materia elettorale! -
la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha escluso la possibilità di
ricorrere all'abrogazione "secca", imponendo abrogazioni
manipolative e autoapplicative.
Insomma, il referendum
in materia elettorale è possibile solo a condizione che (oltre al
tradizionale requisito dell'omogeneità e della chiarezza del quesito)
ne risulti una
coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da
garantire, pur nell'eventualità di inerzia legislativa, la costante
operatività dell'organo
.
Il paradosso di questa
giurisprudenza consiste in ciò che essa eleva a principio e a canone
prescrittivo una tecnica referendaria che dovrebbe - se del caso - essere
eccezionale, quella manipolativa. Diviene dunque necessario includere nel
quesito anche
singole parole o
singole frasi della legge prive di autonomo significato normativo:
e ciò al fine di
ottenere una normativa residua autoapplicativa.
Il carattere
abrogativo del referendum previsto nel nostro ordinamento costituisce una
garanzia di un corretto rapporto tra legislatore popolare e legislatore
rappresentativo: ogniqualvolta il popolo, per via referendaria, avesse
disvoluto alcunché, eliminando dall'ordinamento una disciplina, avrebbe
dovuto essere poi il legislatore rappresentativo a costruire - se necessario
- una nuova disciplina applicabile alla fattispecie. La giurisprudenza della
Corte Costituzionale in tema di referendum elettorali conduce invece al
risultato opposto: in ragione dell'obiettivo di salvaguardare
la costante
operatività dell'organo,
si nega, in verità,
il dispiegarsi della potestà legislativa parlamentare. Già così è
successo nel 1993; e, non a caso, le due leggi elettorali per la Camera e
per il Senato sono risultate "leggi-fotocopia" del risultato del
referendum: il legislatore parlamentare, infatti, secondo quanto gli aveva
"permesso" la sent. n. 32 del 1993, ha corretto, integrato,
modificato la disciplina residua, ma non ha avuto la forza o il coraggio di
distaccarsi dall'esito "letterale" del referendum nemmeno per
quanto riguarda la "casuale" proporzione del 75% dei seggi
attribuiti con il sistema maggioritario e del 25% attribuiti con il sistema
proporzionale!
Secondo la
giurisprudenza della Corte Costituzionale, non potrebbe dÕaltra parte darsi
altra evenienza: il quesito referendario deve produrre una normativa
autosufficiente e autoapplicativa, che potrà - al massimo - essere
"corretta".
E' difficile negare
che questo modello - a cui si è giunti forse in maniera non del tutto
avvertita - è ormai lontanissimo dal modello costituzionale!
Occorre invece
ribadire che un corretto rapporto tra legislatore popolare e legislatore
rappresentativo impone - e ciò proprio in una materia delicata quale quella
elettorale - un rapporto inverso a quello che emerge dalla dottrina della
Corte Costituzionale : al referendum spetta la pars destruens, mentre al
legislatore rappresentativo spetta la pars construens della legislazione
elettorale.
In verità, il
referendum - in materia elettorale, così come nelle altre materie non
sottratte dall'art. 75, comma 2, Cost. - deve sì incorporare
l'evidenza del
fine intrinseco all'atto abrogativo,
giacché
dinanzi ad una
norma elettorale la pura e semplice proposta di cancellazione,
insuscettibile di indicazioni desumibili da meri riferimenti al sistema,
non è di per sé teleologicamente significativa
(sent. n. 29 del
1987). Ma, una volta che la ratio sia evidente - e nel caso di specie lo
era, giacché si mirava all'eliminazione della quota proporzionale del 25%
dei seggi -, spetta poi al legislatore rappresentativo trarre le conseguenze
dell'abrogazione, parziale o totale, della legge elettorale: nel rispetto
della ratio dell'abrogazione, ma non delle singole parole casualmente
residuate dal ritaglio referendario.
D'altra parte, proprio
dall'aver ammesso - e, in materia elettorale, imposto - la tecnica
manipolativa deriva uno dei più gravi equivoci circa il limite creato dal
risultato abrogativo: la garanzia costituzionale che circonda l'esito
referendario vale infatti per quanto riguarda l'eliminazione di una certa
normativa e attiene al divieto di riproposizione della medesima (sotto il
profilo sostanziale) normativa. Tuttavia, nel momento in cui si impone una
tecnica manipolativa, si crea anche l'illusione ottica che il vincolo,
assumendo un indirizzo positivo, riguardi anche il concreto - e spesso
casuale - risultato normativo residuo: ed è così che si è giunti alle
leggi elettorali del Senato e della Camera che non sono riuscite a
distaccarsi dalla previsione - di cui si chiedeva oggi l'abrogazione - del
25% dei seggi distribuiti proporzionalmente.
Di tutti questi
argomenti la Corte non si è fatta carico. A ciò ha contribuito, oltre
all'evidente riflusso proporzionalistico cui stiamo assistendo e di cui è
testimonianza anche la legge sul finanziamento dei partiti, un'eccessiva
attenzione giornalistica a iniziative legislative che - sulla scorta dei
princìpi evidenziati dalla precedente memoria dei promotori del 1995 e
dalla sent. n. 5 del 1995 - miravano a superare il problema del vuoto di
leggi elettorali operative, stabilendo il principio dell'applicabilità
della vecchia legge elettorale sino alla completa attuazione della nuova. Si
trattava, in verità, di iniziative oggettivamente contraddittorie con i
referendum e palesemente inutili, giacché la bocciatura del referendum
avrebbe inevitabilmente condotto alla bocciatura dell'iniziativa
legislativa: cosa che si è puntualmente verificata solo qualche giorno dopo
la pubblicazione delle motivazioni della sentenza. La Corte ha così
ribadito la propria giurisprudenza, senza però rispondere agli altri
argomenti avanzati dai promotori (possibilità di conflitto di attribuzione
da parte del presidente della Repubblica; illegittimità costituzionale
degli articoli 7 delle leggi n. 276 e 277 del 1993).
6. I referendum
abrogativi delle leggi elettorali degli organi costituzionali, dunque,
non devono
paralizzare i meccanismi di rinnovazione, che sono strumento essenziale
della loro necessaria, costante operatività
(sempre la sent. n.
26).
Si potrebbe allora
pensare che il timore della mancanza di una disciplina legislativa regga
tutti i casi in cui si è di fronte ad attività costituzionalmente
necessarie; che cioè un simile criterio di inammissibilità - utilizzato
originariamente per l'elezione di un organo a rilevanza costituzionale,
quale il Consiglio superiore della magistratura - valga per tutti quei casi
in cui la Costituzione prevede organi o attività necessari per il corretto
funzionamento del sistema istituzionale.
Così - fortunatamente
- non è: e il timore del vuoto vale solo per le leggi elettorali. La sent.
n. 21 ha infatti dichiarato ammissibile il quesito referendario volto
all'abrogazione integrale dell'attuale sistema dei controlli dello Stato
sulle Regioni, ritenendo dunque irrilevante il vuoto legislativo in una
materia retta direttamente da una disposizione costituzionale (art. 125).
Ha correttamente
affermato la Corte che
la legge
ordinaria investita dal referendum, disciplinando i poteri e la
composizione della commissione regionale di controllo, individua una fra
le tante soluzioni astrattamente ammissibili per attuare il disposto di
rango costituzionale. In altri termini la disciplina concretamente
apprestata dal legislatore in ossequio al precetto dell'art. 125 della
Costituzione esprime una scelta politica del Parlamento, che poteva anche
essere diversa, senza che ne resti violata, nel caso che essa dovesse
venir meno, la volontà della norma costituzionale
.
Viene da chiedersi -
allora - perché questa corretta argomentazione, che supera l'argomento del
vuoto, non abbia potuto trovare spazio anche in tema di referendum
elettorali.
7. Un
tradizionale luogo di incertezza della giurisprudenza in tema di
ammissibilità dei referendum è quello del rilievo della volontà dei
promotori nell'individuazione del significato del quesito. Anche questo
spinoso argomento non viene chiarito dal nuovo pacchetto di sentenze, che
anzi assumono atteggiamenti fortemente contraddittori.
Infatti, mentre in via
di principio rimane fermo il tradizionale orientamento secondo cui occorre
esaminare
il fine
oggettivato nella domanda referendaria
(sent. n. 36), in
moltissime altre la Corte dà un rilievo addirittura inusuale alla volontà
e alle determinazioni dei promotori.
Esemplare la sent. n.
40 (emessa in un giudizio in cui chi scrive ha avuto solo la ventura di
sostituire l'originario difensore assente), in cui la Corte fa esplicito
riferimento alle memorie presentate dai promotori ed a
unÕinsuperabile
incertezza circa il significato che [...] gli stessi promotori hanno
inteso attribuire al quesito
. Riferimenti
egualmente espliciti alla volontà dei promotori e alle finalità da essi
perseguite sono poi contenute in altri quesiti del gruppo radicale (ad
esempio, nella sentenza sulla Guardia di Finanza o in quella sulla
responsabilità civile dei magistrati).
Un riferimento affatto
particolare alla volontà dei promotori è stato effettuato dalla Corte in
alcune sentenze di inammissibilità dei referendum proposti dalle Regioni:
ma qui viene in gioco un peculiare atteggiamento tenuto dalla Consulta nei
confronti di tali referendum, sul quale si tornerà tra breve.
8. In molte
decisioni - ma non in quelle sulle leggi elettorali - la Corte
Costituzionale ha modificato orientamenti precedentemente espressi. Così è
avvenuto per quanto riguarda la Guardia di Finanza, la responsabilità
civile dei magistrati, la pubblicità Rai-tv, il ministero dell'Industria,
il ministero della Sanità, casi in cui i quesiti erano stati formulati
facendosi carico delle indicazioni contenute in precedenti decisioni di
inammissibilità.
Vale citare, in
particolare, il caso della decisione di inammissibilità sul ministero
dell'Industria (sent. n. 23). Un quesito simile era stato dichiarato
inammissibile nel 1993 (sent. n. 36) sulla base della esplicita
considerazione che
il processo di
trasformazione del ministero dell'Industria è stato più complesso di
quello ricavabile dall'analisi congiunta dei tre testi normativi indicati
nel quesito referendario: oggi la sua struttura organizzativa è assai
diversa da quella rappresentata dal decreto luogotenenziale n. 223 del
1946
. Seguiva poi una
dettagliata elencazione di leggi istitutive o modificatrici di direzioni
generali. A queste indicazioni avevano puntualmente e pedissequamente dato
seguito le Regioni promotrici. Per sentirsi poi rispondere che
le Regioni hanno
sì incluso nel nuovo quesito tutte le disposizioni concernenti
l'organizzazione ministeriale, ma non tutte le altre alle prime
strettamente connesse, cioè quelle che attengono alle funzioni dellÕapparato
.
E, così, in uno
sconcertante meccanismo di inseguimento, che non rispetta i requisiti minimi
di motivazione che devono caratterizzare un atto giurisdizionale, il tiro si
sposta sempre più avanti: non basta chiedere l'abrogazione delle direzioni
generali, bisogna richiedere anche l'abrogazione di tutte (e come si possono
mai individuare!?) le disposizioni (mai minimamente richiamate dalla Corte)
che attribuiscono funzioni al ministero. L'argomento - oltre a essere
pretestuoso e immotivato - entra in palese contraddizione con quanto
affermato nella sent. n. 17, relativa all'inammissibilità dell'abrogazione
del ministero della Sanità, in cui si afferma che
l'abrogazione
delle norme che ne prevedono l'esistenza [del ministero] implica la
soppressione delle relative funzioni
.
9. Un significativo
mutamento di giurisprudenza è poi intervenuto in materia di aborto: il
medesimo quesito dichiarato ammissibile con la sent. n. 26 del 1981 è stato
oggi dichiarato inammissibile con la sent. n. 35: a prescindere da ogni
considerazione sostanziale (e fermo rimanendo però che di questi temi ne
devono poter discutere, allo stesso modo e ad eguale titolo, sia eminenti
giuristi sia le donne e gli uomini che questi drammi vivono), resta il fatto
che oggi, nel 1997, a differenza che nel 1981, la Corte Costituzionale ha
ritenuto che
la Costituzione
non consente di toccare mediante l'abrogazione, sia pure parziale, della
legge 23 maggio 1978, n. 194, [...] quel nucleo di disposizioni che
attengono alla protezione della vita del concepito quando non siano
presenti esigenze di salute o di vita della madre, nonché quel complesso
di disposizioni che attengono alla protezione della donna gestante: della
donna adulta come della donna minore di età, della donna in condizioni di
gravidanza infratrimestrale come della donna in condizioni di gravidanza
più avanzata
.
10. Rilevante
è infine l'amplissimo ricorso alla categoria della inammissibilità di
referendum in ragione del fatto che essi mirerebbero a colpire disposizioni
legislative dotate di copertura costituzionale.
Questo argomento è
stato abbondantemente utilizzato per dichiarare l'inammissibilità di ben 5
referendum regionali, a conferma dell'attitudine negativa con cui la Corte
ha esaminato i referendum regionali, come è emerso dalla battuta - a dir
poco, infelice - di un giudice costituzionale rimasto anonimo apparsa su La
Repubblica del 30 gennaio, che aveva bollato come "eversivi" i
referendum regionali.
Così, nella sent. n.
18, di inammissibilità del quesito sulla funzione statale di indirizzo e
coordinamento delle attività regionali, la Corte ha per la prima volta
esplicitamente "costituzionalizzato" tale funzione, della quale si
era finora limitata a dichiararne la non incostituzionalità (va comunque
sottolineato il passaggio in cui si riconosce che le esigenze unitarie
possono ben
trovare espressione, ad opera del legislatore ordinario, anche con modalità
e contenuti diversi, non necessariamente improntati ad una logica di
sovraordinazione di vincolo, invece che ad una logica di cooperazione,
promossa e guidata dal centro:
anche se non si può
non riscontrare in tale affermazione una certa qual contraddizione, giacché
si poteva anche concludere che il secondo modello di indirizzo e
coordinamento avrebbe potuto sostituire il primo, una volta che questo fosse
stato abrogato per via referendaria).
E, ancora, nella sent.
n. 19, si è ritenuto che
l'eliminazione
in radice di ogni forma di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di
attività promozionali all'estero
conduce
all'inammissibilità del quesito, essendo rivolta
a colpire
inammissibilmente il principio costituzionale di leale cooperazione che
trova il suo diretto fondamento nell'art. 5 della Costituzione
.
Egualmente viene fatta
derivare dalla volontà di colpire l'art. 5 Cost. l'inammissibilità del
referendum in tema di rapporti con la Comunità europea: qui la Corte
effettua un'interpretazione della ratio del quesito che va abbondantemente
al di là della volontà dei promotori, che mirava a una ridefinizione dei
rapporti con la Comunità europea del sistema Stato-Regioni, anche in
ragione delle critiche numerose e fondate a cui le disposizioni abrogande
erano state sottoposte. Secondo la Corte
è invece
evidente l'intendimento
di eliminare ogni
funzione statale nei rapporti con la Comunità: l'evidente pregiudizio
antiregionalista della Corte si appalesa se solo si riflette sul fatto che,
non essendo costituzionalmente possibile una tale conclusione, del quesito
referendario ne andava fatta - secondo logica - la ricostruzione per cui
dall'abrogazione derivava la necessità di riconsiderare l'insieme dei
rapporti con la Comunità.
E, infine,
all'esistenza di funzioni amministrative statali costituzionalmente
necessarie in materia di tutela della salute viene fatta risalire
l'inammissibilità del quesito abrogativo del ministero della Sanità (come
se tali funzioni non potessero essere mantenute in capo allo Stato,
allocandole in modo diverso dall'organizzazione dicasteriale e come se - ad
esempio - tali funzioni non esistessero anche in materia di agricoltura,
ministero la cui abrogazione è stata ritenuta possibile).
11. E' inutile
negare che il blocco delle 29 sentenze non sfugge a una sensazione di
contraddittorietà e incongruenza: la Corte, invece di cogliere lÕoccasione
del grande numero di quesiti per compiere un'operazione di riscrittura
dell'istituto, ha ancora una volta aumentato il tasso di contraddittorietà
della propria giurisprudenza, confermando la sensazione che le motivazioni
siano state, in qualche modo, apposte at random, a suggello di decisioni
prese secondo criteri e scelte che - come è stato detto - non sono di
diritto costituzionale, bensì di "politica costituzionale".
Costruire un quesito
referendario ammissibile è oggi impresa improba, ancor più di ieri: le
speranze di successo si sono - statisticamente - ridotte al 33%, contro il
precedente 50%. E, poiché - per ragioni già dette altrove - non pare
perseguibile la strada dell'anticipazione del giudizio di ammissibilità, il
rischio che queste sentenze della Corte innescano è quello di una rincorsa
tra promotori e Corte Costituzionale: gli uni alla ricerca dei quesiti
ammissibili; l'altra alla ricerca di sempre più raffinate ragioni di
inammissibilità.
La verità - come pure
è stato detto - è che la Corte Costituzionale partecipa di questo
generalizzato rigetto dell'istituto referendario che permea - non già il
sistema costituzionale, che il referendum accoglie all'art. 75, senza porre
ad esso limiti - il sistema politico italiano: ed ecco, allora, che non è
difficile osservare che sugli undici quesiti ammessi ben sette (quattro
regionali e tre radicali) possono essere superati da iniziative legislative
in corso, lasciando sul terreno quesiti per i quali si potrebbe anche non
raggiungere il quorum.
12. Siamo ormai
giunti sul terreno della politica, pur se "costituzionale",
terreno da cui la Corte non è mai rifuggita, specialmente quando si tratta
di referendum.
Si è già notato che
la Corte ha lasciato passare i quesiti più indolori. E' probabile, allora,
che la vera scelta di "politica costituzionale" effettuata dalla
Corte Costituzionale - rispetto alla quale non è poi riuscita l'operazione
di congrua individuazione dei relativi tradizionali criteri di
inammissibilità - sia stata quella di lasciar via libera a quei soli
quesiti che meno avrebbero disturbato la "politica", impegnata
nella difficile opera della Bicamerale: e in questo senso sono stati
orientati molti primi commenti alle decisioni della Corte. La decisione
della Corte sembra così sottendere una convinzione di fondo, quella che la
"politica", quella seria, alta, di Palazzo, non quella "di
piazza", del Paese, ce la può fare, è in grado di farcela, senza che
siano più necessarie una spinta e una partecipazione popolare: anzi, è
opportuno arrecare ad essa il minimo disturbo.
Si tratta di una
scelta di politica costituzionale discutibile e rischiosa. Discutibile,
perché sostanzialmente adesiva a quelle ricostruzioni dottrinali che
dimenticano come la Costituzione dia uno spazio autonomo al referendum,
istituto di democrazia diretta, che viene posto su di un piano equiparato -
e non subordinato - agli istituti di democrazia rappresentativa: la
Costituzione, infatti, non circonda l'istituto di tutte quelle limitazioni
che poi la giurisprudenza ha apposto, venendo così incontro alle richieste
del sistema politico, il quale non è mai stato in grado di elaborare un
compiuto statuto dei rapporti con il referendum.
La scelta è però
anche rischiosa. Non è assolutamente detto che in un Paese come il nostro
sia opportuno favorire una ripresa di uno stretto controllo della politica
sul sistema sociale: il sistema politico italiano è pur sempre figlio di
quello travolto da Tangentopoli, non per cattiveria di questo o quell'uomo
politico, ma per quegli intrinseci difetti - debolezza del tessuto sociale,
debolezza di circuiti decisionali decentrati, predominio del sistema dei
partiti, pervasività dell'apparato pubblico, mancanza di credibili
alternative - che paiono caratterizzare anche la fase attuale. Chi scrive
continua a ritenere che sarebbe stato preferibile un intreccio tra
Bicamerale e referendum, tale per cui questi ultimi avrebbero fornito spinta
e indirizzo alle operazioni di riforma, che sarebbero poi state dettagliate
e precisate attraverso la Commissione bicamerale.
Oggi, dopo la
bocciatura dei referendum per l'abrogazione della quota proporzionale e la
successiva bocciatura parlamentare anche della proposta che avrebbe dovuto,
secondo alcune tesi, permettere i referendum elettorali, l'evoluzione verso
un sistema elettorale maggioritario uninominale si è ormai bloccata; ed è
assai probabile - sempre che la Bicamerale continui il proprio cammino - che
si sia bloccata anche la strada per un'evoluzione del sistema politico
italiano verso quelle democrazie maggioritarie e dell'alternanza alle quali
molti avevano con speranza guardato negli ultimi anni.
Beniamino
Caravita |