Intervista a Giovanni Sartori
UN ACCORDO A TRE
PER IL BIPOLARISMO

di
Giovanni Orsina

Non è un caso che le più significative convergenze in sede di Bicamerale siano state determinate dall'audizione di Giovanni Sartori. Lui è, del resto, il "padre storico" della nostra scienza politica. E dopo aver contribuito alla creazione di una vera e propria scuola politologica, ha diffuso anche all'estero i suoi contributi, trasferendosi nel '75 negli Stati Uniti dove ha insegnato nella Columbia University di New York con la prestigiosa cattedra di "Albert Schweitzer Professor in the Umanities". Tra le sue principali opere: Democrazia e definizioni (1957), La politica (1979), Elementi di teoria politica (1987) e il recente Come sbagliare le riforme. A questo rigoroso lavoro scientifico, Sartori ha anche affiancato un impegno di "cultura militante" attraverso le colonne del Corriere della Sera, da dove in questi ultimi anni è stato in prima fila nella battaglia per dare al nostro Paese un nuovo assetto istituzionale.

Domanda - Alla vigilia della conclusione dei lavori della Commissione Bicamerale, quale giudizio dà della Costituzione repubblicana del 1948 e del suo funzionamento?

Risposta - La Costituzione del 1948 era una normale Costituzione parlamentare senza infamia e senza lode. Allora la preoccupazione primaria fu garantista, il che era del tutto comprensibile in un Paese librato fra comunismo e no. Le disfunzioni e la degenerazione assembleare sono poi state create da pessimi regolamenti parlamentari, frutto del consociativismo Pci-Dc.

Lei si è sempre rifiutato di considerare l'Italia del post-1993 una seconda Repubblica. Questa posizione l'ha portata a minimizzare la rilevanza dei mutamenti di fatto del quadro politico-istituzionale e a schierarsi con quanti ne asserivano la sostanziale continuità. Non crede, oggi, che il formato bipolare, pur con tutti i suoi limiti, rappresenti una conquista da difendere e una premessa necessaria all'edificazione di una vera seconda Repubblica?

Un sistema politico cambia numero quando cambia Costituzione (e in America latina nemmeno in questo caso). E dunque finché resteremo alla Costituzione del 1948 resteremo alla Repubblica che produce e consente. I mutamenti di fatto sono incorporati, nel discorso costituzionale, nella cosiddetta Costituzione materiale, ma è raro che una Costituzione materiale risulti discontinua rispetto alla Costituzione formale che ne costituisce la matrice. Discontinuità implica rottura, e questa rottura io non la vedo (e sarebbe segnalata da denunzia di incostituzionalità sottoposta alla Corte Costituzionale). I cambiamenti sono avvenuti nel sistema elettorale, che è materia di legge ordinaria, e nel sistema partitico. Non ne minimizzo affatto la rilevanza: mi limito a precisare che non si tratta di cambiamenti costituzionali.

Quanto al bipolarismo, lo considero la struttura competitiva "normale" dei sistemi politici normalizzati. Una conquista da difendere, certo; ma non da difendere forzosamente con divieti di ribaltone e marchingegni che non esistono in nessuna Costituzione al mondo. Il bipolarismo si difende praticandolo.

Un'eventuale revisione della seconda parte della Costituzione vigente (cioè un positivo risultato della Commissione Bicamerale) potrebbe configurarsi come "discontinuità" e quindi come "rottura" in grado di edificare una "vera" seconda Repubblica?

Se la Costituzione viene modificata profondamente, siamo in presenza di un vero cambiamento. "Rottura" è un vocabolo pittoresco. Se c'è rivoluzione c'è rottura. Altrimenti, come nel caso della Bicamerale, il possibile cambiamento può essere lieve o sostanziale. Se venissero accolte le richieste del Ppi (che auspica un cancellierato alla tedesca e la semplice introduzione della sfiducia costruttiva) avremmo un cambiamento lievissimo. Se a maggioranza prevalesse la difesa del Mattarellum e si impedisse la riduzione del numero dei partiti, avremmo un cambiamento lievissimo. Ma se si arrivasse ad accettare un sistema presidenziale o semipresidenziale, allora avremmo un cambiamento vero.

Gli avversari della riforma puntano molto sulla necessità che il parlamentarismo sia preservato in quanto parte della tradizione politica italiana. Considerando la storia istituzionale del nostro Paese, la sua relativa brevità e le numerose e profonde fratture che l'hanno tormentata - dall'Unità al fascismo alla Repubblica - crede davvero che sia possibile parlare di una tradizione italiana?

La nostra tradizione parlamentare è di un assemblearismo controllato e gestito da una partitocrazia. Davvero una bella tradizione!

In Francia il semipresidenzialismo si è affermato come reazione nei confronti della tradizione parlamentaristica della III e IV Repubblica. Benché si trattasse di una tradizione molto più radicata di quella che può vantare l'Italia, si ebbe il coraggio di superarla. Perché nel nostro Paese, quarant'anni dopo la nascita della V Repubblica, c'è ancora chi si ostina a considerare la tradizione parlamentaristica come un limite invalicabile?

La risposta è semplice: la tradizione italiana è un pretesto invocato più o meno in malafede da chi non vuole nessun cambiamento e difende la nicchia che ha. Io non sono un estremista o un agitato alla Pannella, che va all'attacco di tutte le tradizioni. Ma le tradizioni da difendere sono quelle che hanno funzionato, non quelle che ci hanno disastrato.

Il semipresidenzialismo potrebbe rappresentare il punto d'incontro politico fra diverse esigenze, coniugando il rispetto per la centralità del Parlamento e la necessità di rafforzare il potere esecutivo. Questa sua flessibilità può però favorire la costruzione di un sistema politico pasticciato, figlio non di una logica di compromesso ma di un compromesso illogico. Come pensa sia possibile evitare un esito di questo tipo?

Per non pasticciare il semipresidenzialismo francese basta imitarlo, nel senso di rispettarne la logica di funzionamento. E deve essere chiaro che una Costituzione mista (qual è indubbiamente la Costituzione della V Repubblica francese) è una cosa, e una Costituzione pasticciata è tutt'altra cosa. E lo stesso vale per la flessibilità. Cioè a dire un sistema flessibile non è per questo un sistema pasticciato: è, semmai, un sistema che ci cava dai pasticci.

È d'accordo sul fatto che per i semipresidenzialisti l'elezione diretta del capo dello Stato sia un punto di discontinuità irrinunciabile rispetto alla prima Repubblica?

Sì, sono d'accordo. L'elezione popolare, diretta o anche indiretta, è una caratteristica definitoria dei presidenzialismi; e dunque se non c'è elezione popolare non c'è (per definizione) sistema presidenziale. Preciso, però, che questa è una condizione necessaria ma non sufficiente di presidenzialismo.

Di per sé la formula "semipresidenzialismo" non specifica quale debba essere l'equilibrio fra legislativo ed esecutivo, la cui definizione dovrà essere piuttosto affidata ai concreti meccanismi istituzionali. Come dovrebbe strutturarsi, secondo lei, tale rapporto?

Questo equilibrio deve essere precisato, come lei dice, in termini di concreti meccanismi istituzionali. L'idea generale è di impedire, per quanto possibile, un potere di paralisi. Nel mio libriccino di Ingegneria costituzionale comparata, pubblicato l'anno scorso da "Il Mulino", passo in rassegna i meccanismi in questione e ne suggerisco anche di nuovi. Ma qui entriamo in discorsi complicati nei quali qui non posso entrare.

Il semipresidenzialismo prevede che vi sia un rapporto di fiducia fra governo e Parlamento. Il sistema elettorale assume quindi un'importanza fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni. Lei sostiene da sempre una forma di doppio turno piuttosto aperto, e recentemente ha anche proposto un piccolo "recupero" proporzionale. Non crede che questo sistema garantisca eccessivamente i "partitini", mettendo a rischio la stabilità?

Nella mia proposta di un doppio turno aperto, al secondo turno, ai primi quattro candidati, il recupero proporzionale è solo del 15 per cento ed è concepito come un incentivo - per i partiti che non possono vincere - a ritirarsi dalla corsa (che così diventa pulita, cioè non condizionata da ricatti). Ma questo ricupero non è accessibile ai partitini, e nelle proporzioni da me previste non dovrebbe ostacolare la governabilità.

La sua opposizione tanto al premierato quanto al presidenzialismo deriva dalla rigidità che lei attribuisce a questi sistemi. Si tratta, tuttavia, di una rigidità derivata dai princìpi democratici, ovvero dall'idea che la scelta degli elettori debba essere comunque rispettata. Non crede, pertanto, che i pregi di questa rigidità debbano essere meglio considerati?

Lei dimentica, mi pare, che la democrazia non è solo sbandieramento di nobili princìpi (astratti) ma anche un sistema di governo (messo in condizione di governare). Dal che ricavo che tutte le rigidità che ostacolano la governabilità senza sufficiente ragione debbono essere evitate (s'intende, nei disposti costituzionali). Certo che la scelta degli elettori deve essere rispettata. Ci mancherebbe altro. Ma davvero l'elettore spasima per indicare sulla scheda un premier? E se poi fosse vero che il demos vuole più di ogni altra cosa designare il capo del governo, allora deve volere un sistema bipartitico (che ovviamente soddisfa questo suo desiderio). Ma se il demos vuole (vota) dieci partiti, allora "bloccare" il capo del governo è una rigidità stupida e senza pregio alcuno. Perché chi difende il premierato elettivo confonde stabilità (che è soltanto durata) con efficienza. Che non è errore da poco.

Lei ha affermato, in questa intervista, che il "bipolarismo si difende praticandolo". Ma non crede che un approdo bipolare (e magari bipartitico) dovrebbe essere preparato e favorito - oltre che da concreti comportamenti politici - anche da coerenti scelte normative?

Bisogna intendersi. Se parliamo dell'Italia, dobbiamo sapere che siamo lontani un milione di anni luce dal bipartitismo. Al bipolarismo stiamo arrivando, sia pure con qualche fatica. Del resto, il bipolarismo è il modo in cui si struttura un sistema politico in condizioni di normalità; è la competizione tra due schieramenti che possono alternarsi al governo in base alle scelte degli elettori. Nei maggiori Paesi europei questo accade regolarmente. Ma non c'è e non ci può essere un complesso di norme che impone il bipolarismo. A crearne le premesse e a consolidarlo nel tempo sono le circostanze. Allo stesso modo, però, circostanze eccezionali possono eccezionalmente favorire soluzioni diverse. Nelle ultime settimane Netanyahu, eletto premier direttamente dagli elettori (modello che piace ad alcuni nostri connazionali), non ha escluso un governo di larga coalizione. In Italia, magari, si griderebbe al "ribaltone"É Eppure proprio in Italia l'attuale situazione di "emergenza costituente" consiglierebbe una soluzione di questo tipo.

Sta dicendo che, per produrre un buon accordo costituente, è necessario un accordo di governo e, quindi, la fine dell'esperienza Prodi?

Se davvero si vogliono fare le riforme, la maggioranza che sostiene il governo deve essere la stessa che, nella Bicamerale, può produrre un accordo largo e forte. Con l'attuale assetto politico siamo al ricatto permanente da parte di Rifondazione comunista. Se D'Alema, presidente della Commissione, saprà liberarsi da questa ipoteca spingendo in direzione dell'accordo, fatalmente una soluzione diversa sarà a portata di mano. Penso a una larga alleanza costituente tra Pds, Forza Italia e An. Senza un progetto comune fra i tre maggiori partiti, non ci può essere riforma costituzionale. E uno "scambio" tra semipresidenzialismo e doppio turno mi sembra una buona base di partenza. A quel punto sarebbe naturale trasferire questa larga alleanza anche a livello di governo. Sarebbe un ribaltone? Non credo. La responsabilità della crisi del governo Prodi sarebbe tutta di Rifondazione comunista: l'Italia non può essere mandata a fondo da un partito che alle ultime elezioni ha ottenuto l'8 per cento dei consensi.

Giovanno Orsina


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1997