Il
boia democratico
PENA DI MORTE:
UN'ANOMALIA AMERICANA?
di Sofia Ventura
La pena capitale,
massima sanzione concepibile per chi commette un reato, nei codici giuridici
occidentali è stata progressivamente eliminata o limitata a casi
eccezionali. Singolare appare, perciò, il caso degli Stati Uniti: in
numerosi stati della federazione americana la pena di morte non solo è
tuttora in vigore, ma gode di un sempre maggiore consenso popolare e ad essa
si fa sempre più frequentemente ricorso. Come spiegare la permanenza di
questo fenomeno in un Paese come gli Stati Uniti, culla della democrazia
occidentale e per molti modello di società liberale? Perché un sistema
politico e una società che percepiamo come affini mantengono al loro
interno un'istituzione che in Europa ci siamo lasciati alle spalle e che
concepiamo come stridente con i più elementari princìpi di civiltà? La
contraddizione non è, ai nostri occhi, componibile, e inevitabile ci appare
la condanna, e dunque naturale l'esercizio della pressione politica per
porre fine a questa intollerabile anomalia.
Il diffuso ricorso
alla pena capitale negli Stati Uniti, infatti, costituisce per l'opinione
pubblica europea, o perlomeno per quei gruppi più sensibili al rispetto dei
diritti della persona, un fenomeno inaccettabile alla luce del sistema di
valori che si è venuto affermando nel nostro continente nell'età
contemporanea. Proprio per l'opposizione che suscita, però, esso è stato
sovente più oggetto di critica che non di analisi che permettessero di
collocarlo all'interno del contesto sociale, culturale e politico, dal quale
è scaturito e del quale costituisce la parte coerente con il tutto.
Legittima, e da noi
condivisa, è la critica a un sistema giuridico che contempla la sottrazione
della vita come possibile sanzione per chi commette un reato. Essa può
svilupparsi su due diversi piani. Il primo, pragmatico, concerne l'efficacia
della pena capitale in quanto deterrente, contestata sulla base
dell'esperienza e, come già notava Cesare Beccaria, ritenuta nulla se non
controproducente. Il secondo, etico, riguarda l'incompatibilità di una pena
irreversibile, come quella che toglie la vita, con la scala di valori
dominante nella cultura e nella società europee. L'affermazione del
liberalismo, sul piano teorico, e dei sistemi liberali, prima, e
liberaldemocratici, poi, su quello politico-istituzionale, si è
accompagnata alla progressiva acquisizione della difesa dei diritti umani,
oltreché di quelli civili, politici e, in un secondo tempo, sociali, come
imprescindibile fattore di civiltà. Da qui l'opposizione a concedere alla
pubblica autorità il diritto di ledere l'integrità fisica dei cittadini.
A differenza della
critica all'efficacia dello strumento della pena capitale, quella che
postula l'incompatibilità tra tale pena e la tutela dei diritti umani
mostra con evidenza il proprio forte condizionamento culturale. Agli occhi
di noi europei le esecuzioni di Stato nei regimi autoritari, totalitari o
tradizionalisti, costituiscono fenomeni comprensibili, e come tali meno
sconvolgenti, poiché perpetrate all'interno di sistemi politici
radicalmente diversi dai nostri, fondati su sistemi di valore a noi
estranei. La soppressione della vita umana da parte dell'autorità pubblica
costituisce, in quei casi, una tra le diverse manifestazioni di un potere
del quale non riconosciamo la legittimità, perch´ non poggia sul consenso
popolare democraticamente espresso e perché esplicitamente irrispettoso dei
diritti garantiti nei contesti liberaldemocratici. Il vizio,
dunque, è a monte. Per il caso degli Stati Uniti non è possibile
sviluppare un analogo ragionamento: compagni di strada lungo la via
della creazione di sistemi politici liberali, rispettosi delle prerogative
dell'individuo, ci sorprendono con il ricorso a uno strumento già
condannato, due secoli or sono, dal pensiero giuridico illuminista. Ci
sorprendono perch´ non sempre siamo consapevoli del carattere storicamente
condizionato del nostro orizzonte di valori, e tendiamo a proiettarlo su una
realtà simile, per molti aspetti, a quelle nelle quali viviamo, ma che
presenta peculiarità legate a processi storici e culturali originali.
A questo punto, due
riflessioni di diverso ordine si impongono. La prima concerne la legittimità
non tanto della critica, sempre lecita, quanto di un atteggiamento
interventista (vedi l'azione di associazioni come Amnesty International e
Nessuno tocchi Caino o i recenti interventi di papa Giovanni Paolo II) volto
alla soppressione della pena capitale negli Stati Uniti. Abbiamo il diritto
di tentare di imporre ad altri una concezione dei delitti e delle pene
maturata all'interno del nostro universo politico, culturale e sociale?
A nostro parere, a
tale interrogativo non è possibile fornire alcuna risposta, né
affermativa, né negativa. Se non pensiamo di poterci considerare portatori
di una eticità superiore, tale da consentirci di impartire lezioni
sulla base di valori assoluti (quali?), riteniamo però di poterci
prendere quel diritto per difendere una civiltà, quella occidentale,
che, nella misura in cui radica la propria ragion d'essere nel rispetto dei
diritti individuali e quindi, prima di ogni altra cosa, del diritto alla
vita, non può non essere incrinata dalla presenza, al suo interno,
di comportamenti dell'autorità pubblica lesivi di quei diritti. Pur nella
consapevolezza della relatività dei princìpi etici ai quali facciamo
riferimento, proprio perché tali princìpi sono inesorabilmente connaturati
alla civiltà alla quale apparteniamo e che intendiamo tutelare, non
possiamo esimerci dall'approvare e sostenere ogni azione volta alla loro
affermazione, prima di tutto all'interno del contesto liberal-democratico.
Questo per evitare che in esso si aprano o si amplino spazi di illiberalità
dai quali inevitabilmente scaturiscono spinte disgreganti rispetto al
sistema di regole della convivenza per noi civile. Tali spinte sono,
purtroppo, individuabili nel contesto statunitense, dove la previsione e
l'applicazione della pena di morte hanno generato prassi che mettono in
crisi la certezza del diritto nella misura in cui inseriscono nel rapporto
tra reato e pena dei fattori che prescindono dal contesto strettamente
giuridico, quali l'appartenenza razziale e di classe.
È quanto emerge dagli
interventi di questa sezione, e in particolare da quello di Maria
Giovanna Maglie, attivamente impegnata nella battaglia contro la pena di
morte attraverso l'associazione "Nessuno tocchi Caino". Oltre alla
presenza di discriminazioni razziali e di classe nell'ambito del ricorso
alla pena capitale, nel suo articolo si evidenzia anche come esso abbia
portato, in molti casi, a valutare come indifferenti elementi quali la
giovane età dei rei o le loro condizioni mentali, permettendo la condanna a
morte di adolescenti e malati mentali e prescindendo, dunque, da ogni
considerazione sulla capacità di intendere e di volere di chi commette un
reato. Se queste degenerazioni possono essere presenti anche in un sistema
che non contempli la pena di morte, questa, a nostro avviso, le aggrava e le
potenzia. Essa, infatti, pone in mano a singoli individui dotati di pubblica
autorità e, nei fatti, inevitabilmente condizionati da particolari visioni
del mondo, della società, del bene e del male, ciò che può essere visto
come un potentissimo strumento di correzione delle disfunzioni
(o, per meglio dire, di quelle che, a partire da determinate prospettive,
possono essere considerate disfunzioni) del sistema sociale. In
assenza della pena capitale, la condanna e la comminazione della pena
pongono problemi relativi alla destinazione del condannato, alla tutela
della sua dignità anche all'interno del sistema carcerario, agli strumenti
necessari per rendere possibile un suo eventuale reinserimento nella società.
La pena di morte, invece, consente la pura e semplice eliminazione della mela
marcia, l'asportazione dell'elemento che turba l'ordine sociale. Essa,
per il suo carattere definitivo, permette l'immediata ricomposizione della
lacerazione prodotta dal delitto, senza porre ulteriori problemi. Conferendo
a singoli individui il diritto di decidere della vita e della morte dei
propri simili, si prospetta l'idea che si possa intervenire con misure
radicali sulla società, e dunque si aggrava la tendenza a fare dello
strumento giuridico uno strumento salvifico.
Se non esitiamo a
condannare, per quanto finora detto, il ricorso alla pena capitale, non
possiamo, però, esimerci dal tentare di comprendere le ragioni del suo
radicamento negli Stati Uniti. Una volta delineato il fenomeno nelle sue
molteplici sfaccettature, ed è quanto ricostruisce Maria Giovanna Maglie,
diventa necessario rispondere all'interrogativo posto inizialmente: quali
sono i fattori che consentono la legittimità della sottrazione della vita
da parte del potere costituito in un sistema liberaldemocratico come è
quello degli Stati Uniti? La risposta è da ricercare nella particolare
genesi della democrazia americana e nella conseguente configurazione del suo
assetto politico e sociale. I contributi di Gianni M. Gualberto e
Paul Piccone ci forniscono, a questo proposito, interessanti informazioni e
chiavi di lettura.
In particolare,
Gualberto situa l'origine dell'atteggiamento della società americana
rispetto al ricorso alla pena capitale nelle sue radici puritane, le quali,
nonostante la compresenza sul suolo nord-americano di numerose e diverse
etnie e, dunque, culture, hanno permeato gran parte delle strutture sociali
statunitensi. A questo proposito, ciò che l'autore pone in evidenza è
come, nelle prime comunità puritane, alla massima punizione sia stato
attribuito il ruolo di strumento per combattere comportamenti eversivi
rispetto al sistema di regole sociali, culturali e, in particolare,
religiose delle singole comunità. Per cui "la condanna a morte di ogni
e qualsiasi tipo di sovversivo diviene messaggio, ammonimento
morale da diffondere in ogni angolo della colonia", al fine,
innanzitutto, di combattere i devianti e, più in generale, le spinte verso
la secolarizzazione, attraverso il "rito di purificazione religiosa
collettiva". Se oggi la componente religiosa dell'atteggiamento verso
la pena di morte non traspare esplicitamente, si riflette, però, nella
diffusa concezione del diritto della comunità all'autodifesa, anche
attraverso la soppressione fisica del reo. È rimasta, dunque, l'idea che,
attraverso la repressione, il male possa essere estirpato dalla società. In
questo senso la pena di morte costituisce solo apparentemente un potente
fattore di intervento dello Stato, poich´ in realtà lo Stato stesso è
divenuto a sua volta strumento della società o di parte di essa, che non
vuole rinunciare al proprio diritto di decidere della vita e della morte di
chi si pone al di fuori delle sue regole.
La connessione del
problema della pena capitale con il peculiare e instabile rapporto tra Stato
e corpo sociale nella realtà statunitense costituisce uno dei temi
affrontati da Paul Piccone. Lo studioso americano evidenzia
innanzitutto il carattere elitario della battaglia contro la pena di morte,
fatta propria da una ristretta ´lite liberal, che ha utilizzato e utilizza,
per i suoi obiettivi, strumenti giuridici (come il ricorso all'ottavo e al
quattordicesimo emendamento, riguardanti rispettivamente il divieto di
infliggere pene crudeli e inusuali e l'eguaglianza di trattamento dei
cittadini davanti alla legge), senza però riuscire a sollevare un dibattito
e a suscitare una corrispondente azione politica non sulle sole distorsioni
della pena di morte, bensì sulle sue implicazioni etiche e morali. Le
occasionali vittorie ottenute sul piano meramente giuridico, hanno, inoltre,
provocato una reazione popolare negativa, poich´ sono state percepite come
parte di una più ampia strategia posta in essere dalle élites per avviare
un processo di omogeneizzazione della società americana, e dunque
come strumento di una lotta del centro (federale) contro le autonomie
statali e locali.
Il ricorso alla pena
di morte, ci suggerisce Piccone, è divenuto, quindi, un mezzo mediante il
quale le comunità possono riaffermare la loro centralità, grazie al
mantenimento di un certo potere sulla vita dei propri membri. E il tentativo
di abolire la pena capitale con strumenti interventisti provenienti dall'alto
non può che fallire, proprio per l'originalità dell'universo politico
americano. Eppure, la storia degli Stati Uniti ci mostra come l'affermazione
e la tutela di alcuni diritti siano state imposte anche attraverso
interventi diretti dell'autorità federale: fin troppo noto è il caso
dell'impiego dell'esercito per porre fine alla segregazione razziale delle
scuole negli Stati del Sud. Una tale imposizione è forse oggi impensabile?
Non lo sappiamo.
Certo è che non
possiamo aspettarci che l'impulso per l'abolizione della pena capitale possa
provenire da mutamenti dell'atteggiamento dell'opinione pubblica nel suo
insieme, per lo meno nel breve periodo. Se a tale abolizione si giungerà,
altri saranno, probabilmente, i fattori decisivi. Questo è quanto emerge
anche dalle pagine conclusive dell'intervento di Maria Giovanna Maglie,
che mette in evidenza, da un lato, come la recente eliminazione di una serie
di procedure garantiste porterà tra breve a una escalation delle esecuzioni
(rendendo così, aggiungiamo noi, sempre più intollerabile agli occhi di
molti il ricorso alla pena di morte); dall'altro, come sempre più
importanti e numerose siano le prese di posizione abolizioniste sia
all'interno degli Stati Uniti (avvocati e organizzazioni religiose), sia
all'esterno (il recente pronunciamento della Commissione dei diritti umani
delle Nazioni Unite).
Sofia
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