Editoriale
IL MOTORE IMBALLATO
di Domenico Mennitti

Il segnale più preoccupante che emerge dal fallimento del turno elettorale referendario è il rigetto della politica dopo i grandi entusiasmi di tre anni fa. Quegli italiani che nella primavera del 1994 si mobilitarono, sconvolsero gli equilibri preesistenti e spezzarono sinanche il filo dell'intesa fra la parte più attiva della magistratura inquirente e la sinistra, tenuta accortamente marginale rispetto alla bufera di Tangentopoli, oggi hanno perso la "spinta propulsiva", sono delusi, pensano che la politica sia tornata ad essere solo trattativa e compromesso, stabilmente impegnata a privilegiare interessi di parte. Se anche un personaggio come Pannella, che dagli addetti ai lavori è considerato l'elemento più dissacratore e fuori dal coro, finisce nel tritacarne dell'indifferenza, significa che davvero la democrazia è in pericolo, perchè i cittadini vivono una stagione di diffidenza, la sensazione che nei Palazzi si lavori solo a recuperare il potere perduto per restaurare quanto era stato spazzato via. E non si salva più nessuno.

Sono note anche a noi le obiezioni che si muovono all'iniziativa di Pannella: troppi referendum che, peraltro, investono temi di ristretto interesse. é vero, quanto è vero che i riformatori reagiscono con qualche inevitabile eccesso alla sospensione della politica in atto nel nostro Paese. Il rilievo non sfuggiva al leader referendario, che in verità aveva proposto altri temi, decapitati dalla mannaia della Corte Costituzionale. Infatti, anche nel corso della campagna elettorale aveva privilegiato la polemica politica rispetto all'analisi dei quesiti. L'elemento di inquietudine che noi cogliamo (e che molto ci preoccupa) non sta nel fatto che nulla sia cambiato negli itinerari dei cacciatori e nella condizione dei giornalisti, quanto piuttosto che i cittadini abbiano risposto così debolmente ad un appello politico. Non c'è proprio ragione di compiacersi dei seggi vuoti: quando si bloccano i canali ordinari nei quali scorre la dialettica democratica, gli eventi cercano altri sbocchi, di solito imprevedibili e pericolosi.

Nell'autunno scorso, proprio in questo spazio di apertura della rivista, tracciammo un quadro allarmante della situazione italiana, che si andava caratterizzando per il progressivo logorio dei vari poteri, tutti in fase di impoverimento. Da quello politico, che era stato caratterizzato dal ruolo eccessivo svolto dal capo dello Stato poi anch'esso vistosamente ridimensionato, a quello economico, dove i vecchi patti sociali erano andati in frantumi, mettendo in crisi associazioni sindacali e di categoria, ma pure santuari finanziari ritenuti inattaccabili. Subimmo l'offensiva degli ottimisti, che tuttavia non sono riusciti ad evitare che il Paese si trascinasse sino alle soglie della recessione, né a fare in modo che la politica si rigenerasse attraverso la vitalità di partiti modernamente organizzati e l'efficienza di istituzioni finalmente riformate.

L'Italia è rimasta appesa per alcuni mesi al destino della Commissione bicamerale, istituita per produrre il pacchetto di riforme in forza delle quali lo Stato dovrebbe assumere nuovo vigore. Quando mancavano due settimane all'improrogabile chiusura dei lavori, la situazione era in alto mare, affidata all'abilità di trattativa di un suo componente che, all'ultimo momento, avrebbe dovuto ricucire lacerazioni profonde e ragionevolmente insanabili. A parte il risultato finale, l'occasione è valsa a portare in evidenza la gravità della crisi della politica, che si svolge ormai nella ricerca costante di compromessi e nell'incapacità di produrre progetti, dibattiti, confronti, anche accordi, nei quali però i cittadini possano riconoscersi e schierarsi.

Rifuggiamo sempre dalle posizioni drastiche e moralistiche che rifiutano di esaminare e comprendere i problemi degli altri. Sulla Commissione bicamerale, ad esempio, questa rivista ha rifiutato di condividere le tesi di quanti chiedevano che la si boicottasse subito, dando per scontato l'esito negativo. E pensiamo di non dover recriminare su quella decisione, anche perchè non ci siamo fatti espropriare dei nostri diritti di cittadini ed abbiamo pure esercitato il dovere di partecipare, organizzando convegni, lanciando appelli, promuovendo la mobilitazione di uno schieramento trasversale a favore del semipresidenzialismo come punto d'incontro di posizioni originariamente distanti.

Dentro la Commissione, però, non si è mai capita bene l'articolazione degli schieramenti a favore del premierato e del semipresidenzialismo, rimasti a contendersi il voto dei parlamentari. E s'era diffusa la convinzione, evidentemente frutto di intese mai dichiarate, che dovesse passare con la maggioranza di un solo voto la prima ipotesi, alla quale D'Alema s'era convertito per compiacere gli alleati di governo. Nella confusione ha prevalso l'intuito tattico di Bossi, che ha fatto vincere il semipresidenzialismo con una decisione che ha assunto il significato della beffa più che della scelta meditata. Ma il peggio è venuto dopo, quando sul metodo elettorale si sono riversate le minacce dei partiti minori, impegnati a difendere la propria sopravvivenza. Di fronte ad una decisione così importante si è sviluppata la ridda delle dichiarazioni dei leaders o anche di personaggi meno significativi; sarebbe fatica vana, però, cercare uno straccio di documento scaturito dalla valutazione di un organo collegiale, che faccia intendere senza equivoci agli elettori la posizione delle forze che tengono la scena.

Non siamo nostalgici dei vecchi partiti che dettavano i comportamenti ai deputati e ai senatori; ma la politica muore se nelle vene dei movimenti e dei gruppi parlamentari non scorre la linfa delle idee, del dibattito, dei progetti. Non si riforma la Costituzione con la disponibilità a negoziare tutto. Sono fortunatamente superate le rigidità ideologiche, che assumevano un segmento di verità e gli attribuivano valore totale ed assoluto; però debbono restare i princìpi, ai quali le forze politiche riferiscono la propria azione. Quando, fra alcuni anni, gli studiosi si affideranno all'analisi dei lavori preparatori per individuare i criteri ispiratori della nuova Carta costituzionale, incontreranno gravi problemi di comprensione.

Noi non siamo neutri rispetto al quadro politico e perciò indirizziamo l'appello soprattutto ai movimenti che formano il Polo moderato, nei confronti dei quali intendiamo conservare un atteggiamento di stimolo. Perciò ci sembra utile ribadire alcuni punti, dai quali riteniamo non si possa derogare senza tradire il rapporto di fiducia che lo stesso Polo ha contratto nei confronti del corpo elettorale. Innanzitutto, bisogna rendersi conto dell'impossibilità di affrontare problemi di questa portata con l'ottica di tutelare gli interessi immediati della bottega di appartenenza. Queste riforme si valutano sul tempo lungo: se sono valide, risolvono i conflitti politici; se non lo sono, li accentuano. I giudizi affidati al calcolo delle convenienze immediate non hanno senso. Siccome il riferimento al modello francese è pertinente, vale ricordare la vicenda di Mitterrand, che non sarebbe mai diventato presidente senza quella Costituzione e quel sistema elettorale che egli, nella concitazione della polemica con de Gaulle, aveva definito un golpe permanente.

Vanno certamente considerate specificità italiane destinate ad incidere anche in futuro, ma queste non possono identificarsi nella pretesa di sopravvivenza della polverizzazione partitica, che è causa primaria della nostra instabilità. Non dimentichiamo che la scelta del presidenzialismo risolve senza equivoci il dilemma se porre al centro della nuova Costituzione i cittadini o i partiti, e sceglie la prima ipotesi. Ne consegue che va rafforzata l'opzione elettorale a favore del sistema maggioritario, perchè realizza in maniera compiuta il rapporto diretto fra gli elettori ed il responsabile dell'indirizzo politico nazionale. Questi argomenti sono destinati a produrre scompiglio all'interno degli schieramenti, non solo dentro quello che regge il governo. Se i leaders dei partiti più forti non hanno considerato questa insidia, puntando sulla forza dell'alchimia, hanno compiuto un atto di superficialità molto grave.

L'ammonimento vale per D'Alema, ma anche per Berlusconi e Fini, che sono i tre veri protagonisti di questa fase e che debbono farsi carico delle responsabilità dalle quali sono investiti. La riforma della Costituzione non è vicenda componibile con il gioco degli emendamenti incrociati. Se si riforma, si rompe con il passato. Vinceranno tutti i cittadini italiani, perché le innovazioni gioveranno complessivamente al Paese, ma non potrà accadere che vincano pure tutti i partiti, compresi quelli dichiaratamente ancorati al vecchio sistema, che vorrebbero perpetuare. A questa logica non si può; sfuggire, per cui pensare di salvare tutto e tutti, di aprire scenari nuovi senza rimuovere le incrostazioni preesistenti, è un esercizio di furbizia pericolosa.

Non viviamo il tempo del gattopardo, perchè siamo nell'occhio di una crisi epocale che esige cambiamenti reali e forti. Perciò la Bicamerale, che è stata imposta dallo schieramento di maggioranza in luogo della più acconcia Assemblea Costituente, non può ridursi ad una sorta di ordinaria commissione referente allargata, che consegna alle Aule il proprio lavoro senza che questo abbia un significato più pregnante di un semplice indirizzo. Il destino degli uomini che occupano la scena politica in questi anni è quello di saper aprire al Paese una prospettiva di rinnovamento o di essere rapidamente spazzati via. Non illudano le fasi di stallo e neppure la conferma, nell'arco temporale breve, dei numeri elettorali: quando si è tutti bloccati nel pantano, il voto diventa vischioso; poi, d'improvviso, si muove con velocità inaudita e può prendere direzioni impreviste.

La transizione italiana è stata pericolosamente bloccata. è dovere di tutti riavviarne il cammino ed evitare che le contraddizioni esplodano e non siano più recuperabili. Quei seggi quasi vuoti per i referendum debbono essere un monito per quanti vogliono vivere e progredire dentro una democrazia matura ed efficiente e non aspirano a prendere scorciatoie che portino dalle parti di Castellanza. Mettiamo mano al motore dello Stato, perchè è proprio imballato.

Domenico Mennitti


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1997