Senza rotta da Tirana al nord-est
RIPIEGATI SU NOI STESSI
di Virgilio Ilari

Un giovane politologo francese ha osservato con meraviglia che nel programma dell'Ulivo per le ultime elezioni politiche non compare mai l'espressione "politica estera". Una delle principali anomalie dell'Italia rispetto alle democrazie occidentali è, come dimostra la nostra particolare concezione dell'atlantismo, dell'europeismo e del terzomondismo, una totale subordinazione della politica estera alla politica interna. È indubbio che l'adesione alla Nato corrispondeva agli interessi geopolitici, strategici, economici e militari del Paese e che furono soprattutto la diplomazia e gli Stati Maggiori a sostenerla.

Ma è altrettanto indubbio che De Gasperi poté convincersi di tale scelta e poi imporla al suo stesso partito, in larga maggioranza neutralista, soltanto per ragioni di politica interna. In Italia, infatti, il Patto atlantico fu percepito essenzialmente come il prezzo da pagare per continuare a godere degli aiuti economici americani e ottenere un impegno americano a sostenere i partiti anticomunisti, nonché a destabilizzare e rovesciare un eventuale governo a guida comunista.

Da questa percezione domestica dell'Alleanza atlantica, mantenutasi fino al 1989, derivarono non poche incomprensioni, sfide velleitarie e cocenti umiliazioni nel rapporto con gli Stati Uniti. Da un lato, ci autoconvincemmo che anche Washington condividesse la nostra concezione "bilateralista" dell'atlantismo, scegliendoci come partner preferenziale nel Mediterraneo. Dall'altro, all'opposto della fronda francese, declassammo il nostro atlantismo da partnership politica a "lealtà" militare nei confronti degli Stati Uniti, un concetto assai più circoscritto e al tempo stesso assai più rigido. Sfruttammo cioè la nostra docilità alla concessione di basi e la nostra vulnerabilità al comunismo filosovietico per garantire la nostra pirateria commerciale e il nostro terzomondismo e filosovietismo ideologico e imprenditoriale. Ma nella politica interna italiana l'atlantismo ha avuto un peso assolutamente anomalo. Solo da noi, infatti, ha talmente assorbito l'anticomunismo da consentire la parziale rilegittimazione del neofascismo di destra dopo la svolta atlantista del Msi (1952). Uno sviluppo meno scontato e più complesso di quanto oggi possa apparire retrospettivamente.

Ma non è stato l'anticomunismo, bensì l'atlantismo antisovietico a determinare i confini tra maggioranza moderata e opposizione di sinistra. Al contrario di quanto sostiene la sottoletteratura dietrologica sulla cosiddetta "sovversione atlantica", l'atlantismo vero e proprio non ha ostacolato, ma semmai favorito la progressiva "apertura a sinistra" dell'area di governo e maggioranza. La Nato non ha certo impedito all'Italia degli anni Settanta di introdurre qualche "germe di comunismo" nel suo modello socioeconomico. Agli Stati Uniti non interessava affatto il nostro modello economico, ma soltanto che non combinassimo troppi pasticci con l'Unione Sovietica.

Naturalmente, la pregiudiziale atlantista del governo ha condizionato il centro-sinistra organico all'abiura del neutralismo socialista (articolo di Nenni su Foreign Affairs nel 1962) e il compromesso storico (governo di solidarietà nazionale) all'accettazione della Nato da parte del Pci "eurocomunista" (1973-1977).

Del resto, queste abiure non furono affatto drammatiche. I sondaggi effettuati in Italia dagli americani mostrano che perfino negli anni Cinquanta due terzi dell'elettorato del Pci preferiva il modello americano a quello sovietico (apprezzato, invece, da un sesto dei missini e un ventesimo dei democristiani). La stessa minoranza rivoluzionaria del Pci, da cui germogliarono le Brigate rosse, considerava l'Urss più come un freno alla rivoluzione che come la "patria del socialismo" e accusava Togliatti di "burocratismo", cioè di aver tradito gli ideali del socialismo, collaborando con la Dc per ossequio agli ordini di Mosca.

In Italia le tentazioni filosovietiche erano semmai di tipo geoeconomico, e talora perfino geopolitico: allignavano nel ministero degli Esteri, nell'industria pubblica o assistita, nella Dc, nel Msi. Il Pci si limitò ad esercitare un ruolo di intermediario, sfruttando la rendita di posizione e cercando di non farsi scavalcare, il che gli divenne impossibile già alla fine degli anni Settanta. Ma sotto il profilo etico-politico l'intera sinistra, anche nelle sue componenti rivoluzionarie e antiamericane, teneva a distinguersi il più possibile dall'imbarazzante modello sovietico.

Certamente, il corollario dell'atlantismo era il "fattore K", e dunque l'impossibilità del Pci di andare al governo finché fosse durata la guerra fredda. Ma, nelle particolari condizioni dell'Italia, il "fattore K" ha impedito la guerra civile "calda" e garantito la libertà e un residuo di mercato ben più efficacemente e a prezzi ben minori di un improbabile anticomunismo "forte". Né si può negare che il "sistema Italia" ne abbia tratto una cospicua rendita parassitaria, grazie all'abile "gioco delle parti" condotto dal Partito americano e dal Partito sovietico (esattamente lo stesso che oggi Berisha e Fino conducono a beneficio del "sistema Albania" e a nostre spese).

Sacrificando le ragioni forti dell'anticomunismo al mero antisovietismo, la discriminante atlantista ha interferito sul sistema politico, bloccando il ricambio e rendendo necessario il correttivo del consociativismo. In tal modo la concezione domestica dell'atlantismo ha paradossalmente favorito il terrorismo e l'egemonia cattocomunista e terzomondista sull'opposizione, sui sindacati e sulla ideologia italiana. E, soprattutto, ha contribuito a deresponsabilizzare l'intera classe dirigente, con le ben note conseguenze economico-finanziarie.

Solo da una prospettiva domestica si può spiegare come mai proprio l'Italia, definita (sembra da Baget Bozzo) "Bulgaria della Nato", sia stata (1985) l'unico alleato degli Stati Uniti a puntare mitra e missili contro soldati e aerei americani. E l'unico Paese europeo in cui, con buona pace dell'ambasciatore Incisa, la terza guerra mondiale l'abbia vinta, postumo, il Patto di Varsavia.

Più ancora dell'atlantismo, anche europeismo e terzomondismo sono in Italia meri parametri della politica interna. Questa caratteristica è resa più evidente dal confronto con l'uso che la Francia ne ha fatto in politica estera. Fin dall'epoca di de Gaulle, Parigi li ha utilizzati per contrastare l'egemonia degli Stati Uniti: europeismo e terzomondismo francesi sono la moderna prosecuzione della politica autarchico-colonialista di Colbert e della politica germanica di Richelieu. Sono quindi complementari, entrambi in contrapposizione con l'atlantismo.

In Italia, al contrario, europeismo e terzomondismo sono metafore di opposte politiche economiche interne: autarchia corporativa vs. integrazione finanziaria, boiardi di Stato vs. galassia del Nord. L'arcanum italiano consiste nel bilanciare le due metafore, come ben esprime la vecchia formula compromissoria escogitata dalla Farnesina, l'Italia "ponte" tra Europa e Mediterraneo, modellata sulla vecchia formula fanfanian-morotea del "partito di centro che guarda verso sinistra". In quanto formule economiche, convivono entrambe senza tensioni con l'atlantismo italiano. Al massimo, si può dire che tradizionalmente l'europeismo si innestava in una concezione più ortodossa dell'atlantismo, mentre il terzomondismo rappresentava meglio l'interpretazione "bilateralista" dell'Alleanza con gli Stati Uniti.

Da mezzo secolo, ben prima dei famosi parametri, "europeismo" è in Italia un concetto di politica economica, un eufemismo per invocare rigore finanziario evitando pomodorate. Una parola magica che nelle aspettative di Bankitalia e poteri forti avrebbe consentito la riduzione morbida della spesa sociale. L'unica dimensione "internazionale" che in Italia viene riconosciuta all'europeismo consiste nella speranza di poter scaricare sui partners una parte del debito pubblico interno.

Nulla esprime il deficit di sovranità subìto dall'Italia quanto il fatto di aver riservato, negli ultimi quattro governi, il ministero degli Esteri a un economista o a un esponente dei poteri finanziari (Andreatta, Martino, Agnelli, Dini). Col risultato ovvio non già di determinare un approccio "economista" alla politica estera, bensì un approccio "politicante" alla politica economica. Grandi statisti che si sono fatti dettare dal segretario di un gruppuscolo di maggioranza un'inaccettabile inframmettenza nella politica di sicurezza francese e che hanno ridotto la politica extraeuropea alle geniali iniziative dei nostri diplomatici (dagli sgambetti contro l'ammissione della Germania nel Consiglio di sicurezza dell'Onu al protettorato sull'Albania).

Il terzomondismo francese è "geopolitico". Il nostro, invece, è "geoideologico". Cementa identità collettive (nazionalpopolare, cattolica, pacifista, ambientalista, rivoluzionaria, antimodernista, comunitario-corporativa, solidarista), talora in nome di un antiamericanismo innocuo, nel solco della vecchia ideologia giobertiana del primato morale e civile degli italiani (il nostro equivalente del Sonderweg tedesco o del Manifest Destiny americano). Il terzomondismo "geopolitico" antagonizza gli Stati Uniti in quanto grande potenza. Quello "geoideologico" antagonizza l'Amerika euro-atlantica di Washington in nome dell'"altra America" latino-asiatica di San Francisco: ogni quattro anni "vota" democratico come se abitasse a Manhattan. Non a caso i suoi eroi sono i massimi campioni dell'imperialismo americano postbellico, in versione geopolitica (Kennedy) o geoeconomica (Clinton), avversari irriducibili della partnership con l'Europa e il Giappone imposta dalla guerra fredda.

Perfino i modelli di terzomondismo italiano più vicini a quello francese non erano pensati in contrapposizione, bensì in complementarità con gli interessi americani. Non solo i famosi "Mau-Mau" della vecchia Farnesina fanfaniana, ma gli stessi bucanieri di Mattei seguivano le rotte fissate dal colonialismo crispino e sciaguratamente varcate dal pasticcione Mussolini: espandersi (eventualmente a spese della Francia) nelle regioni, secondarie o impervie, designate dalla potenza egemone nel Mediterraneo (un tempo la Gran Bretagna, poi gli Stati Uniti).

Quando l'Eni cercò di inserirsi nel vuoto di potenza lasciato dal declino britannico, riteneva (con qualche fondamento) di avere il mandato tacito degli Stati Uniti. Proprio come oggi riteniamo gradita alla Germania la penetrazione ad Est delle piccole e medie imprese (le "agili fanterie leggere dietro i panzer tedeschi", come le chiama il generale Jean o, se si preferisce, le "spigolatrici appresso al mietitore").

Perché da noi le cose stanno in questo modo? Perché non abbiamo una politica estera, ma solo un riflesso esterno della politica interna? Perché la nostra identità nazionale si fonda su una molteplicità di patrie culturali, religiose, tribali, municipali, corporative. Patrie sovrane, ma non politiche, che precedono lo Stato e sono indifferenti allo Stato. Il nostro Stato è solo una di queste patrie, quella del pubblico impiego fondata dai piemontesi e occupata dai romani e dai meridionali.

La vera confederazione delle nostre patrie non era lo Stato: era il sistema dei partiti fondato sulla pia menzogna dell'unità nazionale antifascista, unico antidoto alla guerra civile permanente. Ma quel sistema è crollato, non con il voto degli italiani, ma per una oscura resa dei conti all'interno della classe dirigente, un astuto colpo di Stato preventivo che ha instaurato la dittatura dei ceti parassitari su quelli produttivi. Ancora una volta, il vecchio non vuole morire e il nuovo non deve nascere.

Ma ciò è avvenuto proprio nel momento in cui la globalizzazione dei mercati e l'integrazione europea sfondavano Alpi e Po e alzavano nuovi confini al Ticino e sugli Appennini, trasformando le vecchie identità socioculturali in nuove identità territoriali. Non più iniziativa privata e pubblico impiego, non più borghesia imprenditoriale e classe politica, non più nemmeno Nord e Sud, bensì l'asse adriatico e l'asse tirrenico, due penisole separate dagli Appennini.

Da secoli il Lombardo-Veneto ha abdicato alla sovranità politica, consegnando le chiavi delle sue città a ogni invasore, straniero o italiano. Chi disprezza la politica è condannato a subirla. Tre volte in questo secolo, nel 1922, nel 1945 e nel 1994, Milano ha avuto in mano le chiavi di Roma: tre volte se ne è disfatta.

Ma la Lega non è Milano. La Padania non gioca con le regole del suo avversario, come ha tentato di fare la Repubblica del Leone. Non cerca lo scontro diretto e perdente tra due sovranità contrapposte. Le basta poter dimostrare, giorno dopo giorno, che lo Stato non esiste più, che la democrazia è sospesa, che è l'incapacità di riformare lo Stato sociale a distruggere l'unità nazionale. Che sono gli "autonomi" e l'Arcigay a sventolare il Tricolore, se gli alpini lo ripiegano davanti al capo dello Stato. Che è Roma ad aver abdicato alla sovranità politica, rimettendo a Bossi le chiavi del ribaltone, del governo Dini, della sconfitta elettorale del Polo e, infine, della riforma costituzionale.

Come tutti i secoli della nostra storia, anche questo maledetto Novecento italiano è stato il teatro delle nostre ultime quattro guerre civili. Femminilmente, cattolicamente feroci: mai virilmente, laicamente risolutive. Oggetto di ben meritato, universale disprezzo. Oltretutto, le abbiamo ipocritamente mascherate. Le due, che non potevamo negare, le abbiamo ribattezzate "rivoluzione nazionale" (1919-25) e "guerra di liberazione" o "secondo Risorgimento" (1943-45). Le altre due, quella "virtuale" tra comunisti e anticomunisti (1945-92) e quella "reale" vinta dagli eredi morali dell'azionismo e delle Brigate rosse (1992-96) contro la sbigottita rappresentanza democratica dell'Italia moderata e produttiva le abbiamo combattute in modo occulto. Su quella che ha caratterizzato la prima Repubblica domina la versione ufficiale di coloro che ne furono sconfitti. Dell'ultima, che non sa più come concludersi, è vietato perfino parlare. Guerre civili? Ma scherziamo? Dov'è il sangue, dove le rovine? Mille morti in mezzo secolo, forse trentamila vite distrutte fra trame occulte, terrorismo e processi sacrosanti? Un'inezia, certo.

Ma non è un'inezia la nostra introversione etico-politica della competizione geopolitica e geoeconomica per il dominio del mondo. Nessuno ce l'ha imposta. Non l'abbiamo subìta. L'abbiamo fortemente voluta, cullata, evocata dal rancore profondo, secolare, che cova nel nostro sangue, nella storia di questo dolce e feroce Paese. Quel rancore che abbiamo scagliato contro tutto e tutti, e che infine ricade giustamente su noi stessi. Come in Somalia. Come in Bosnia. Come in Ruanda. Come in Albania.

Virgilio Ilari


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1997