Gran bazaar postmoderno: la scommessa del mercato globale
UNA SFIDA PER L'OCCIDENTE

di Paolo Savona

Messa alla prova, l'economia italiana ha sempre reagito alle difficoltà più serie e imprevedibili, come pure ha fatto la società civile. Negli anni Cinquanta, il Paese fu capace di pacificare gli animi, avviare la ricostruzione e generare quello che oggi ricordiamo come il "miracolo economico". Negli anni Sessanta, la prima crisi valutaria postbellica e le intemperanze sindacali dell'autunno caldo furono riassorbite in breve tempo. Negli anni Settanta, la crisi petrolifera e i traumi del terrorismo furono superati, pur tra indescrivibili difficoltà. Negli anni Ottanta, la ripresa dello sviluppo reale e la pace sociale furono assicurate dall'energica reazione dei gruppi dirigenti del Paese. Gli anni Novanta devono ancora scrivere la loro storia, dopo averne già vissuta una parte di significativo rilievo.

L'Italia è di fronte a una scadenza internazionale di grande portata: l'adesione a pieno titolo all'Unione monetaria europea. Si può obiettare che il modo in cui l'Italia "svolta" di fronte alle difficoltà ha caratteristiche simili al gioco praticato dai giovani ricchi in cerca di emozioni forti, che lanciano l'auto a grande velocità in direzione di un burrone e si fermano sul ciglio. L'Italia "frena" sempre con grande ritardo rispetto ai tempi che la prudenza suggerisce, lasciando con il fiato sospeso gli osservatori e gli stessi cittadini che non partecipano al gioco, ma lo osservano pur sempre con apprensione. L'attesa di una soluzione degli attuali gravi problemi del Paese non si può fondare su basi razionali, ma su questa memoria storica. Talvolta viene la tentazione di aggiungere "solo su questa", ma sarebbe troppo sbrigativo abbandonarsi a queste forme di pessimismo. L'Italia ha sempre frenato, perché non dovremmo fare lo stesso anche in questa circostanza?

Poiché l'attenzione è maggiormente concentrata sugli strumenti da attivare e non sui problemi da risolvere, è lecito ricordare i termini della "questione europea", anche perché, a prescindere dal contenuto del Trattato di Maastricht, coincide con la "questione italiana". I problemi dell'economia e della società italiana sono due: il miglioramento della funzionalità dello Stato e la difesa delle capacità competitive delle nostre merci e dei nostri servizi sui mercati internazionali. L'Unione europea non si può sostituire ai poteri nazionali nella scelta degli obiettivi, ma impone il rispetto di vincoli alla dimensione di quelle che gli economisti chiamano "variabili endogene", ossia gli effetti e non le cause dei comportamenti della pubblica amministrazione, delle "parti sociali" e, più in generale, dei cittadini. Il dibattito politico si è pertanto concentrato sul disavanzo dello Stato, sul debito pubblico, sull'inflazione, sui tassi di interesse e sul cambio della lira, e si tenta di imprimere a essi le dimensioni richieste dal Trattato di Maastricht. A tal fine si è già agito e si propone ancora di agire sulla spesa pubblica, sulle entrate tributarie, sulla moneta e sul costo del lavoro. Tuttavia, all'origine degli squilibri nelle grandezze indicate vi sono le inefficienze e gli abusi della pubblica amministrazione o, se si intende allargare le responsabilità, le carenze del "sistema-Paese", ossia di tutti quei fattori che restringono le potenzialità competitive della nostra economia e inducono un aggravamento del problema sociale della disoccupazione.

La soluzione passa quindi attraverso una profonda riforma della pubblica amministrazione e il potenziamento delle "condizioni di ambiente", quali la dotazione di infrastrutture, una migliore normativa economica (ivi incluso, ovviamente, il fisco) e l'estensione dell'area della competizione (comprese le privatizzazioni). Per poter procedere in questa direzione, occorre innanzitutto tracciare un quadro strategico, geoeconomico, dell'iniziativa politica.

La competizione internazionale si svolge oggi secondo caratteristiche ereditate dalla sottovalutazione politica del ruolo che avrebbero potuto svolgere in essa i Paesi arretrati, una volta ampliato il quadro della liberalizzazione degli scambi reali e monetari in mercati destinati ad assumere dimensioni globali. Attualmente, non più di 20 Paesi presentano caratteristiche di libertà e di tutela sociale soddisfacenti, mentre oltre un centinaio oscillano tra la povertà più assoluta e il tentativo di inserirsi nello sviluppo mondiale agendo sul costo del lavoro, attraverso bassi salari e reti di protezione sociale modeste o inesistenti. Ciò comporta che la competizione internazionale tra Paesi ricchi e Paesi poveri avviene in presenza di pratiche di social dumping, ossia commerciando beni che incorporano costi umani elevatissimi e che spiazzano i beni provenienti dai Paesi i cui oneri sociali innalzano i costi di produzione. La redistribuzione internazionale del lavoro indotta dal social dumping è un gioco a somma negativa. I Paesi, che perdono posti di lavoro e che devono comprimere la rete di solidarietà sociale per risparmiare sui costi di produzione, sopportano un costo nettamente superiore ai vantaggi ottenuti dai Paesi che guadagnano questi posti e che, per mantenerli, non possono sviluppare un sistema di garanzie sociali.

Se si è convinti che la distribuzione internazionale del benessere è squilibrata e incoerente con l'auspicato processo di liberalizzazione e globalizzazione delle economie (e per certi versi delle società), il processo deve essere governato per far sì che i Paesi sviluppati non regrediscano, ma correggano le loro esagerazioni, inefficienze e abusi, e che quelli ancora in via di sviluppo o lontani da questo processo siano indotti a seguire itinerari di sviluppo che non ripetano le esperienze negative del primo capitalismo, quello del laissez-faire.

Tutti i Paesi devono essere indotti ad accettare senza indugio talune componenti indispensabili della convivenza civile, quali l'istruzione, la protezione della salute e una vecchiaia serena dopo una vita di lavoro. Le proposte avanzate in materia anche a livello ufficiale sono quelle di intraprendere nuove opere pubbliche e garantire più flessibilità nel mercato del lavoro. Esse possono però rappresentare solo una risposta marginale ai problemi sociali sollevati dalla disoccupazione. Le opere pubbliche, se ben calibrate e condotte, offrono un duplice sollievo alle pressioni deflattive causate dalla competizione realizzata in social dumping: migliorano l'efficienza del sistema-Paese, in quanto creano economie esterne alle imprese, e innalzano momentaneamente il reddito e l'occupazione. La flessibilità delle prestazioni di lavoro e del loro costo ha invece proprio le caratteristiche di quel gioco a somma negativa sopra denunciato.

Rilevare ciò non significa che i Paesi sviluppati non debbano sollecitare condizioni di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ma che il loro atteggiamento non risolve il problema disoccupazionale. I divari internazionali di costo del lavoro sono talmente elevati che la flessibilità dovrebbe essere spinta fino a livelli che non garantiscono la sopravvivenza dei lavoratori. L'ampiezza delle popolazioni povere è inoltre tale che, se esplicasse tutta la sua carica competitiva, ridurrebbe in povertà tutti. Il processo deve essere governato politicamente a livello internazionale.

Lo strumento più adatto pare quello al quale hanno fatto ricorso gli Stati americani dopo la guerra civile e la costituzione della Confederazione. Essi hanno imposto una tariffa compensativa sui beni prodotti dagli Stati che si rifiutavano di introdurre una legislazione protettiva del lavoro minorile; ciò al fine di indurre i Paesi renitenti ad accettare le regole della convivenza civile, non per proteggere le proprie merci dalla concorrenza, e così avvenne.

Un'analoga proposta è stata recentemente avanzata dall'Unesco, sempre per proteggere i minori dallo sfruttamento, ma non si vede perché l'uso di questo strumento si debba limitare a considerare solo i diritti dei minori e non quelli conquistati da tutti dopo lotte che hanno segnato profondamente la storia dell'umanità. L'applicazione di tariffe che combattano il social dumping va fatta sotto sorveglianza mondiale, ad esempio del Wto, sulla traccia dei lavori svolti dall'Organizzazione internazionale del lavoro. Lo scopo è quello di impedire il ritorno al protezionismo e sollecitare l'accettazione di standard minimi di rete di protezione sociale.

Si è finora fatto cenno ai modi in cui il processo appena avviato di una nuova divisione internazionale del lavoro va governato politicamente, senza fare riferimento agli effetti dello sviluppo tecnologico sul livello di occupazione. L'incontro delle due forze in atto sui mercati mondiali rappresenta una miscela esplosiva sul piano sociale, che pone seri problemi alla stabilità del capitalismo mondiale. Una sua miopia potrebbe far ripiombare le società nel buio della storia.

Paolo Savona


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1997