Gran bazaar postmoderno: la scommessa del mercato globale
LA FINE DELLA DOLCE VITA
di Sergio Ricossa

Ciò che salta agli occhi leggendo le pagine qui raccolte di Salin, Savona e Brunetta, è che i tre economisti non sono concordi. La non concordanza è evidente e normale. Quando mai i cultori della cosiddetta scienza economica giungono a un'unica e medesima conclusione? Tuttavia, qualcosa accomuna i nostri tre autori: l'ottimismo. Ciascuno di essi ha la propria ricetta, diversa da quella degli altri, ma ogni ricetta è "miracolosa", infallibile. Le nubi che oscurano l'avvenire del pianeta possono essere spazzate via: dal libero mercato, secondo Salin; dall'intervento di organizzazioni mondiali come la Wto, secondo Savona; dalla partecipazione dei lavoratori alla gestione d'impresa, secondo Brunetta. Vien voglia di dire: prendiamo i tre rimedi, mescoliamoli insieme in una grande triaca medicinale, e siamo a posto. Ovviamente, e purtroppo, la cura non è così semplice. Quelle nubi nere che osserviamo all'orizzonte (nuvole spettrali, dice Savona) pongono un interrogativo tremendo: riuscirà l'Occidente a conservare il suo primato scientifico, tecnico, economico e perfino morale (posto che, a quanto sembra, il modo occidentale di curare le relazioni sociali sarebbe moralmente superiore a quello dei Paesi di nuova industrializzazione)? Espresso in tali termini il problema attuale dell'Occidente appare la ripetizione di un problema storico di sempre: il problema di una civiltà "matura" minacciata di sorpasso da civiltà diverse e "giovani".

Gli storici ci insegnano che le civiltà sono mortali, e che le civiltà malate si risanano con estrema difficoltà. Ma, prima di rassegnarci, noi occidentali dobbiamo confessare a noi stessi che i nostri "nemici" sono più interni che esterni all'Occidente. A molti occidentali, soprattutto in Europa (molto meno negli Stati Uniti), piace vivere da "maturi", anzi da vecchi, e piace quindi una sorta di stabilità che rifugge dai rischi della vita. Perciò ci spaventano i popoli giovani, dinamici anche demograficamente, e vorremmo, per esempio, che essi adottassero i nostri sistemi di sicurezza sociale, i quali sistemi sono lussi che, forse, nemmeno noi potremo ancora concederci a lungo, e che certamente non ci concedevamo allorché eravamo all'inizio dello sviluppo economico, cioè nella fase in cui si trovano adesso i popoli giovani.

Non è tanto questione di morale quanto di mezzi disponibili per sostenere certe ispirazioni sociali. E poiché i mezzi sono sempre scarsi rispetto agli innumerevoli fini desiderabili, i mezzi che dedichiamo (magari sprecandoli) alla stabilità della vita non sono più presenti per mantenere o accrescere il flusso delle innovazioni scientifiche, tecniche ed economiche, sul quale fin qui si è basata la nostra civiltà. Potenti forze culturali sono all'opera in Europa per frenare quel flusso, che minaccia la stabilità (peraltro irraggiungibile oltre un certo grado: la stabilità completa non c'è nemmeno nella tomba).

Il basso costo del lavoro (espressione senza senso, se si tace sulla produttività del lavoro e sul costo della vita) non è la principale offesa che l'Europa subisce da parte dei popoli giovani nella concorrenza internazionale. &EGRAVE la scusa che i più pigri imprenditori europei tirano fuori per ottenere protezione dai loro governi: e qui mi trovo più vicino alle idee di Salin che a quelle di Savona e Brunetta.

Se poi parliamo dell'Italia, e ne parliamo con franchezza, non oso dire che siamo un Paese ad alti salari in generale. Alti sono i prelievi fiscali, alti sono i contributi sociali, alto è il costo della vita (il costo dell'alimentazione, in specie, a causa della scervellata politica agraria dell'Unione europea), alto è il prezzo che i nostri lavoratori pagano per colpa di sindacati politici e complici di particolari partiti politici.

Infine, la concorrenza internazionale di cui tanto parliamo è più leggenda che realtà. La globalizzazione o mondializzazione degli affari è progredita, se è progredita, più per le nuove tecnologie nei settori dei trasporti e delle telecomunicazioni che per l'adozione di princìpi più liberali da parte dei governi. La libera concorrenza è sopraffatta da guerre commerciali non molto dissimili da quelle dell'epoca mercantilistica. In guerra, si sa, la propaganda recita una parte notevole, da sempre; notevolissima, da quando abbiamo la stampa, la radio e la televisione. Tutti, compresi gli economisti, fatichiamo più che mai a leggere la realtà senza inganni, a capire il presente così come è. Figuriamoci prevedere il destino futuro della nostra civiltà.

Sergio Ricossa


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1997