Intervista a Massimo D'Alema
"NOI, SINISTRA DI MERCATO"
di Gaetano Quagliariello

Massimo D'Alema non è solo il segretario del maggior partito italiano. è anche il portatore di una precisa strategia politica che ha come scopo quello di condurre in porto la lunga ed estenuante transizione italiana. Non è certo poco, nella precaria e confusa realtà che caratterizza oggi la vita politica del nostro Paese. Va d'altro canto ricordato che il progetto di D'Alema non è neutro. Ha una cifra ben precisa e leggibile. E ciò che lo rende apprezzabile è che non nasconde le sue ascendenze culturali né la tradizione politica dalla quale deriva. Non ha il vezzo di richiamarsi alla tradizione liberale. Ha invece l'onestà di rivendicare l'appartenenza ad un universo di valori e di riflessioni ben determinato: quello della socialdemocrazia europea. Insomma, non fa confusioni; non concorre ad inflazionare liberalismo e falsi liberali.

In vista del prossimo congresso del Pds Ideazione ha intervistato Massimo D'Alema. Si è trattato di un confronto a tutto campo, che ha preso le mosse dalla consapevolezza delle differenze di fondo che separano il rinnovamento della tradizione liberale, che la rivista persegue, da un leader che è estraneo a questa tradizione. Proprio tale consapevolezza ha fatto nascere la volontà di avviare un dibattito serio, duro e senza sconti tra interlocutori veri. Un dibattito che non conceda alcuno spazio a fascinazioni estemporanee e convergenze occasionali.

E' di questo che in Italia si avverte un gran bisogno e, in questa direzione, speriamo di aver saputo portare un contributo ed uno stimolo. Speriamo, soprattuto, che non si fermi tutto ad una intervista.


Iniziamo dalle radici della Quercia. La caduta del Muro e l'apertura degli archivi di Mosca hanno permesso di approfondire e completare la conoscenza storica sul funzionamento del movimento comunista internazionale. Oggi, d'altra parte, il suo partito rivendica un'identità socialdemocratica. E' giunto il momento di riconoscere senza esitazioni l'appartenenza di Palmiro Togliatti a un universo stalinista che non ha più niente in comune con quello del Pds? E' una domanda che non ha alcun pregiudizio valutativo, riconoscendo preventivamente le grandi capacità politiche di Togliatti...

Chiariamo subito che tra il Pds e Togliatti non vi è alcuna parentela. Sono divisi da almeno tre cesure storiche: il '68, l'81 e l'89, una distanza siderale. Il Pds non ha nulla in comune non solo con l'universo stalinista ma anche con il mondo comunista, che è concetto diverso e più ampio. Per altro verso, invece, la domanda mi sembra non rendere giustizia a una riflessione storica più serena su Togliatti. Senza dubbio Togliatti è stato un uomo dello stalinismo, però è stato anche altro. Direi che ha avuto un piede dentro ed un piede fuori lo stalinismo. Tra i dirigenti del movimento comunista di quegli anni è stato tra gli uomini che con maggiore lucidità hanno intuito i limiti dello stalinismo e le possibili sue deformazioni. Da questo punto di vista, non mi sembra che l'apertura degli archivi di Mosca abbiano portato novità sostanziali. Ha consentito di andare più a fondo e perfezionare la filologia. In tal senso, penso alla recente biografia di Aldo Agosti, che giudico un libro di grande spessore, che fa emergere la figura di Togliatti con tutte le sue luci e le sue ombre.

Mi permetta di riferirmi anche ad altri studi di ricercatori stranieri ed italiani. Solo per citarne alcuni, quelli di Lazar, di Narinski, di Gibianski, di Zaslavsky, di Argentieri, di Elena Aga-Rossi. Sulla scorta di queste analisi, è forse più convincente presentare Togliatti con entrambi i piedi nello stalinismo; per affermare subito dopo che, all'interno di questo universo, egli ha saputo muoversi con rara capacità, duttilità e intelligenza politica.

Si può discutere a lungo su questo punto. Io ritengo però che sia l'intervista a Nuovi Argomenti sia il memoriale di Yalta si collochino fuori dallo stalinismo. Può darsi che questo non configuri tutto un piede ma solo un alluce. In ogni caso, vi è una parte di Togliatti che è fuori dallo stalinismo. Non credo che questa parte sia "la via italiana al socialismo". Questa politica può in fondo essere considerata come un ripiegamento: un modo per rendere compatibile l'esperienza del Partito comunista italiano con lo stalinismo. Per me il Togliatti più interessante non è questo, bensì quello del policentrismo. è il Togliatti che, con il memoriale di Yalta, mette in discussione le modalità di funzionamento del sistema comunista mondiale e le modalità con le quali è governata l'Urss. E che con l'intervista a Nuovi Argomenti affronta il tema delle disfunzioni create in Urss dalla sovrapposizione del partito allo Stato. Sono questi gli ingredienti di una discussione storica seria, che non penso sia utile proiettare sui problemi dell'oggi che sono distantissimi dai fatti dei quali abbiamo parlato.

Per venire all'oggi, utilizzando il viatico della storia, mi è sembrato di cogliere nella sua ricerca di una doppia maggioranza - una per il governo ordinario, una per il "patto fondamentale" di rifondazione dello Stato - un implicito riferimento ad uno dei momenti alti della strategia togliattiana. Non ritiene, però, che tra oggi e la realtà del '48 esistano differenze strutturali che rendano problematico rinnovare il successo di quella strategia? Dal mio punto di vista, intravedo almeno tre motivi di complicazione: un governo assai più polarizzato rispetto a quello guidato da De Gasperi nel periodo costituente; una capacità di direzione politica da parte dei partiti incredibilmente ridotta; l'impossibilità, nel contesto attuale, di evitare il referendum confermativo...

Se può valere un parallelo tra l'attuale fase politica e quella della stagione costituente, si tratta di un parallelo a parti rovesciate. Oggi noi non abbiamo i problemi che furono di Togliatti ma, semmai, quelli che agitarono De Gasperi. In primo luogo perché siamo noi a dover garantire il governo del Paese; inoltre perché oggi è la destra a godere di scarsa legittimità, soprattutto a livello internazionale. Oggi la coalizione democratica che garantisce l'integrazione dell'Italia in Europa - ruolo che fu allora della Dc - è guidata da noi e abbiamo a che fare con una destra che, purtroppo, non ha il suo Togliatti. Manca di un leader che si ponga il problema di costituzionalizzare, attraverso il patto fondamentale, innanzi tutto la sua parte politica.

Crede veramente che esista un problema di costituzionalizzazione della destra?

Sì. Esiste un serio problema di accettazione della destra italiana in un quadro europeo. Sono convinto che questo sia un fatto negativo per il nostro Paese; non sono tra quanti sono contenti del rifiuto che incontra la nostra destra a livello europeo, ma non posso fare a meno di constatarlo. Fini di quale famiglia europea fa parte? è forse parente di Chirac? No, perché Chirac non lo accetta. E Berlusconi, perché non riesce ad entrare nel gruppo popolare del Parlamento europeo? Insomma, la destra italiana è certamente anomala e risulta difficilmente traducibile nel linguaggio europeo, così come il Pci è stato per molto tempo una grande forza isolata rispetto alla grande famiglia socialista europea.

Torniamo al parallelo tra oggi e la stagione costituente.

Oggi ci troviamo in un momento rifondativo della Repubblica. è necessario un nuovo patto costituzionale che, senza liquidare i princìpi del '48, sappia ricostruire gli strumenti propri di una democrazia funzionante. Al tempo della Costituente una classe dirigente, divisa da contrapposizioni aspre sul terreno ideologico, seppe far convivere scontro politico e ricerca dell'accordo sui princìpi fondamentali, dimostrando grande maturità democratica. Solo in tale contesto problematico può valere il parallelo con la realtà odierna. Vi E', certo, una differenza di fondo rispetto a quel periodo, ed io l'ho già messa in luce in Parlamento. Allora ai partiti fu possibile condurre in porto la duplice operazione del '48 anticomunista e del '48 come ricerca del patto costituzionale perché essi uscivano da una comune lotta antifascista. Avevano vissuto insieme un momento alto e drammatico della vita della nazione. Mi sembra che questa matrice comune oggi manchi e proprio tale assenza rende ancora più necessario l'impegno e lo sforzo della nuova classe dirigente.
Non credo, invece, che il governo centrista di De Gasperi fosse molto più omogeneo rispetto al centro-sinistra odierno. Anche in quel caso, vi erano nella compagine governativa personalità molto diverse, che rappresentavano valori e storie assai differenti. Non ho neanche paura del ruolo che potrebbe giocare il referendum confermativo. Nel 1948 vi era la possibilità che il referendum portasse il residuo di cultura fascista rimasto nel Paese ad opporsi alla Costituzione antifascista. In altri termini, il referendum avrebbe potuto far emergere un'opposizione di destra che fino ad allora non aveva trovato rappresentanza politica. Vi era il rischio che l'intero arco delle forze politiche che approvava la Costituzione raggiungesse a mala pena il 51%. Da questo punto di vista, oggi, la questione si pone in termini molto diversi. Io credo che, se in Parlamento raggiungiamo un accordo positivo su un nuovo impianto costituzionale, questo possa trovare l'approvazione di una larga maggioranza degli italiani. La strada ci è facilitata in quanto il nostro compito oggi è quello d'importare in Italia un modello di democrazia europea che, con una formula felice, Edgard Morin ha definito il modello dell'antagonismo collaborante. Le grandi democrazie europee si fondano su questo paradigma, che è esattamente il contrario del consociazionismo rissoso che funziona nel nostro Paese.

A proposito di consociazionismo rissoso, lei personalmente e altri esponenti del suo partito avete iniziato una riflessione critica sulla politica comunista degli anni '70. Nelle sue ricostruzioni, d'altro canto, l'accento cade spesso sul decennio successivo: gli anni '80 come la fase nella quale ha preso inizio la grande degenerazione. Non crede che questi due spezzoni d'analisi debbano trovare un necessario collegamento?

Certo che vi è un nesso. In Italia, a metà degli anni '70, è accaduto esattamente quello che è successo in Germania quando, esauritasi la lunga fase post-bellica del governo democristiano, vi è stato un ampio ricambio di classe dirigente. La fisiologia avrebbe voluto che lo stesso fenomeno si producesse nel nostro Paese: ricambio di classe dirigente a livello generazionale e di orientamento politico. Per questo l'Italia si rivolse allora al Pci. Gli chiese di trasformarsi in un grande partito socialdemocratico in grado di mandare all'opposizione la Dc. Il limite storico del Pci fu che, privo di una tradizione socialdemocratica, non era nelle condizioni di rispondere a quella pressante richiesta. Non poteva incarnare questa fisiologica esigenza di ricambio innanzi tutto perché gli era impedito, anche dal punto di vista militare. Ed esso aveva introiettato questo suo limite, che era divenuto parte essenziale della sua cultura politica. A questo punto, scoppiò il dramma di una democrazia senza ricambio. Merito di Craxi fu quello di aver intuito prima di altri questa crisi di fondo della democrazia italiana. Suo demerito enorme fu che, abortito il tentativo di ricambio della classe dirigente, egli cavalcò la stagnazione politica fondando su di essa la sua strategia. Anziché porsi l'obiettivo ambizioso di guidare la sinistra verso la sua trasformazione, nella prospettiva della costruzione dell'alternativa, pensò di poter enfatizzare il potere di coalizione del Psi. In tal modo, da possibile protagonista del rinnovamento si è trasformato nel massimo interprete dell'agonia del vecchio sistema, portando il blocco della democrazia italiana fino alle sue più estenuate conseguenze. La corruzione, in fondo, è una conseguenza obbligata di questa storia.
Qui risiede il legame tra gli anni '70 e gli anni '80. Esso evidenzia l'impotenza di un grande partito che non poteva offrire alla società italiana ciò che questa gli domandava. E, in questo quadro, la figura politica di Berlinguer si staglia come quella di un grande riformatore sconfitto: non potendo guidare la trasformazione, egli intuisce per primo l'agonia del sistema, l'intreccio perverso tra Stato, partiti ed economia, e teorizza la diversità del Pci per preservarne la forza dai rischi di coinvolgimento. Tale strategia non mise il Pci nelle condizioni di svolgere il suo compito storico. D'altro canto, è proprio il Berlinguer che denuncia la questione morale che ci aiuta a comprendere perché, quando viene la bufera, l'unico pezzo che resta in piedi siamo noi. Noi siamo figli innanzi tutto della "svolta", perché senza la "svolta" saremmo stati travolti; ma anche del fatto che la "svolta" ha consentito un innesto su un ceppo robusto. E il ceppo era sano anche perché era stato ibernato dalla teoria della diversità comunista.

Nella sinistra europea, ed in particolare in quella di matrice socialdemocratica, è in corso un dibattito non semplice né scontato sull'accettabilità del modello di democrazia che lei ha definito di antagonismo collaborante. Ci si chiede se l'adesione a quel modello non porti, nei tempi lunghi, allo smarrimento di ogni peculiarità e all'accettazione obbligatoria di un universo politico permeato da un pensiero unico, che relativizzi sempre più le differenze tra sinistra e destra. Non teme che queste riflessioni possano, anche in Italia, riproporre in chiave di attualità il problema della diversità che, cacciato dalla porta, rientrerebbe così dalla finestra?

Il rischio dell'uniformizzazione politica è reale. Esso non deriva da una crisi del modello dell'alternanza, ma da ragioni più vaste e complesse. Si sta riducendo lo spazio di agibilità politica per la progressiva affermazione del mercato e della mondializzazione dell'economia. Quando i governi nazionali si trasformano in mere tecnostrutture, che devono eseguire le politiche che sono dettate loro dalla logica della competizione globale, non è solo il progetto socialdemocratico a perdere le sue chances, ma anche una qualsiasi affermazione ideale e nazionale di destra. La politica finisce così per trasformarsi in una mera lotta di potere per porsi al servizio dei banchieri, i nuovi sacerdoti della religione del mercato mondiale. Non è un caso che questo problema abbia interessato non solo la sinistra ma anche la destra, per esempio in Francia...

Ed ha fatto nascere, tra forze e individui appartenenti a schieramenti opposti, alleanze quanto meno sorprendenti...

Non vi è dubbio. Si tratta di un problema enorme e trasversale. In realtà o la politica torna sul ponte di comando, ovvero, se essa decade a mera tecnica al servizio dell'economia, la distinzione destra/sinistra rischia di annebbiarsi.

Crede veramente che il processo di restringimento degli spazi della politica possa invertirsi o anche solo fermarsi?

Penso che sia perdente pensare di difendere lo spazio della politica inteso come sovranità dei singoli Stati-nazione contro la logica della mondializzazione. Così come la difesa dei contesti locali e comunitari contro gli Stati nazionali designa una logica perdente. La direzione di ricerca è un'altra: riconquistare una dimensione della politica intesa come esigenza sovranazionale di regolare la mondializzazione. Io sento che se oggi non si riattiva una grande dialettica destra/sinistra a livello dell'Europa e di politica sovranazionale, è ancor più difficile che questa dialettica possa continuare a esistere a livello di Stati nazionali. Se vuole riguadagnare il suo spazio, la politica deve sapersi adeguare alle grandi trasformazioni.

Propone un percorso certamente suggestivo, ma ancora sfumato...

Comprendo l'obiezione. Mi sta dicendo che è ancora difficile scorgere punti d'appoggio concreti nel mio percorso.

E anche che, al momento, non mi sembra esistano un grande dibattito e una grande consapevolezza intorno ai temi che abbiamo evocato. In questo senso, il nostro Paese è rimasto indietro...

è vero. Sono rimasto assai colpito, ad esempio, che al dibattito sulle relazioni tra idea d'Europa e cittadinanza nazionale, aperto da un articolo molto bello di Barbara Spinelli su La Stampa di Torino, l'unico nuovo leader politico a intervenire sia stato io. Credo che noi siamo la forza politica che avverta di più questa dimensione della crisi della politica. Anche perché il nostro rinnovamento ha conosciuto un versante fin qui scarsamente evidenziato: l'integrazione del Pds nella sinistra europea. In Italia noi siamo l'unico, grande partito transnazionale. Se lei vede la mia agenda, il numero delle riunioni del Pse è certamente più grande di quello delle riunioni di Direzione del Pds. Questo anche perché, come è noto, io convoco assai poco la Direzione del partito e vengo perciò accusato di essere scarsamente sensibile alla democrazia interna...

D'altra parte, ammetterà che esistono in questa fase problemi specificamente italiani sulla via dell'importazione del modello della conflittualità collaborante. Innanzi tutto, questo modello funziona tra soggetti legittimati e lei poco fa ha messo in dubbio la legittimità della destra italiana. Non si tratta di una contraddizione?

Ho fatto di tutto per dimostrare che io considero pienamente legittima la destra italiana come interlocutrice di un processo di rinnovamento delle istituzioni. D'altra parte, questo mi viene riconosciuto o rimproverato, a seconda delle prospettive. Sono anche convinto che tale propensione ci sia costata elettoralmente. Aver discusso con Berlusconi e Fini della possibilità di sostenere insieme un governo è stato decisivo per far vincere l'Ulivo alle elezioni (perché ha rassicurato i moderati) ma ha fatto perdere al Pds almeno il 2% in direzione di Rifondazione. Devo però registrare la forte resistenza che incontra in Europa la destra italiana e, in questo campo, l'essenziale è essere accettati. Anni fa io non avevo alcun dubbio che il Pci fosse un grande partito democratico abilitato a governare l'Italia. Ciò non toglie che uomini di Stato e di governo in Europa la pensavano diversamente...

Ma il suo giudizio sulla classe politica della destra si è modificato da quando l'esperienza del Polo ha preso avvio?

Noto un'evoluzione, su questo non c'è dubbio. Io ho considerato di grande importanza l'operazione di Forza Italia di raccogliere forze intellettuali intorno al progetto della costruzione di un soggetto politico liberale di massa in Italia. Considero questo un fatto che va nella direzione dell'europeizzazione della destra italiana. D'altra parte, non posso fare a meno di notare come queste forze abbiano un peso limitato nella determinazione delle scelte politiche della destra. E vedo che la destra ha due grandi handicap. Il primo è rappresentato dall'ambiguità della figura di Berlusconi. In realtà, il problema del conflitto d'interessi, che noi abbiamo enfatizzato in chiave esterna, rivela la sua pericolosità soprattutto in una dimensione interna alla sua parte. Il secondo è rappresentato dallo scarso coraggio politico dell'onorevole Fini. è un leader abile nella gestione della propria immagine, ma non ha la consapevolezza che un processo di trasformazione straordinario come quello che è in corso nell'Italia d'oggi richiede rischio e sofferenza. Io non ho mai scorto in lui i segni della capacità di rischiare e della capacità di soffrire. Lo percepisco come un uomo che galleggia senza prendersi troppe responsabilità. Colgo più capacità di rischiare in Berlusconi che in Fini. Nonostante che per Fini dovrebbe essere più facile, in quanto è giovane e potrebbe proiettarsi sul medio periodo. Mi chiedo, ad esempio, perché non divenga lui l'interlocutore di un progetto come quello della Bicamerale. La verità è che egli teme, ad esempio, la concorrenza di Segni, il dissenso interno, la possibilità di perdere qualche pezzettino dei suoi... Un leader non può pretendere di essere sempre coccolato dai suoi. Se non sa contraddirli qualche volta, non è un vero leader.

Questo problema del conflitto d'interessi voi l'avete enfatizzato quando Berlusconi era al governo. Modificatisi gli assetti di potere, è stato un po' dimenticato. Non crede che il problema si ponga ancor più per il leader dell'opposizione, in quanto concede al governo un'arma di potenziale ricatto?

Io credo che il problema si ponga in un caso e nell'altro. Nel momento in cui Berlusconi era capo del governo, fu particolarmente enfatizzato dalla sinistra, per la natura particolarissima che esso assumeva. Vi era il rischio che si costituisse una posizione di monopolio informativo sommando Fininvest e Rai e, dunque, di minaccia democratica. Oggi la questione è diversa, ma non meno rilevante. Basta pensare alla centralità che in questi mesi hanno nel dibattito politico i temi della giustizia e dell'informazione per rendersene conto. Io continuo a pensare che il conflitto d'interessi sia, al tempo stesso, un'anomalia e un handicap per la destra italiana che la rende particolarmente vulnerabile, in quanto definisce con troppa precisione gli interessi del suo leader.

D'altra parte, la rilevanza del tema della giustizia richiama un altro aspetto del nostro problema. Il tentativo di costruire la democrazia dell'alternanza si sta compiendo in presenza di una lacerazione del Paese ai limiti della guerra civile incruenta...

Non vi è dubbio. E tale situazione è determinata da "residui" non smaltiti. Uno di questi E', ad esempio, la persistenza di una sensibilità anticomunista che nel '94 Berlusconi seppe sfruttare magistralmente: le paure sopravvivono sempre alle ragioni che le hanno determinate. Altra ragione è il radicamento della diffidenza di questo Paese nei confronti della politica e del particulare: quello che si potrebbe definire un sentimento qualunquistico.

Oltre la ricerca delle cause profonde, non è forse urgente una riflessione su un "terzo potere" di garanzia, senza il quale una democrazia maggioritaria vive male?

Io sono fortemente convinto di due cose. Innanzi tutto che la riforma delle istituzioni debba costruirsi intorno all'indicazione popolare del capo del governo. Perché questa è la soluzione meno lacerante ed anche quella che più accoglie la realtà empirica esistente, limitandosi a regolarla istituzionalmente. In secondo luogo, credo che vada riorganizzata intorno alla figura del capo dello Stato un potere di garanzia che l'Italia non ha mai avuto, dandogli anche una diversa legittimazione...

Pensa a un'elezione da parte di un collegio allargato, sul modello della Quinta Repubblica francese prima del 1962?

Esattamente, il sistema francese del '58, con due differenze di grande momento: un presidente privo di ogni potere politico; un capo del governo del tutto autonomo, indicato direttamente dal popolo e guida indiscussa del potere esecutivo.

Su un terreno più contingente, non ritiene che a sinistra vi possa essere interesse a preservare questa situazione di scontro frontale e di delegittimazione? L'attuale maggioranza è costruita innanzi tutto contro qualcuno e non per qualcosa; ha ricevuto la spinta decisiva di una nuova conventio ad excludendum. Se dovessero venir meno le ragioni dello scontro frontale, perché Bertinotti e Dini dovrebbero sostenere lo stesso governo?

è possibile che in quello che lei dice ci sia del vero. Io penso che l'evoluzione del bipolarismo italiano sia ancora in atto. Anche per questo ritengo che il doppio turno sarebbe utile, perché renderebbe la situazione più flessibile ed eviterebbe questa specie di neo-frontismo che il turno unico favorisce. In un sistema multipartitico il turno unico ha prodotto due grandi fronti contrapposti: una specie di fronte nazionale ed una specie di fronte popolare.

La quota di proporzionalità residua, impedendo al multipartitismo di semplificarsi, non è però estranea a questa dinamica...

D'altra parte, va considerato che in Italia il multipartitismo c'è e non lo si elimina con una legge elettorale. Credo che in questo campo sia stato commesso un errore di tipo illuministico: ritenere che le leggi elettorali avrebbero ridisegnato il panorama partitico di questo Paese. Il problema, invece, era quello di studiare il sistema elettorale più adatto al pluripartitismo italiano e questo sistema è il doppio turno, perché seleziona, ordina, armonizza le forze. Il turno unico, invece, è un sistema che congela. Con il doppio turno, la stessa eventuale persistenza della quota proporzionale avrebbe assunto un altro senso. Sarebbe stata una quota residua da distribuire tra le forze che non accettano di entrare nelle coalizioni principali. Oggi, invece, la quota proporzionale è diventata nei fatti il parametro di riferimento per le spartizioni interne alle due coalizioni. è per questo che ritengo che il difetto dell'attuale sistema risieda nel turno unico e non nella quota proporzionale.
Detto questo, sono d'accordo con lei: siamo in un sistema ancora in piena evoluzione. Io mi rendo anche conto che l'attuale alleanza di centro-sinistra ha due volti: per un verso, è un'alleanza contro una destra giudicata pericolosa e non europea; per un altro, è anche, almeno in nuce, un soggetto riformatore. Bisogna vedere quale di queste due potenzialità troverà sviluppo. Io penso che se la coalizione di centro-sinistra vivrà essenzialmente come un patto anti-destra, sarà destinata a morire. L'ho sostenuto dal giorno successivo alla vittoria elettorale. Agli alleati ho detto che il risultato elettorale ha offerto un'opportunità. Si deve coglierla per fare le riforme e trasformare il Paese. Non si può pensare di essere garantiti da una nuova conventio ad excludendum perché si va dritti al suicidio. La democrazia bloccata era garantita niente meno che dagli Stati Uniti d'America.

Vuol dire dalla logica dei blocchi...

Diciamo dalla logica dei blocchi. Venuti meno i due gendarmi, una nuova conventio ad excludendum in Italia non la garantisce più nessuno. Perciò, noi abbiamo tutto l'interesse a far evolvere il sistema verso una soluzione aperta, nella quale non possano valere più paure ataviche: né quella dei comunisti che permise a Berlusconi di vincere nel '94; né la paura della destra antiliberale che ha consentito di tenere insieme l'attuale coalizione di centro-sinistra. Io lavoro per una democrazia senza paure. Per questo voglio la Bicamerale e per questo sarei stato persino pronto ad accettare la sfida drammatica del governo Maccanico. Io voglio che vi sia un momento nel quale grandi forze politiche destinate a convivere si annusino e si riconoscano a vicenda. La Bicamerale vuol essere questo e mi colpisce che Fini non riesca a capirlo.

Ritiene che storicamente ed empiricamente esista una differenza tra la formula del governo di salute pubblica e quella del governo di larghe intese?

Certo che c'è una differenza. Il governo di salute pubblica è una scelta imposta dall'ineluttabilità dei fatti, dal dramma delle circostanze; il governo di larghe intese è invece una scelta politica.

Un Paese che vive nell'anarchia di uno dei suoi poteri fondamentali; che ha l'esigenza improrogabile di rinnovare le sue istituzioni; che si trova di fronte a una sfida economica decisiva per le sorti delle prossime generazioni è ancora molto distante dall'evocare la necessità di un governo di salute pubblica?

Credo di sì. Si possono affrontare questi problemi in una dialettica limpida e responsabile, che preveda che maggioranza e opposizione, pur nella necessaria distinzione dei ruoli, assumano una comune responsabilità. D'altra parte, ritengo che un governo di larghe intese non sia nell'ordine delle cose possibili. Dopo le elezioni, dopo la vittoria dell'Ulivo, un governo di larga convergenza porterebbe inevitabilmente alla disgregazione di entrambi i Poli; al formarsi di un centro composto da un pezzo dell'Ulivo e da un pezzo del Polo; al ricostituirsi di due estreme che si collocano fuori dall'area della governabilità. In poche parole, si assisterebbe alla rinascita di tutto ciò che vi era prima. Ciò implica che il governo di salute pubblica, per essere tale, deve coinvolgere tutti, da Bertinotti a Fini. Deve essere una cosa totalmente diversa da un governo D'Alema-Berlusconi, che riproporrebbe né più né meno quello che c'era prima. E quello che c'era prima io non lo voglio: neppure se questa volta noi ci saremmo dentro per i prossimi cinquanta anni. Se il nostro compito è quello di costruire una democrazia dell'alternanza, dobbiamo difendere l'Ulivo e il Polo, per quanto espressione scalcagnata e primitiva di un bipolarismo rozzo. D'altra parte, essi sono il bipolarismo oggi possibile. Se lo distruggiamo, non tornerà più quest'occasione, perché questo Paese è assai scarsamente predisposto ad esperimenti di tale fatta.

Gaetano Quagliariello


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1997