Orhan Pamuk, a ovest di Istanbul
di Carlo Roma
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

«Nella ricerca dell’anima malinconica della sua Istanbul, Pamuk ha scoperto nuovi simboli per raccontare lo scontro e il dialogo tra culture. È una figura controversa nel suo paese, come d’altra parte lo è la maggioranza degli scrittori premiati con il Nobel». Sono queste le motivazioni che l’Accademia di Svezia ha addotto per conferire, il 12 ottobre, il premio Nobel per la letteratura del 2006 ad Orhan Pamuk, lo scrittore turco che si è impegnato con coraggio per costruire ponti che uniscano l’Oriente all’Occidente. La sua prima dichiarazione è stata lapidaria. «Il mito della contrapposizione tra Est e Ovest è una delle idee più orrende degli ultimi venticinque anni». Un’idea contro la quale si è sempre battuto utilizzando le armi della riflessione e dell’approfondimento culturale.

Chi è, dunque, il neo premio Nobel per la letteratura? Quali sono i temi più significativi che emergono nelle sue creazioni letterarie? Quali sono gli obiettivi che hanno guidato la sua penna? Orhan Pamuk è uno degli scrittori più apprezzati e conosciuti di questi ultimi anni. È considerato dal governo del suo paese un intellettuale difficile da tenere a bada. È un uomo libero, forte delle sue convinzioni, capace di esprimere con chiarezza i suoi ideali. Un uomo che pur di affermare una verità dolorosa, nascosta e umiliante per il suo popolo non ha avuto paura di sfidare la legge. Ha ricercato il dialogo attraverso le sue opere. Ha messo al centro del suo lavoro il rapporto complesso, a volte inconciliabile, tra l’Oriente e l’Occidente. Ha esplorato le vie del dialogo tra l’Islam e il Cristianesimo per dare luogo ad un possibile confronto tra universi lontani, in lotta tra di loro da millenni. Universi che continuano a lanciarsi accuse aggredendosi con violenza e durezza. Si è sforzato di proiettare la nazione in cui è nato nell’orbita della realtà occidentale, offrendole l’opportunità di aprirsi alla modernità e allo sviluppo. Ha rischiato in prima persona. Ha messo in pericolo la sua autonomia. Si è lasciato processare. Non ha perso, però, la sua dignità e la sua onestà intellettuale. Non si è piegato ritrattando come da più parti gli era stato proposto.

Il romanziere e saggista turco nato nel 1952, autore di romanzi di grande respiro redatti dal 1974, ha osato squarciare il velo di silenzio calato su una delle tragedie più gravi della Turchia. Durante un’intervista rilasciata alla rivista svizzera Tages Anzeiger, ha parlato del massacro del popolo armeno e di quello curdo messo in atto dalle autorità turche nel corso della prima guerra mondiale: «Non lo dice nessuno lo dico io: i turchi hanno ucciso un milione di armeni e trentamila curdi». Con questa dichiarazione ha violato la legge. Ha affermato apertamente la gravissima ingiustizia di cui si è macchiato il suo paese. Si è trasformato in un nemico della sua patria, gettando un fascio di luce su un evento a lungo rifiutato e dimenticato.

In verità, si è trattato di una strage le cui radici affondano nella fine dell’Ottocento quando nell’Impero Ottomano vivevano circa 2 milioni e mezzo di armeni, per lo più cristiani orientali o cattolici. Un’etnia che rivendicava il suo diritto all’indipendenza. La cui lotta era sostenuta dalla Russia che mirava ad indebolire l’Impero Ottomano acquisendo parte dei suoi territori spingendosi fino al controllo di Costantinopoli. Nel 1894 gli eventi precipitarono. Gli armeni erano stremati dall’oppressione incoraggiata dal governo ottomano dei curdi. Erano impoveriti, al tempo stesso, dall’aumento delle tasse. Dopo anni di vessazioni si ribellarono andando incontro alla pesante reazione turca. Furono assassinati e i loro villaggi  furono bruciati senza pietà. Fu questa la prima fase dello  sterminio pianificato e realizzato con spietatezza. La seconda fase, invece, ebbe luogo nel corso della prima guerra mondiale. Era il 1915. L’Impero Ottomano si era sgretolato e il potere era stato assunto dal governo dei Giovani Turchi. Gli armeni rappresentavano un pericolo: potevano, infatti, allearsi con i russi, acerrimi nemici della nuova autorità di Istanbul. Ma non solo. I francesi, a loro volta, li finanziavano, alimentando le loro rivendicazioni per bloccare il nascente disegno della repubblica turca che verrà proclamata soltanto nel 1923. I Giovani Turchi non restarono a guardare. Fucilarono 300 intellettuali nazionalisti armeni e ordinarono la deportazione di buona parte della popolazione alla quale appartenevano. Una popolazione diffusa dall’Anatolia – dove gli armeni vivevano da millenni – ai deserti della Siria e della Mesopotamia. Le marce coatte furono devastanti. Centinaia di migliaia di prigionieri morirono di fame e di stenti mentre moltissimi sventurati furono sterminati lungo il difficile tragitto. Alla fine di questa terribile pagina di storia il macabro calcolo delle perdite umane raggiunse la soglia del milione di unità.

Da allora la Turchia ha proceduto ad una progressiva rimozione di questi avvenimenti. A nessuno è stato concesso il diritto di parlare di una tragedia che ha macchiato la sua cultura e la sua storia. Le norme vigenti per anni hanno sempre sanzionato ogni violazione.

Anche Orhan Pamuk, per tanto tempo osannato come l’alfiere di una cultura emergente, è stato incriminato e rinviato a giudizio a causa delle sue improvvide ammissioni. Nel 2005 egli ha attirato su di sé critiche che hanno sollecitato una riprovazione diffusa. La sua gente, in gran parte, lo ha abbandonato lasciandolo al suo destino. Un sottoprefetto ha ordinato la distruzione dei suoi libri nelle biblioteche e nelle librerie. Una televisione locale ha condotto una campagna di stampa contraria, additando e sottoponendo al disprezzo generale chi possedeva i suoi romanzi. Il quotidiano Gozcu ha espresso un giudizio inappellabile: «Pamuk ci ha venduto un’altra volta». La sua figura ed il suo talento sono stati sottoposti ad un discredito molto vasto con il quale si è cercato di limitare la sua capacità di influenzare la vita politica e intellettuale della Turchia. Il 16 dicembre del 2005 è stato istruito ai suoi danni un processo dagli esiti incerti. Il Codice, in questa materia, è chiaro: la pena prevista per il reato che egli ha commesso contempla almeno tre anni di galera. La violazione dell’articolo 301 comma 1 del Codice Penale non fa sconti: «Chi insulta i turchi, la Repubblica, l’Assemblea o l’identità nazionale rischia fino a 36 mesi di carcere». 

Da artista di Stato a imputato
Pamuk, dopo aver rifiutato l’ambito titolo di “artista di Stato”, è stato trattato come un cittadino comune. La sua incriminazione ha suscitato la reazione della stampa occidentale. I riflettori sono stati puntati sulle aule di giustizia in cui si sono verificate le prime schermaglie del dibattimento. I media del mondo libero hanno aperto la strada ad un interesse molto pressante della comunità internazionale sugli eventi che si sono svolti a Istanbul. L’interesse sul suo caso nasce dal fatto che la Turchia aspira da tempo ad essere ammessa nel novero delle nazioni europee. Un’aspirazione che viene vagliata con grande attenzione dalle autorità di Bruxelles. Il percorso che la condurrà, entro i prossimi dieci anni, nell’Unione Europea, è ancora lungo e complesso. Devono essere colmati i vuoti di libertà. «Siamo in lista d’attesa – ha chiarito Orhan Pamuk a Vittorio Macioce de Il Giornale – Anch’io voglio una Turchia con un posto a Bruxelles, ma è un obiettivo difficile da raggiungere. Ci sono troppi ostacoli: i rapporti con la Grecia, la questione curda e poi i parametri economici. Siamo ancora un paese povero». D’altra parte, le mancanze nel campo dei diritti umani sono ancora all’ordine del giorno in molte aree della grande regione turca. In questo senso, le calunnie alle quali è stato sottoposto il premio Nobel costituiscono una cruda testimonianza dei pochi diritti di cui godono i turchi all’alba del Terzo Millennio. Il suo processo, tuttavia, è stato archiviato. Le accuse lanciate contro lo scrittore sono state ritirate il 22 gennaio del 2006. Eppure, il famigerato articolo 301 ha continuato a mietere le sue vittime. Si oscilla ancora tra l’ansia di avvicinarsi all’Europa e le resistenze di un mondo legato alle sue solide tradizioni religiose e sociali. Un nuovo caso simile a quello che ha colpito Pamuk è stato sollevato, alla fine di luglio, da Antonio Ferrari dalle colonne del Corriere della Sera. Il dato è semplice. La giovane scrittrice Elif Shafak rischia la galera. Nel suo libro Il bastardo di Istanbul ha descritto il genocidio degli armeni. La storia, insomma, sembra ripetersi seguendo lo stesso copione di quella di cui è stato protagonista Orhan Pamuk.  

Biografia di un intellettuale borghese
Intellettuale poliedrico, studente di architettura e pittore dotato di buone qualità, Orhan Pamuk è nato a Istanbul in una famiglia borghese benestante. Una famiglia che, grazie ad una ricchezza accumulata nel tempo, è riuscita ad elevarsi dalla povertà delle masse. Il padre fu il primo dirigente della sezione turca dell’Ibm. Impartì al giovane Orhan e a suo fratello un’educazione moderna lontana dalle abitudini consolidate nel suo paese. Il nonno proveniva da Manisa, una città che sorge nei pressi di Smirne. Era bianco di carnagione, albino. A causa di questa caratteristica fu soprannominato signor “Pamuk”, che significa signor “Cotone”. Dopo la separazione dei genitori, avvenuta quando aveva cinque anni, egli fu strappato dal palazzo Pamuk dove era nato e dove era rimasto suo fratello. Per i suoi parenti non fu facile mantenere intatta la prosperità ereditata dalle generazioni precedenti. Al contrario, fin dalla sua infanzia, Orhan percepì un velo di tristezza e un’ incapacità mascherata a stento di alimentare il patrimonio accumulato.

Nel libro Istanbul, pubblicato di recente dalla Einaudi, Pamuk racconta le tappe salienti della sua formazione. La sua esistenza si lega in modo imprescindibile alle atmosfere indimenticabili, ai tramonti senza orizzonte e al senso di degrado e di malinconia che attraversano la grande metropoli turca. Una realtà ricca di contrasti, a metà strada tra la modernità e l’abbandono, carica di una memoria storica molto antica, che si rispecchia nel Bosforo continuando ad affascinare viaggiatori di ogni paese e di ogni epoca. Nelle prime pagine del libro Pamuk mette in scena il quadro della sua famiglia. Un quadro frutto delle percezioni maturate nel corso dell’infanzia. Tra i suoi tanti ricordi spicca, in particolare, quello di un bambino molto simile a lui. Un piccolo di cui gli zii gli indicavano spesso la fotografia appesa alle pareti della loro casa: un vasto appartamento in cui egli viveva dopo la separazione dei genitori. La sua infanzia trascorse nella convinzione che, in un quartiere della città, si nascondesse un altro Orhan. Si trattava di un bambino misterioso, un alter ego ignoto e tutto da scoprire. Un suo coetaneo cercato a lungo, ma mai conosciuto, con cui stringere un rapporto di amicizia. Questa fantasia ha accompagnato per parecchi anni la sua crescita e i suoi sogni. Da adulto, camminando per le strade buie e deserte di Istanbul, egli si sforzava di individuare il bambino della sua infanzia. È da qui che Pamuk inizia il suo racconto. L’immensa città, tutta da visitare ed amare, gli parla anche di un affetto mai coltivato. Ci sono, però, molti altri frammenti di vita che hanno segnato i suoi primi anni. Emozioni e sensazioni legate anche alla residenza nella quale si stabilì il suo “clan”. «I miei genitori, mio fratello, mia nonna, – scrive – i miei zii e le mie zie, tutti noi vivevamo in un palazzo di cinque piani. La grande casa signorile di pietra accanto, dove tutta la famiglia aveva vissuto fino ad un anno prima della mia nascita, […] era stata abbandonata e poi data in affitto ad una scuola elementare privata, e nel 1951 era stato costruito sempre sullo stesso terreno, il palazzo “moderno” dove anche ora abitiamo». Una grande casa lussuosa nella quale si respirava un’aria diversa rispetto a quella che si avvertiva nelle vie trafficate di Istanbul. Ad ogni piano era collocato un pianoforte che non veniva mai suonato. Ad ogni piano, ancor più, erano sistemate credenze che custodivano porcellane cinesi, tazzine, servizi d’argento e tante altre cose preziose. I salotti erano ricchi, arredati con leggii intarsiati e librerie dalle ante di vetro. Le poltrone comode e sontuose erano ben conservate. Gli ambienti apparivano come luoghi protetti e riservati. Luoghi nei quali si attendeva, da un momento all’altro, l’arrivo di un ospite straniero. In realtà, tutti gli ambienti evocavano l’Occidente richiamandone gli splendori e i desideri. «Dietro al fatto che i soggiorni fossero organizzati come dei piccoli musei – annota Pamuk – c’era, è ovvio, il desiderio di occidentalizzazione». D’altro canto, tutta la vita di Pamuk è stata sempre in bilico tra la ricerca delle luci dell’Occidente e il radicamento in una società frastagliata, difficile e misera.

Un mondo le cui aspirazioni, tensioni verso il nuovo e le vistose sacche di povertà e degrado si sintetizzano negli umori della grande Istanbul. Nelle sue lunghe passeggiate, fino al cuore pulsante dell’antica Costantinopoli, Pamuk rappresenta un microcosmo sospeso e incerto caratterizzato da una bellezza profonda e toccante. Un microcosmo capace di incuriosire gli europei più avveduti. Artisti come Melling, Nerval e Gautier, infatti, ne ritrassero il fascino e i paesaggi indimenticabili. Tuttavia, la frattura tra l’Occidente e l’Oriente continua ad essere una delle cifre più significative della metropoli turca. Una metropoli che, come si legge nelle pagine del libro, era in grado di conservare un’atmosfera semplice e immediata. In alcune zone resisteva ancora “una vita di quartiere”. Pamuk muoveva i suoi primi passi a Chihangir, dove la sua famiglia traslocò quando le fortune cominciarono a scemare. In quell’area della città la dimensione umana era molto forte. La gente si conosceva fino a stringere, in un certo senso, un patto di alleanza gli uni con gli altri. Ciascuno conosceva il suo vicino di casa e lo sosteneva nelle necessità. I rischi legati all’anonimato e alla divisione dei destini erano superati.

All’inizio degli anni Cinquanta, dunque, l’immagine che Istanbul offriva di sé non era quella che si può osservare ai nostri tempi. Lo sviluppo urbano non era esploso diventando impetuoso e fagocitante come si è rivelato negli ultimi decenni. Un dato accomuna, però, la città della giovinezza di Pamuk a quella della sua maturità. Ieri come oggi essa è percorsa da un destino malinconico e sciatto. Il senso della sconfitta e della tristezza la domina completamente. Si tratta un sentimento diffuso le cui radici affondano nella storia del paese. Lo scrittore turco non ha dubbi. È lo huzun, una «condizione della mente che la città ha assimilato con orgoglio». In altre parole, esso è il frutto amaro del declino che ha investito l’Impero Ottomano e che ha compromesso le velleità ed i sogni di grandezza della moderna Turchia. Ora che la città accoglie oltre dieci milioni di abitanti, tuttavia, la genuinità e le atmosfere evocate da Pamuk si sono perse. Lo spirito con cui gli abitanti di Chihangir si aiutavano a vicenda, sconfiggendo la solitudine, appare come un ricordo lontano. Le contraddizioni, il marasma e le fatiche nelle quali sono immersi i cittadini di Istanbul rappresentano lo specchio dei forti contrasti di una società intera. Una società in bilico tra la modernità e il passato.

Un microcosmo composito e frastagliato che Pamuk descrive a tinte forti nella trama di Neve, uno dei suoi romanzi più densi e toccanti. La speranza di un rinnovamento rapido ed efficace, e le resistenze di una cultura inamovibile da decenni, si scontrano in una piccola realtà turca distante dai centri del potere. Una realtà che non è illuminata dalle luci della ribalta di Ankara e dagli scenari indimenticabili offerti dalle atmosfere del Bosforo. A Kars, piccola città di confine tra la Turchia, l’Armenia e la Georgia, la vita scorre lenta e pigra. Tutto appare immutato da secoli. I costumi sociali sono fermi nel tempo. Sono sempre uguali a se stessi e assicurano alla comunità la continuità necessaria per andare avanti. Essi la preservano dalle influenze esterne, proteggendola dagli inesorabili cambiamenti che irrompono anche nei luoghi più arcaici. Ogni evoluzione è vista con sospetto, criticata e osteggiata. Il protagonista del libro è il giovane poeta Ka. Si è trasferito in Europa come capita tuttora a molti suoi connazionali. Vi ha cercato la fortuna inseguita da sempre e il benessere accarezzato nei suoi sogni. Vive in Germania da molti anni in virtù del suo status di esule. È cresciuto a Istanbul nel quartiere di Nisantasi. Ha studiato la letteratura occidentale familiarizzando con argomenti e visioni inedite di cui non aveva mai avuto sentore. Viene inviato a Kars da una rivista europea per redigere un reportage sugli strani eventi che hanno luogo nei vicoli sconosciuti del paese oramai da parecchi mesi. Eventi che colpiscono l’immaginazione occidentale per la loro crudezza e per la vena polemica che intendono sollevare. Il contesto sociale e politico di Kars è percorso dal sangue e dall’ingovernabilità. Un dato è certo. Una volta ritornato nel suo ambiente d’origine Ka recupera le emozioni toccanti che hanno segnato il suo passato. Attraverso le sue impressioni stupite e preoccupate Pamuk inquadra una situazione nella quale si agitano tendenze di varia natura. Tendenze ed umori che, di fatto, appaiono inconciliabili. Il paese è sconvolto da una serie di suicidi ripetuti e sistematici. Donne giovani si uccidono pur di difendere la loro integrità religiosa. La morte è la loro unica forma di protesta contro le nuove norme varate dalle autorità centrali turche che le obbligano ad accettare gli stili di vita in vigore nei paesi ricchi.

In realtà, è il confronto con l’Occidente, tema centrale dell’intero romanzo, ad inquietare una società gelosa delle sue prerogative ed incapace di aprirsi all’esterno. Il “mondo di fuori”, la civiltà dei consumi evoluta e libera, rappresenta un pericolo da disinnescare e rendere innocuo. Le sue attrazioni e le sue terribili seduzioni non devono varcare i confini che delimitano il territorio di Kars. All’Occidente non è consentito corrompere un universo immutabile che non vuole lasciarsi comprare. Pamuk, nella trama intricata di Neve, mette in risalto il rapporto spesso conflittuale tra la religione islamica e quella cristiana. Un rapporto che, in particolare, dovrebbe costituire la base di nuove alleanze politiche e commerciali tra l’Europa e la Turchia. Il suo contributo rappresenta uno spaccato culturale che aiuta le élites turche e la burocrazia di Bruxelles impegnate nel tentativo di stringere un dialogo fruttuoso. L’analisi politica contenuta nelle pagine del romanzo è stata una delle cause che hanno determinato l’assegnazione del Nobel allo scrittore turco.

Il testo di Neve, redatto tra l’aprile del 1999 e il dicembre del 2001, anticipa gli attacchi che si consumano senza sosta e vie d’uscita dal fatidico settembre del 2001. Rappresenta un avvertimento da non sottovalutare. La recrudescenza della violenza fisica e verbale e la crisi che ha investito i legami millenari tra il Cristianesimo e l’Islam, costituiscono uno degli elementi principali che caratterizzano la stesura del libro. Un romanzo con un evidente respiro politico in cui confluiscono le recriminazioni e i desideri di rivalsa di una religione che si sente sotto assedio. Una religione che intende reagire, nei suoi settori più agguerriti e accecati dall’odio, con la forza delle armi.  

Contro lo scontro delle civiltà
Il tema dell’identità turca, difesa oltre ogni limite, riecheggia anche nel romanzo La nuova vita, pubblicato nel 1995. Si è trattato di un successo immediato capace di raccogliere un vasto consenso in Turchia e in tutta l’Europa. Di fatto, il libro valica i confini del paese ottomano. Riesce a parlare ai lettori occidentali ai quali suggerisce una chiave con cui interpretare i fenomeni sociali e culturali che si verificano nelle province orientali. Al tempo stesso, è in grado di comunicare ai turchi un modo inedito di considerare e di studiare il loro paese. Un paese con cui i protagonisti creati da Pamuk familiarizzano attraverso un lungo viaggio fino alle radici della coscienza e della storia. Un viaggio al quale Osman e la bella Canan danno vita per rintracciare Mehmet, un ragazzo scomparso da molto tempo di cui Canan è innamorata. Il loro itinerario per le contrade e i villaggi di una Turchia sconosciuta e misteriosa è determinato dalla lettura di un libro magico che ha cambiato la loro esistenza. Tramite il percorso riescono a captare lo spirito profondo e impercettibile del loro popolo. Un popolo a metà strada tra lo sviluppo e la depressione, desideroso di coltivare relazioni promettenti con il resto del pianeta ma bloccato dalle resistenze di un retaggio antico. Un retaggio che affonda le sue radici in una tradizione dura a cambiare.

I viandanti che si avventurano, insieme a Osman e a Canan, per le strade dissestate del loro paese esprimono un passaggio epocale che attraversa tutto l’universo islamico. Dalla netta chiusura agli stili di vita dell’Ovest si è passati ad un confronto difficile e doloroso. Il nodo centrale è che l’identità turca e islamica viene messa ancora una volta in pericolo dalla penna attenta e rigorosa del neo premio Nobel. Un rigore con il quale Pamuk continua ad indagare gli scenari del prossimo futuro mettendo in evidenza i possibili legami con l’Occidente, le controversie e gli aspetti ancora irrisolti. Dopo tanti giorni di viaggio i due ragazzi arrivano nella dimora del dottor Narin, collocata in un villaggio indecifrabile aggrappato ad un contesto politico e sociale immodificabile. L’incontro con il notabile del luogo apre loro gli occhi. Hanno l’occasione di capire quali potranno essere le prospettive di un dialogo appena abbozzato tra l’Ovest e l’Est della Terra. Prospettive che, allo stato attuale, nascondono parecchie insidie e punti critici. «Gli oggetti si interrogano a vicenda – spiega ai due ragazzi il dottor Narin – si mettono d’accordo, si parlano sottovoce e stabiliscono una segreta armonia tra loro componendo una musica che noi chiamiamo mondo». È questa, in fondo, l’intuizione più significativa che segna in modo forte e chiaro il messaggio proposto ne La nuova vita. Un messaggio fondato sulla pace con cui superare le inimicizie e le contrapposizioni. Una speranza irrinunciabile che gli intellettuali e gli uomini di Stato coltivano conseguendo risultati contraddittori. Una speranza che assume le sembianze della visione, o forse soltanto dell’illusione, di far convivere esigenze diverse e religioni che si contrastano da sempre. L’interpretazione dell’opera, tuttavia, può prestarsi a meditazioni ancor più singolari. «Credo che oramai sia sterile parlare di Occidente e Oriente – dichiara ancora Pamuk a Il Giornale – mi hanno definito un antiamericano. Non lo sono, anche se la trama de La vita nuova può farlo credere. Viviamo all’interno di culture ibride. Mi piace la semplicità con cui si mescolano i cibi di McDonald’s con quelli tipici del mio paese, le folle dei concerti rock e gli strumenti etnici, il matrimonio classico e la pornografia».

Gli insegnamenti di Pamuk sono molto lontani dal ricorso alla prepotenza come strumento per affermare le proprie idee. La penna dello scrittore turco, infatti, è stata ispirata dalla volontà di alimentare il confronto paritario tra saperi che per molti secoli si sono misurati sul terreno della rivalità culturale. In alcune opere l’apprensione che serpeggia ai giorni nostri ha lasciato il posto ad un’osmosi tra percezioni e modi di pensare spesso in antitesi. Percezioni e modelli di riferimento che hanno costruito, nel corso dei millenni che ci sono alle spalle, un insieme di contatti fecondo e ricco di stimoli positivi. L’esempio di questo confronto incessante prende corpo nel racconto Il castello bianco, pubblicato nel 1985, un’opera alla quale è stato assegnato il premio Indipendent Award Foreign Fiction nel 1990. Si tratta di una storia ambientata in un’epoca remota nella quale il rapporto tra le religioni monoteiste si fondava su una competizione stringente tra conoscenze antitetiche. Conoscenze che, però, potevano trovare delle connessioni cercando anche una sintesi plausibile.

Siamo, pertanto, nel 1600. La lotta per la supremazia militare e politica tra l’Islam e il Cristianesimo attraversa una fase delicata. Si ripetono, con regolarità incessante, le battaglie e gli agguati. Si verificano in continuazione scontri con i quali imporre la propria religione ai nemici. D’altra parte, l’avanzata degli arabi nel cuore pulsante dell’Europa cattolica aveva raggiunto, due secoli prima, la sua massima estensione con la conquista di buona parte della Spagna. Tutta la regione andalusa era stata sottoposta al dominio dei fedeli di Maometto. Gli echi di quell’avanzata inarrestabile continuavano ad impressionare gli europei che temevano le capacità militari degli arabi. Capacità militari che si coniugavano con una preparazione scientifica e culturale di altissimo livello. I due protagonisti ai quali Pamuk dà vita nelle pagine del libro sono permeati della forza morale e delle conoscenze scientifiche che rispecchiano le rispettive tradizioni culturali dalle quali provengono.

Un veneziano e un turco si conoscono loro malgrado. Il veneziano è un ventenne, erede di una delle famiglie più in vista della sua città. È colto, curioso, interessato a scoprire nuovi ambiti della conoscenza con i quali mettere alla prova le sue qualità. Le sue passioni sono la matematica e l’astrologia. Il turco, invece, è un astrologo di professione. Le sue ricerche lo conducono a diventare uno degli esperti più apprezzati e conosciuti della corte del sultano Maometto IV, alla guida del suo regno dal 1648 al 1687. Durante una spedizione pericolosa da Venezia a Napoli, le navi sulle quali viaggia il giovane scienziato italiano vengono individuate dai turchi. Lo scontro è ineludibile. Le imbarcazioni ottomane, molto più numerose di quelle dei loro avversari, circondano le navi cristiane che soccombono inesorabilmente. La descrizione dell’agguato non lascia dubbi. L’atmosfera dello scontro è terribile. È da qui, dalla rappresentazione di uno dei tanti “duelli” tra i cristiani e i saraceni, che inizia il legame sempre più forte tra i due uomini di scienza. Uomini figli di realtà sociali ed economiche in lotta tra di loro. Pamuk fa parlare i protagonisti del libro ponendoli l’uno di fronte all’altro. Le somiglianze che li uniscono abbattono le diverse attitudini frutto della loro formazione religiosa. Il cristiano e il turco sembrano specchiarsi l’uno nell’altro dando l’impressione di essere come due fratelli gemelli. Il legame che li unisce indica una convergenza d’intenti tra gli eredi dei due grandi Libri di fede. Appaiono via via come due gocce d’acqua. La loro somiglianza è così pronunciata che essi si confondono fino ad invertire le parti che in origine sono state assegnate loro. Ma un dato è inconfutabile. L’opera incarna un contraddittorio sistematico tra due sensibilità completamente distinte. L’intuizione che ha guidato Pamuk nella stesura del volume è stata quella di mettere sullo stesso piano i due attori lasciandoli discutere apertamente. Il tratto essenziale intorno al quale si muovono tutti i fili della narrazione è costituito dalla possibilità di far conversare in modo schietto e libero i due uomini di cultura. Ma non solo. I personaggi sembrano inseriti in un contesto sociale ben definito. Devono rispondere di ogni loro gesto e di ogni loro scoperta. Il sultano li fa controllare costantemente e li considera al suo pieno ed unico servizio. Gli avvenimenti storici e politici li coinvolgono fino a condizionarne le esigenze e le aspettative più profonde. Eppure essi vivono in un mondo sganciato da qualunque tentazione esterna. Le loro indagini li allontanano dalle tensioni e dalle questioni quotidiane. Le loro conquiste sono il prodotto di una maturazione personale e rappresentano la conclusione, spesso fortunata, di un percorso autonomo da ogni vincolo sociale e politico. L’obiettivo principale del premio Nobel, insomma, è stato quello di creare un mondo parallelo nel quale i due maestri potessero esprimere le loro qualità e le loro illuminazioni senza essere legati agli obblighi di corte. Il suo intento è stato quello di chiuderli in una stanza solitaria per vedere cosa erano in grado di realizzare. Il quadro in cui sono inseriti costituisce esclusivamente lo sfondo che definisce il loro rapporto di collaborazione e di lavoro. «Nel mio disegno – ricorda Pamuk –li contrapponevo in una stanza, a faccia a faccia, nella città di tenebre. Tali relazioni psicologiche e tale tensione instauratesi tra i due divennero improvvisamente il perno del mio racconto».

La Turchia guarda all’Europa con timore paventando il rischio che l’incontro corrisponda alla perdita delle sue peculiarità secolari. L’Europa osserva le evoluzioni turche attendendosi dei passi in avanti sulla strada dei diritti umani e del rispetto delle convenzioni internazionali. Pamuk, in tutti i suoi lavori, mette in rilievo i punti di convergenza tra le due sponde. Nel corso della sua attività ha intensificato il suo impegno. È passato dalla trattazione di temi letterari all’esame politico dei problemi che affliggono il suo paese. Ha sollevato questioni intoccabili. Ha dichiarato la sua opinione sui “buchi neri” della recente storia turca. La sua ansia di comprendere e di spiegare ai suoi connazionali gli errori commessi nel passato sono costate accuse, lamentele e processi. Ha scritto pagine memorabili e struggenti aggrappato al principio che la Turchia deve aprirsi al mondo. Ha affrontato di petto le ragioni della violenza mettendo in luce un clima torbido in cui l’odio religioso sembra estendersi fino ad ottenebrare le coscienze. Il suo insegnamento può essere recuperato anche nei romanzi che hanno segnato l’esordio. Opere che rappresentano, con particolare evidenza, la sua propensione all’analisi di un microcosmo indecifrabile. Nero, ad esempio, la voce narrante de Il mio nome è rosso, ci riporta in un contesto carico di suggestioni. Nell’atmosfera nebulosa di una Istanbul immersa nel freddo inverno del 1591, egli cerca la verità inseguendola nel territorio accidentato dell’arte e del disegno. Una verità che si insinua nel talento di quattro miniaturisti alle dipendenze del sultano che desiderano interpretare il bello secondo la loro indole e le loro emozioni. La loro ansia di conoscenza li divide dalla retta via. Il loro compito, infatti, è quello di dipingere con gli “occhi di Allah” cercando di mettere in scena la bellezza del creato. Un compito che disattendono consapevolmente. Si lasciano condizionare dalle loro intuizioni, dalle intuizioni piccole e trascurabili degli uomini. Sono colpevoli. Hanno tradito i precetti del Corano. Alla luce di queste accuse, la ricerca del senso della vita assorbe tutte le energie di Nero.

Allo stesso modo, anche il suo autore, Orhan Pamuk, nell’incessante desiderio di costruire dei legami duraturi tra l’Est e l’Ovest del mondo, si sforza di fare luce sulla verità. Egli parla ai suoi connazionali e a tutti gli uomini liberi. Il messaggio, in fondo, rappresenta una sfida per tutti noi. Da molti anni, oramai, «viviamo all’interno di culture ibride». Culture che devono accogliersi sulla base della reciprocità e della condivisione. È bene che, anche coloro che hanno dichiarato guerra all’Occidente, se ne rendano conto una volta per tutte.

 

 

Carlo Roma, giornalista

(c) Ideazione.com (2006)
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