Finalmente Bucarest. Viaggio al confine d'Oriente
di Pierluigi Mennitti
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Inutile descrivere il gate d’ingresso dell’aeroporto di Bucarest Otopeni, l’accesso asettico – moquettes e insegne luminose – utilizzato dai manager, simile ai gates di tutti gli aeroporti del mondo. È il confine terrestre il luogo migliore per misurare i cambiamenti della Romania. La dogana di Bors-Oradea, al chilometro 450 della superstrada che collega Budapest a Cluj Napoca, il capoluogo della Transilvania. Estremo occidentale della Romania: preannunciata dai camion che accostano sul ciglio destro della strada, si distende una lunga striscia orizzontale di casette di lamiera, strette in fila una accanto all’altra e sormontate da un tetto goffo e tronfio sotto il quale si gela d’inverno e si soffoca d’estate. E poi sbarre, garritte, cartelli nell’incomprensibile lingua ungherese e in rumeno e in inglese. Tutta questa roba è destinata a sparire, tra qualche anno. Archeologia stradale. Cartelli, casupole, garritte, lamiere: tutto via, anche se la retorica europeista non è più quella di un decennio fa e magari il materiale di risulta non sarà riciclato, verrà custodito in qualche capannone, non si sa mai, un giorno dovessero tornare i confini e le divisioni.

Per il momento, però, questo è ancora un confine, e di quelli seri. Di qui l’Europa già ufficiale, l’Ungheria dei bagni termali e delle shopping mall, i tir e le auto con la targa bianca e azzurra dell’Unione, le divise linde e stirate dei doganieri di Budapest, con lo sguardo intermittente, ora accigliato, ora indulgente. Indulgente con gli “occidentali”, categoria alla quale ci si iscrive con il cuore e la cultura, fino a che una pergamena europea non viene a certificare chi è diventato occidentale e chi deve attendere ancora un po’, come accadde in quell’autunno del 2002, quando il gruppone dei dodici nuovi aspiranti membri venne spezzato, dieci di qua e due di là, in purgatorio ancora per un po’. E di là rimasero gli Stati dei Balcani, la Romania e la Bulgaria. E allora, verso chi attende ancora un po’, in questo caso i rumeni, i doganieri mostrano il volto accigliato. Si indugia sui passaporti, si scartocciano i documenti dell’auto, si squadrano le foto tessera, si indaga, si giudica, si sbircia nei bagagli rubando attimi di intimità, qua un paio di calzini, là mutande di ricambio, libri e fumetti, e dove ha comprato quello stereo impacchettato lì sotto, gustando con sadismo i momenti di panico che avvolgono qualsiasi viaggiatore di fronte a qualsiasi autorità, che in quell’istante, se vuole, può trovare un qualsiasi cavillo per non timbrare il passaporto e rispedirti indietro.

Bene, di anno in anno, e negli ultimi tempi di mese in mese, queste scene si fanno più rare. Le file di auto, tir, camioncini, autobus e minivagon, carretti e motociclette, scivolano via lungo le maglie di questa dogana con più rapidità. I controlli sono più veloci, le ispezioni meno approfondite, le procedure più standardizzate. I doganieri meno cavillosi. I passeggeri più preparati. Le lamiere ingombrano sempre il passaggio e il paesaggio, ma l’attesa è divenuta meno caotica, le file più ordinate. Sembrano scomparsi pure i furbi, che sgommavano a destra e a sinistra con lo scopo di guadagnare posti e minuti a spese degli altri. Da queste parti si dice che la frontiera è diventata più europea, conservando il mito dell’Europa che porta ordine, efficenza e certezze. Un mito che resiste in zone dove l’incertezza, il disordine e il caos sono la regola.

Il ventisettesimo paese dell’Unione Europea
È da Borsc, dunque, che partiamo alla scoperta della Romania, ventisettesimo paese a entrare nell’Unione Europea. Ufficialmente è accaduto alla mezzanotte del primo gennaio, anno di grazia 2007. Le campane sono risuonate in tutte le vallate del paese, dal Banato al Mar Nero, dai monasteri della Bucovina alle piane della Valacchia e giù lungo tutti i paesi e le città che si affacciano sul Danubio, il fiume europeo per eccellenza che conclude – martoriato e inquinato – proprio in territorio rumeno il suo lungo viaggio continentale. A Bucarest hanno sparato i fuochi d’artificio, replicando due anni e mezzo dopo la festa che si era svolta a Riga, a Tallin, a Varsavia e nelle altre capitali dell’Est. Questa volta però, nell’Unione dei venticinque, c’era più preoccupazione che gioia, più fastidio che entusiasmo. Capita sempre ai brutti anatroccoli: arrivare quando gli altri vorrebbero già sprangare la porta. E la Romania sembra apparentemente raffigurare il brutto anatroccolo dell’Europa. Eppure le cose non stanno proprio così. Questo reportage prova a raccontare un paese diverso, sia rispetto agli stereotipi che girano a buon mercato in Europa, sia rispetto alle cifre, alle carte, ai faldoni, ai dossier burocratici che rapportano la Romania sempre a qualcos’altro, mai a se stessa. Invece qui la descriveremo per quella che è, meglio, per come si mostra, consumando pneumatici sulla lingua d’asfalto che s’infila nei boschi della Transilvania, s’inerpica sulle pietraie della Bucovina, si tuffa nei fumi malefici di città industriali della Moldavia meridionale o nelle campagne senza tempo dell’Est, si stempera negli sterrati infiniti del delta del Danubio, si attorciglia nella mondanità dei nuovi ricchi di Mamaia e Costanza e si conclude al termine della notte di Bucarest, nelle contraddizioni della metropoli violentata da Ceausescu, tra restauri faraonici, nuovi centri commerciali, scalcinati casermoni periferici, caffè e night alla moda, studenti bohémien alla ricerca della modernità e bimbi abbandonati alla ricerca di un tubo di scappamento al quale agganciare la propria infanzia bruciata. Drum brun, buon viaggio verso il nuovo confine orientale dell’Europa.

Industria e servizi, la Romania che è già in Europa
Passata la frontiera occidentale, l’impatto è sempre il solito: un salto indietro negli anni, verso il nostro passato, con i ricordi d’infanzia che, come un miraggio, tornano a farsi concreti. Solo che, di anno in anno, il tempo si accorcia. Rispetto a dodici mesi fa, la strada che collega il confine a Oradea, assieme a Timisoara centro vitale del Banato e capoluogo di quella che fu, negli anni della delocalizzazione italiana, l’ottava provincia veneta, è più larga e più confortevole. Manca ancora la segnaletica orizzontale, per cui ogni automobilista cerca da sé, e non sempre con successo, la giusta posizione sulla carreggiata, ma l’asfalto è finalmente di buona qualità e quando piove riesce ad assorbire l’acqua. Ora la manutenzione delle strade è stata affidata a una ditta italiana, ci dice il nostro accompagnatore, e finalmente ci si sposta con comodità. Suona strano, ma fa piacere, essere additati a simbolo di efficienza. Le fabbriche si susseguono una accanto all’altra in questa area che, data la prossimità del confine, è sempre stata una delle più industrializzate del paese. La differenza è che le aziende più piccole sono state tutte riconvertite, molte palazzine sono nuove, colpi di vernice hanno restituito loro un aspetto moderno e funzionale: si tratta soprattutto di aziende italiane, tedesche o austriache. I mastodontici mostri industriali dell’epoca del comunismo, invece, marciscono nel tempo, corrosi dalla ruggine, aggrediti dalle piante selvatiche. Produzioni ormai fuori mercato che non hanno retto il salto alla nuova economia e che difficilmente resisteranno, neppure come monumenti di un’altra epoca economica, al lavorìo del tempo e delle intemperie. Oltrepassiamo Oradea, l’italiana Oradea, la veneta Oradea, dove le pizzerie superano ormai le taverne locali e cresce dinamica una nuova popolazione mista, cosmopolita, fatta di imprenditori venuti da lontano, lavoratori cresciuti a salario ridotto ma a standard occidentali, affaristi, gente di ventura che si sente più europea che rumena. Se il paese ha una sua locomotiva economica, essa risiede qui, all’estremo occidente, tra Oradea e Timisoara, dove iniziò – e subito si corruppe – la rivoluzione del 1990 contro Ceausescu: qui si è compiuto il peccato originale di una rivolta telecomandata, qui la Romania post-comunista ha avviato il suo ambiguo percorso verso l’Europa, qui si gioca il futuro economico del paese.

Cluj Napoca, vista dalle colline circostanti, sembra una sonnacchiosa gattona raggomitolata dentro i suoi confini naturali. È l’ora del tramonto, la luce penetra obliqua e calda nei vicoli e nelle piazze smorzando i contrasti, la foschia estiva sfuma i contorni. Dall’alto si vedono i tetti rossi e spioventi, in parte rinnovati in parte no, le case dai colori pastello screpolate dall’incuria e dalla mancanza di soldi, i fili dell’elettricità che ancora collegano pali con case, case con strade, strade con piazze, piazze con case, disegnando una ragnatela fitta che sembra aver legato per sempre la città al suo passato. Si arrabbiano i rumeni se si fa notare loro che questa bella città di 300.000 abitanti, che una volta, quando era ungherese, si chiamava Kolozsvàr, ha impresse per sempre le stimmate ungheresi. Lo stampo è mitteleuropeo, l’atmosfera operosa. Ma qui il conflitto fra le due etnie è ancora fortissimo, anche se una forzata rumenizzazione, negli anni del regime, ha ridotto quella ungherese a una pur battagliera minoranza. Su queste frizioni lavora l’Unione Europea, anche se l’ex sindaco Funàr volle ribadire la rumenità (credo si dica così) del luogo pitturando pacchianamente del tricolore nazionale giallo-rosso-blu panchine e cestini della spazzatura di tutti i parchi. Leghismi balcanici a parte, Cluj è orgogliosa della sua università, che nei mesi accademici riempie aule e caffè di 80.000 fra professori e studenti divisi tra i libri e i boccali della locale birra Ursus, e delle sue piccole aziende del terziario, molte delle quali lavorano per multinazionali estere garantendo servizi di tipo informatico. Se si accenna alla politica, qui, in genere fanno spallucce. «La mafia di Bucarest» è il ritornello più facile da ascoltare, soprattutto prima quando governava la sinistra. Perché Cluj si sente un po’ come Milano rispetto a Roma, città pragmatica e di destra che vorrebbe lavorare e produrre senza troppe intromissioni.

È fin troppo banale descrivere la Romania come un paese di grandi contraddizioni. Quando la città sembra spalancarti le porte a una dimensione più moderna, europea, ecco che un tuffo in campagna ti riporta indietro di decenni. Ci si mette in moto verso il nord, per la zona dei Maramures e si sprofonda in una campagna tanto antica, quanto povera e feroce. Covoni di fieno, sterminate distese di girasoli, villaggi con le strade impolverate, attraversate da carretti trainati dai muli e guidati da vecchi e bambini. Vecchi, vecchie e bambini e assembramenti di oche che starnazzano felici nelle piazze e gruppi di gitani che vagano senza meta, sospesi nel tempo. Immagino che cinquant’anni fa, anche le campagne della mia Puglia dovevano assomigliare a qualcosa del genere. Qui, però, non c’è l’ombra di un’attività che possa strappare queste terre alla povertà e alla sussistenza. Meglio accordare i propri pensieri al vento che sibila indisturbato fra i campi e godersi questi momenti di pace assoluta.

Monti, violini e monasteri, la Romania separata
Prislop è un passo famoso nella geografia dei Maramures, i monti incontaminati della Romania del nord su cui hanno messo gli occhi i produttori di mobili di mezza europa: gli alberi secolari fanno gola, i camion carichi di legname si arrampicano sui tornanti sbuffando gasolio ad ogni curva, la speranza è che lo sfruttamento venga tenuto sotto controllo. Ma oggi è domenica, giorno di festa. Nei paeselli che incrociamo – squallidi caseggiati socialisti e splendide chiese ortodosse di legno – la gente è vestita a festa, con i costumi tradizionali. Lissù, sul passo, è il giorno del festival musicale che raduna gruppi da tutte le vallate. Arrivano a centinaia, giovani, giovanissimi, bambini, attempate vecchie glorie e star del folk locale. E migliaia sono gli spettatori che si assiepano lungo i pendii che scivolano verso l’immenso palco, formando un teatro naturale. Sembra l’happening della Lega a Pontida, solo che qui si fa musica, si balla, si scatenano violini e fisarmoniche e uno dopo l’altro, dall’alba al tramonto, si susseguono i gruppi folkloristici di tutta la Romania. È l’evento dell’estate, attorno è un susseguirsi di stand con oggetti locali, cd di contrabbando, cappelli, bambole in vestiti tradizionali, e vino e birra e salsicce e carne arrostita.

I grill funzionano a pieno regime. Gli ospiti pagano e mangiano e suonano e cantano appena il vino ha fatto il suo dovere. Da questa regione, nei primi anni Novanta, sono partiti in tanti verso l’Italia, alla ricerca di una vita migliore. E molti l’hanno trovata. Vivono da noi, lavorano, guadagnano e nei primi anni hanno cominciato a mandare i soldi a casa, ai parenti rimasti da queste parti: sulle rimesse dall’Italia è stato fondato quel po’ di benessere che si nota girando per i villaggi. Poi hanno cominciato a tornare anche loro, vacanzieri di ritorno nel mese di agosto. Sulle vie che portano al passo, decine di auto hanno la targa italiana. Sono loro, i rumeni-italiani. Da noi non fanno notizia, perché invece di rubare nelle ville sgobbano come matti nelle aziende del centro-nord. Vestono italiano, si comportano come italiani con quell’atteggiamento un po’ snobistico di chi all’estero ha imparato le buone maniere. Arrivano sul prato dove si svolge il festival in impeccabili abiti casual, nessuno veste gli sgargianti vestiti tradizionali. Uno viene da Torino, un’altra dalla provincia di Milano, una coppia più avanti lavora nelle Marche. Ma sono tantissimi e si godono questa giornata speciale, mentre i complessi che si alternano sul palco inondano la vallata di musiche gitane.

È un altro pezzo di Romania separata, lontana da Bucarest, dalle burocrazie centrali, dalla politica nazionale, dall’assillo dell’Europa. Qui, una fetta di popolazione in Europa c’è già: ci abita, ci lavora, ci guadagna. L’altra parte se ne frega e soprattutto, se pensa di andare di là, si rivolge al figlio, al marito, all’amico, senza passare dalla mediazione politica di Bucarest. In ogni villaggio c’è un minivagon pronto a passare legalmente il confine, in ogni città italiana c’è un parente disposto ad accogliere, seppure per qualche settimana. Specie adesso che l’Europa è diventata realtà. Sono i nuovi pendolari dell’Occidente.

Chi invece sembra proprio lontano da tentazioni mondane sono i monaci dei monasteri della Bucovina. I depliant di viaggio europei tentano vacanzieri avventurosi con immagini da cartolina e tour tutto compreso. In realtà non sono poi tanti ad addentrarsi fin quassù, a una manciata di chilometri dal confine con l’Ucraina. Così i monasteri custodiscono al loro interno l’atmosfera mistica che si conviene a luoghi così belli. Quelli rumeni sono famosi per le pitture che ne ornano le pareti esterne e interne: lavori iconografici preziosi e splendidi che enfatizzano la magnificenza del cristianesimo ortodosso. Sui bracieri crepitano steli di cera che i credenti accendono in continuazione, nelle chiese la devozione è profonda e personale. Il silenzio è ovunque. Nei giardini esterni i pope circolano filosofeggiando da un edificio all’altro. Sembra davvero di vivere in una cartolina ma in questa dimensione religiosa, il legame con l’Europa appare netto. Non c’è bisogno di faldoni e dossier per capire che siamo a casa: il ceppo ortodosso richiama la gamba orientale della tradizione cristiana e dunque, qualsiasi cosa ne pensino a proposito nella laicissima Bruxelles, della tradizione europea.

Pellicani, ecosistemi e auto di lusso, la Romania schizofrenica
A Murighiol non si sbatte per caso. Bisogna volerci arrivare. Bisogna oltrepassare la città di Tulcea, il capoluogo della regione del Delta, le sue banchine fluviali, i palazzoni in stile sovietico, i viali alberati e addentrarsi su sentieri di terriccio e sabbia nella terra di nessuno, sobbalzare sulle dune, sacrificare pneumatici e sospensioni e giungere, quando ormai si pensa di aver smarrito la strada, nello spiazzale polveroso dove emerge come un bungalov pretenzioso il caseggiato del Motel Pelikan. Più che un motel, sembra un accampamento di scienziati sperduto nella finis terrae d’Oriente, a ridosso di uno dei canali nei quali si frantuma il fiume d’Europa prima di morire nel Mar Nero. Il Delta è quello del Danubio, Delta Dunarii nella lingua originale, il punto finale di un percorso che attraversa il cuore dell’Europa centrale e orientale e ne racconta passioni, guerre, sangue, dolore, gioia, valzer, rivoluzioni, regimi e migrazioni. Senza il Delta, il Danubio non è completo, un po’ come l’Europa senza la Romania. Qui torniamo al solito discorso: la riunificazione parla di storia e sentimento. E di sentimento, qui, ce n’è a bizzeffe. La gente che abita queste terre fantastiche e desolate sembra davvero uscire da un altro mondo, pensa e vive secondo regole e ritmi scanditi da un rapporto con la natura fortissimo, vitale. I punti di riferimento sono il cielo, il sole, le stelle e gli uccelli, belli e rari, specie ormai uniche nel Continente, piante acquatiche e ninfee; i mezzi di trasporto le barche di legno sui canali, i carretti con i muli sulla terraferma; il cibo, pesce di fiume, zuppe o frittura, squisita la prima, un po’ insipida la seconda. Sembra una fiaba e invece siamo in una delle regioni più povere d’Europa.

Il turismo è ancora poco sviluppato ma c’è grande consapevolezza che dovrà essere un turismo di qualità, pena l’alterazione degli equilibri ecologici che governano il Delta. Ci sono i pellicani, che in Europa nidificano solo qui e i barcaioli li avvicinano con rispetto e circospezione, cercando di disturbare il meno possibile. C’è il sibilo del vento che batte sulle canne, uno dei principali prodotti d’esportazione, utilizzate per la costruzione dei tetti di paglia. L’altro sono le uova di storione, una sorta di caviale bianco saporito ma meno prelibato. Lungo i canali più piccoli che si intersecano ai tre bracci (bratul) principali si scivola silenziosi verso la grande foce sul Mar Nero, dove l’Europa trova il suo limes: al di là si aprono le vaste terre del Caucaso e dell’Asia centrale. A nord e a sud guardano invece i porti di Odessa e di Istanbul. Ucraina e Turchia: saranno loro gli ultimi bastioni del Vecchio Continente?

A Costanza lo sperano. L’antico porto rumeno ha ambizioni per il momento frustrate dall’arretratezza delle sue infrastrutture. Ma il futuro potrebbe riservare il ritorno agli antichi splendori di fine Ottocento: si spera negli investimenti di Bruxelles che potrebbe farne il suo terminale verso l’Oriente. Per il momento ci si accontenta del traffico marittimo ripreso, dopo il crollo dovuto alla fine dell’era del Comecon, quando tutto il commercio via nave del mondo socialista passava da qui. La statua di Ovidio squadra con sguardo austero la piazza del centro antico, sul promontorio sopra il porto, i minareti della moschea rimandano a cosmopolitismo e tolleranza, tracce di tempi passati.

La modernità, al presente, si declina nelle luci mondane di Mamaia, il centro balneare a nord di Costanza che attira il bel mondo rumeno di Bucarest. Nuovi ricchi, boiardi di Stato, trafficanti poco raccomandabili, boss dell’illegalità, politici alla ribalta, giovani rampolli della nascente borghesia: sono loro, con i loro fuoristrada roboanti o con le auto sportive lussuose a sfottere, qui e adesso, il tempo che si fugge e a respirare l’effimera ebbrezza della notorietà e della ricchezza. Non importa come conquistate. Da Murighiol e dai silenzi del Delta del Danubio ci separano solo poco più di un centinaio di chilometri, ma la distanza temporale non potrebbe essere maggiore. Lì l’ecosistema da salvaguardare, qui gli altoparlanti delle discoteche all’aperto che ritmano disco dance tutta la notte, fino all’alba, fino all’ultimo goccio di whisky. Starlette della tv, mini-dive delle soap opera balcaniche, grossi e grassi e sedicenti uomini d’affari consumano alcol, cocaina, denaro e briciole di notorietà nelle notti sfrenate estive a fianco di nutriti gruppi familiari arrivati a pensione completa nei grandi casermoni alberghieri a due stelle (e ugualmente costosi) del lungomare.

Potere e normalità, neo-ricchi e piccola borghesia convivono nello specchio di Mamaia, gli uni necessari agli altri, la solidità di una vita ordinaria e le stravaganze di chi gode della polvere di stelle che oggi gli si posa addosso e domani il vento porterà via. Niente di nuovo sul fronte orientale, solo il primo frammento del film sulla diseguaglianza che il capitalismo ha portato con la rivoluzione. La diseguaglianza c’era anche prima, ma era di regime e puzzava di povertà anche quella. Oggi almeno c’è la speranza, per chi vuole raggiungere la sfera luccicante della fama, di potercela fare con le proprie risorse senza per forza dover percorrere la carriera di un ossequioso e grigio funzionario del comunismo più feroce, quale fu quello di Ceausescu.

Le mosche della capitale, la Romania europea di Bucarest
Le speranze di Bucarest possono essere raccontate da molti luoghi. Ci sono le facoltà universitarie e i caffé bohemién con gli studenti vestiti come occidentali qualsiasi. Ci sono i nuovi magazzini dove ogni giorno si gira il nuovo film del consumismo. C’è il quartiere politico, dove le lotte e le rivalità sono state messe da parte per l’obiettivo di centrare l’ingresso in Europa, un sorprendente sforzo bipartisan che ha superato le divisioni privilegiando interesse e orgoglio nazionale. Ci sono le periferie senz’anima e senza identità dove i fantasmi dell’urbanizzazione forzata voluta da Ceausescu consumano un’esistenza di stenti illudendosi che Bruxelles porti una qualche svolta anche nella loro vita. Noi abbiamo scelto una via del centro, Calea Victoriei.

Un album fotografico ne rimbalza immagini dei primi del Novecento. Palazzi signorili, negozi eleganti, borghesi a passeggio, cilindro in testa e dame acconciate all’ultima moda al braccio. Erano gli anni della Bucarest inserita a pieno titolo nel costume e nella cultura europea. I professori universitari pendolavano tra la Romania e la Sorbona, il legame con la Francia si rafforzava nell’abbraccio latino. È molto frequente ritrovare nelle librerie di antiquariato, in vendita a pochi lei (la moneta in corso), dotti saggi sulla politica e sull’economia scritti da professori rumeni in lingua francese. Calea Victorei era una sorta di via Condotti, vetrina centrale di quella che allora si chiamava la Piccola Parigi, il quartiere alto borghese e alla moda di Bucarest.

Oggi Calea Victoriei prova a riprendersi la scena cittadina, cercando di riesumare l’eleganza del passato e di restituire alla capitale un angolo di raffinatezza, diverso anche da ciò che sembra incarnare la modernità contemporanea, fast food e shopping mall. L’Europa non è una polpetta arrostita affogata di salse colorate. Ma la realtà mostra i segni degli anni trascorsi e delle esperienze vissute. I palazzi signorili si contano sulla punta delle dita, la furia distruttrice di Ceausescu è arrivata anche qui: il dittatore volle distruggere le atmosfere borghesi del centro storico di Bucarest. Giù i palazzi della decadenza, su orribili casermoni prefabbricati che avrebbero dovuto raccontare la grandezza dei tempi nuovi. Era megalomania, come dimostra il palazzone del Parlamento, il cubo di cemento divenuto suo malgrado simbolo della città le cui spese di manutenzione rischiano ogni anno di gettare sul lastrico la comunità di Bucarest. I negozi eleganti, però, stanno tornando, a Calea Victorei. Qualche teatro d’avanguardia. I caffè. I musei. La galleria del Pasajul con i suoi ristoranti etnici. E uno “struscio” di qualità. Se gli ampi boulevard rimandano a immagini balcaniche, Calea Victorei riporta, seppure per alcune centinaia di metri, Bucarest nel cuore della Vecchia Europa. Là da dove viene. E dove vuole tornare.

Il percorso della Romania verso l’integrazione nell’Unione Europea è stato lungo e faticoso, giocato più sulla rilevanza politica del paese che sui reali progressi dimostrati nel rispettare i criteri economico-sociali di Bruxelles. I dossier sono stati completati con lentezza, spesso alle riforme sulla carta rispondeva una sostanziale incapacità della macchina amministrativa a mettere in pratica e far rispettare le nuove regole. Sul piano internazionale, invece, la Romania ha giocato con sapienza le proprie carte: è entrata alcuni anni fa nella Nato e ne rappresenta una forza di tutto rispetto, tra le più leali nell’area di quello che durante la guerra fredda fu il Patto di Varsavia. La sua posizione in politica estera è schiettamente filo-occidentale, innegabile è la sua funzione di stabilità anche rispetto alla turbolenta area balcanica: sul piano strategico militare, l’asse Bucarest-Atene-Ankara rappresenta la spina dorsale della sicurezza nell’Europa sud-orientale. Ma il rilevante ruolo geopolitico non deve sottostimare lo sforzo compiuto dalla politica e dalla burocrazia nel riformare in senso democratico le istituzioni civili, politiche ed economiche. Il punto di partenza era drammatico, forse in nessun altro paese dell’Europa orientale il sistema di potere era tanto rigido quanto personale: il politologo Juan J. Linz, che ha studiato le transizioni dei paesi che gravitavano nell’orbita sovietica, assegna al regime di Ceausescu caratteristiche riscontrabili solo nei sultanati. Il massimo dell’arbitrio concentrato in una sola persona e distribuito nell’ambito di una ristretta cerchia di famigli e lacchè. Qualche rimorso dovremmo averlo anche noi, che abbiamo scambiato l’indipendenza da Mosca del Conducator per vicinanza all’Occidente e lo abbiamo blandito, coccolato, in qualche caso aiutato. Il nuovo potere, gattopardescamente nato da un golpe che ha strumentalizzato una rivoluzione appassionata e anarchica, ha poi trovato la chiave giusta per riformare se stesso e poi il paese. Con fatica, lasciando ancora zone oscure, senza aver debellato il cancro della corruzione, si è passati da una democratura a una democrazia. Molto resta ancora da fare ma l’Europa può essere lo stimolo giusto.



Pierluigi Mennitti, direttore di Ideazione

(c) Ideazione.com (2006)
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