Parte la corsa alle Presidenziali 2008
intervista a Maurizio Molinari di Alessandro Gisotti
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Le partita per le presidenziali americane si giocherà al centro. Le elezioni di mezzo termine dello scorso novembre hanno dimostrato chiaramente che i voti decisivi per conquistare la Casa Bianca vanno cercati tra indipendenti e moderati.
Con la vittoria dei Democratici, dunque, gli Stati Uniti non hanno svoltato a sinistra come hanno suggerito in molti da questa parte dell’Atlantico, ma si sono piuttosto riposizionati su quel vital centre che da sempre è l’ago della bilancia della politica americana. Un dato che sembra confermato dai nomi dei probabili candidati alla presidenza, soprattutto in area repubblicana.
Per comprendere il vero significato delle elezioni parlamentari di due mesi fa e i suoi riflessi sull’amministrazione Bush e sulle presidenziali del 2008, abbiamo intervistato Maurizio Molinari, corrispondente da New York del quotidiano La Stampa.

Guardando i numeri, le elezioni di mezzo termine sono state innegabilmente vinte dai Democratici. Politicamente, invece, si può dire che sono stati piuttosto i Repubblicani a perderle?
A vincere sono stati i Democratici riuscendo ad intercettare i voti moderati, centristi e, in alcuni casi, anche conservatori in fuga dai Repubblicani a causa della sovrapposizione di tre fattori: scandali etici, eccessivo spostamento a destra sui valori tradizionali e insuccesso nella stabilizzazione dell’Iraq.
I motivi della sconfitta chiamano in causa la leadership repubblicana e la Casa Bianca. I leader repubblicani non sono stati capaci di punire gli scandali etici, finanziari e sessuali in maniera talmente inequivocabile da rassicurare la base elettorale ed hanno inoltre commesso l’errore di promuovere, o sostenere, referendum ultraconservatori che l’elettorato moderato non ha gradito, come nel caso di quello anti-aborto in South Carolina o anti-nozze gay in Arizona. La responsabilità della Casa Bianca è di aver continuato a difendere la gestione delle operazioni militari in Iraq ignorando la richiesta di “successo” da parte della grande maggioranza dell’opinione pubblica. Sono stati errori decisivi ma a contare tatticamente di più è stata l’abilità dei Democratici di confezionare una campagna su due fronti. Primo: focus sull’offensiva anti-Bush per cavalcare la volontà di novità politiche che da sempre distingue l’elettorato, soprattutto se reduce da dodici anni di pressoché totale controllo del Congresso da parte di un singolo partito. Secondo: affidarsi a candidati moderati capaci di conquistare i voti repubblicani in fuga.

Infatti, per vincere, il partito dell’Asinello ha schierato proprio candidati moderati, che sono riusciti a strappare al gop collegi tradizionalmente conservatori, basti pensare alla vittoria in Pennsylvania dell’anti-abortista Bob Casey contro il social conservative Rick Santorum. È la rivincita del centro?
Nel 2004 George W. Bush vinse le elezioni grazie all’Ohio, strappato a John Kerry per soli 80.000 voti di differenza. In novembre i Democratici hanno conquistato la Camera dei Rappresentanti per 77.661 voti in più, distribuiti nei singoli collegi. Nel caso del Senato la differenza è stata ancora più esigua. L’America resta, dal novembre 2000, un paese spaccato a metà dove si vince conquistando i voti degli indecisi e degli indipendenti, che nella grande maggior parte dei casi sono moderati, hanno a cuore la sicurezza nazionale e decidono per chi votare nelle ultime 72 ore.

Molti intellettuali conservatori hanno detto e scritto che le elezioni di mezzo termine sono andate male perché il partito e soprattutto l’amministrazione repubblicana hanno dimenticato i principi del conservatorismo, quelli per intenderci incarnati da Ronald Reagan. Come si sta sviluppando il confronto all’interno del campo repubblicano?
La difficoltà per i Repubblicani è tenere assieme la coalizione uscita dalle urne nel 2004: ceti medi, aree rurali, minoranze etniche e destra evangelica. Se i ceti medi e le minoranze etniche, soprattutto nei grandi centri urbani, chiedono politiche moderate, dalle aree rurali e dalla destra cristiana viene una ventata di conservatorismo che spinge su posizioni sempre più estreme, come ad esempio nel rifiuto della ricerca sulle cellule staminali. È un equilibrio che fino a novembre 2006 si teneva sul prestigio di Bush nel garantire la sicurezza nazionale, ma la percezione di fallimenti militari in Iraq lo ha indebolito ed i Repubblicani hanno pagato le conseguenze. Per tenere assieme la coalizione repubblicana e conservare la Casa Bianca nel 2008 i Repubblicani avranno bisogno di un Bush ad alto profilo sulla sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo nei prossimi due anni. Ciò lascia supporre iniziative su Iran, Siria e Nord Corea.

Nel partito Democratico la linea moderata, nella scelta dei candidati, di Rahm Emanuel e Chuck Schumer, si è dimostrata vincente. Eppure la sinistra radicale, raccolta attorno ad Howard Dean e al movimento MoveOn.org, è ancora molto forte. Chi detterà la politica democratica in questi due anni che precedono le presidenziali?
Sarà un duello fra due donne. Nancy Pelosi, neopresidente della Camera dei Rappresentanti, è il volto dell’anima liberal del partito, mentre Hillary Clinton, rieletta senatore di New York, è il punto di riferimento di moderati e centristi. Sarà uno scontro a tutto campo, giocato sul terreno del pragmatismo da entrambe, perché entrambe condividono la priorità di far vincere ai Democratici la Casa Bianca nel 2008. Non si può escludere che il braccio ferro si giocherà sulla nomina del candidato presidente.

Veniamo ai risvolti delle elezioni sulla presidenza. C’è chi parla di un Bush ridotto ormai ad “anatra zoppa”. Altri, invece, fanno notare che da governatore del Texas, Bush riuscì a lavorare proficuamente con l’opposizione che deteneva il controllo del parlamento statale. Quali sono gli spazi di manovra del presidente?
Da un punto di vista istituzionale ne ha molti, grazie all’equilibro fra i poteri che distingue il sistema americano, ma politicamente è tutt’altra cosa: rischia di vedere la propria amministrazione messa sotto indagine da audizioni a raffica indette dalle commissioni democratiche, tanto alla Camera che al Senato. Si tratta di una spina nel fianco che potrebbe obbligare il presidente a spendere energie e tempo nella difesa a Capitol Hill, a detrimento della capacità di gestire l’amministrazione in maniera utile per i Repubblicani e per come il suo governo sarà ricordato dagli americani.

Per quanto riguarda l’Iraq, e quindi più ampiamente la politica estera, Time ha titolato: “Il ritorno dei realisti”. Il cambio alla guida del Pentagono e il riaffacciarsi sulla scena dei consiglieri di Bush padre sembrerebbero dimostrarlo. I neoconservatori sono, dunque, al tramonto?
I neoconservatori hanno colto la loro ultima vittoria con il discorso che fece Bush al giuramento a Washington dopo la rielezione, quando si disse a favore di una rivoluzione democratica globale contro i rimanenti dittatori del pianeta. Ma da allora i motivi di disaccordo hanno prevalso: dal mancato affondo contro l’Iran alla linea debole con il Pakistan di Pervez Musharraf, dall’aumento della spesa pubblica ai tentennamenti sull’immigrazione clandestina fino al punto cruciale dell’Iraq, dove i neoconservatori hanno invocato senza successo un aumento delle truppe. Il tramonto dei neoconservatori ha coinciso con la diplomazia multilateralista di Condoleezza Rice che ha riaperto le porte della Casa Bianca ai pragmatici e realisti che lavoravano con George Bush padre. Saranno ora costoro, a cominciare dall’ex Segretario di Stato James Baker ed il nuovo capo del Pentagono Robert Gates, ad avere voce in capitolo sulla direzione da intraprendere in Iraq.
Ma attenzione a trarre giudizi troppo rapidi: l’allontanamento di Donald Rumsfeld dal Pentagono era proprio una richiesta dei neocon a causa del suo rifiuto ad aumentare le truppe.

Guardiamo alle presidenziali del 2008. I Repubblicani moderati Rudy Giuliani e John McCain stanno scaldando i muscoli. Chi tra i due viene preferito dall’entourage di Bush per succedergli alla Casa Bianca?
È presto per parlare di candidature. Giuliani e McCain sono scesi in campo puntando all’elettorato moderato incoronato come decisivo dal voto di Midterm. Entrambi inoltre sono dati dai sondaggi per vincenti in un ipotetico duello con Hillary Clinton. Ma due anni è un periodo molto lungo nella vita politica americana: può succedere di tutto e potrebbero esservi altri nomi a sorpresa. Mitt Romney, governatore del Massachusetts, è un mormone conservatore che guida uno Stato liberal e piace certamente di più alla base repubblicana.

Ecco, in Italia è praticamente sconosciuto, ma negli Usa si parla molto di lui come candidato repubblicano alla Presidenza. Che tipo è?
È un leader politico tosto per le prese di posizione sui valori ma flessibile con i media e nella gestione dei rapporti con i liberal. In Massachusetts ha conquistato voti democratici. Ma l’essere mormone potrebbe diventare un boomerang nei rapporti con la destra evangelica. Il suo principale vantaggio è essere un governatore: gli americani dal secondo dopoguerra in poi hanno eletto governatori e generali alla presidenza con l’unica eccezione del senatore John F. Kennedy.

Per la riconferma al Senato, Hillary Clinton ha condotto una campagna in stile presidenziale, anche in termini di soldi spesi. È lei la candidata in pectore dei Democratici alla Casa Bianca?
Hillary perderebbe oggi tanto contro Giuliani – 8 punti – che McCain – 10 punti – sebbene rimanga il candidato democratico potenzialmente più forte, carismatico e capace di raccogliere fondi. Il dilemma dei Democratici è come poter vincere senza Hillary ma grazie al suo sostegno. Due gli scenari possibili: Hillary scende in campo con una campagna mirata a rinnovare la propria immagine, oggi troppo polarizzante, oppure fa un passo indietro indicando lei il candidato presidente e ritagliandosi così il ruolo di leader del partito per i prossimi anni. Ma sul suo cammino vi sono molte insidie: a cominciare da Al Gore, l’ex presidente di Bill Clinton oggi amato dalla base liberal, idolo degli ecologisti e capace di raccogliere fondi a Hollywood anche senza il via libera di Hillary.

Una domanda ambiziosa: chi si aggiudicherà le elezioni presidenziali nel 2008?
I Democratici ritengono di essere in vantaggio ma Karl Rove, stratega repubblicano, ribatte che a Midterm non hanno votato neanche 60 milioni di americani contro i quasi 120 milioni del 2004. La risposta sul duello del 2008 potrebbe dipendere dalla discesa in campo di candidati indipendenti capaci di strappare voti decisivi ad uno dei due partiti. Il repubblicano Michael Bloomberg, sindaco di New York, e Joseph Lieberman, democratico ma eletto senatore come indipendente in Connecticut, sono due nomi da tenere d’occhio. La partita per le presidenziali è appena agli inizi.



Maurizio Molinari, corrispondente dagli Stati Uniti de La Stampa.

Alessandro Gisotti, giornalista.

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