Le partita per le presidenziali americane si
giocherà al centro. Le elezioni di mezzo termine dello scorso novembre hanno
dimostrato chiaramente che i voti decisivi per conquistare la Casa Bianca
vanno cercati tra indipendenti e moderati.
Con la vittoria dei Democratici, dunque, gli Stati Uniti non hanno svoltato
a sinistra come hanno suggerito in molti da questa parte dell’Atlantico, ma
si sono piuttosto riposizionati su quel vital centre che da sempre è l’ago
della bilancia della politica americana. Un dato che sembra confermato dai
nomi dei probabili candidati alla presidenza, soprattutto in area
repubblicana. Per comprendere il vero
significato delle elezioni parlamentari di due mesi fa e i suoi riflessi
sull’amministrazione Bush e sulle presidenziali del 2008, abbiamo
intervistato Maurizio Molinari, corrispondente da New York del quotidiano La
Stampa.
Guardando i numeri, le elezioni di mezzo termine sono state
innegabilmente vinte dai Democratici. Politicamente, invece, si può dire che
sono stati piuttosto i Repubblicani a perderle?
A vincere sono stati i Democratici riuscendo ad intercettare i voti
moderati, centristi e, in alcuni casi, anche conservatori in fuga dai
Repubblicani a causa della sovrapposizione di tre fattori: scandali etici,
eccessivo spostamento a destra sui valori tradizionali e insuccesso nella
stabilizzazione dell’Iraq.
I motivi della sconfitta chiamano in causa la leadership repubblicana e la
Casa Bianca. I leader repubblicani non sono stati capaci di punire gli
scandali etici, finanziari e sessuali in maniera talmente inequivocabile da
rassicurare la base elettorale ed hanno inoltre commesso l’errore di
promuovere, o sostenere, referendum ultraconservatori che l’elettorato
moderato non ha gradito, come nel caso di quello anti-aborto in South
Carolina o anti-nozze gay in Arizona. La responsabilità della Casa Bianca è
di aver continuato a difendere la gestione delle operazioni militari in Iraq
ignorando la richiesta di “successo” da parte della grande maggioranza
dell’opinione pubblica. Sono stati errori decisivi ma a contare tatticamente
di più è stata l’abilità dei Democratici di confezionare una campagna su due
fronti. Primo: focus sull’offensiva anti-Bush per cavalcare la volontà di
novità politiche che da sempre distingue l’elettorato, soprattutto se reduce
da dodici anni di pressoché totale controllo del Congresso da parte di un
singolo partito. Secondo: affidarsi a candidati moderati capaci di
conquistare i voti repubblicani in fuga.
Infatti, per vincere, il partito
dell’Asinello ha schierato proprio candidati moderati, che sono riusciti a
strappare al gop collegi tradizionalmente conservatori, basti pensare alla
vittoria in Pennsylvania dell’anti-abortista Bob Casey contro il social
conservative Rick Santorum. È la rivincita del centro?
Nel 2004 George W. Bush vinse le elezioni grazie all’Ohio, strappato a John
Kerry per soli 80.000 voti di differenza. In novembre i Democratici hanno
conquistato la Camera dei Rappresentanti per 77.661 voti in più, distribuiti
nei singoli collegi. Nel caso del Senato la differenza è stata ancora più
esigua. L’America resta, dal novembre 2000, un paese spaccato a metà dove si
vince conquistando i voti degli indecisi e degli indipendenti, che nella
grande maggior parte dei casi sono moderati, hanno a cuore la sicurezza
nazionale e decidono per chi votare nelle ultime 72 ore.
Molti intellettuali conservatori hanno
detto e scritto che le elezioni di mezzo termine sono andate male perché il
partito e soprattutto l’amministrazione repubblicana hanno dimenticato i
principi del conservatorismo, quelli per intenderci incarnati da Ronald
Reagan. Come si sta sviluppando il confronto all’interno del campo
repubblicano?
La difficoltà per i Repubblicani è tenere assieme la coalizione uscita dalle
urne nel 2004: ceti medi, aree rurali, minoranze etniche e destra
evangelica. Se i ceti medi e le minoranze etniche, soprattutto nei grandi
centri urbani, chiedono politiche moderate, dalle aree rurali e dalla destra
cristiana viene una ventata di conservatorismo che spinge su posizioni
sempre più estreme, come ad esempio nel rifiuto della ricerca sulle cellule
staminali. È un equilibrio che fino a novembre 2006 si teneva sul prestigio
di Bush nel garantire la sicurezza nazionale, ma la percezione di fallimenti
militari in Iraq lo ha indebolito ed i Repubblicani hanno pagato le
conseguenze. Per tenere assieme la coalizione repubblicana e conservare la
Casa Bianca nel 2008 i Repubblicani avranno bisogno di un Bush ad alto
profilo sulla sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo nei prossimi due
anni. Ciò lascia supporre iniziative su Iran, Siria e Nord Corea.
Nel partito Democratico la linea moderata,
nella scelta dei candidati, di Rahm Emanuel e Chuck Schumer, si è dimostrata
vincente. Eppure la sinistra radicale, raccolta attorno ad Howard Dean e al
movimento MoveOn.org, è ancora molto forte. Chi detterà la politica
democratica in questi due anni che precedono le presidenziali?
Sarà un duello fra due donne. Nancy Pelosi, neopresidente della Camera dei
Rappresentanti, è il volto dell’anima liberal del partito, mentre Hillary
Clinton, rieletta senatore di New York, è il punto di riferimento di
moderati e centristi. Sarà uno scontro a tutto campo, giocato sul terreno
del pragmatismo da entrambe, perché entrambe condividono la priorità di far
vincere ai Democratici la Casa Bianca nel 2008. Non si può escludere che il
braccio ferro si giocherà sulla nomina del candidato presidente.
Veniamo ai risvolti delle elezioni sulla
presidenza. C’è chi parla di un Bush ridotto ormai ad “anatra zoppa”. Altri,
invece, fanno notare che da governatore del Texas, Bush riuscì a lavorare
proficuamente con l’opposizione che deteneva il controllo del parlamento
statale. Quali sono gli spazi di manovra del presidente?
Da un punto di vista istituzionale ne ha molti, grazie all’equilibro fra i
poteri che distingue il sistema americano, ma politicamente è tutt’altra
cosa: rischia di vedere la propria amministrazione messa sotto indagine da
audizioni a raffica indette dalle commissioni democratiche, tanto alla
Camera che al Senato. Si tratta di una spina nel fianco che potrebbe
obbligare il presidente a spendere energie e tempo nella difesa a Capitol
Hill, a detrimento della capacità di gestire l’amministrazione in maniera
utile per i Repubblicani e per come il suo governo sarà ricordato dagli
americani.
Per quanto riguarda l’Iraq, e quindi più
ampiamente la politica estera, Time ha titolato: “Il ritorno dei realisti”.
Il cambio alla guida del Pentagono e il riaffacciarsi sulla scena dei
consiglieri di Bush padre sembrerebbero dimostrarlo. I neoconservatori sono,
dunque, al tramonto?
I neoconservatori hanno colto la loro ultima vittoria con il discorso che
fece Bush al giuramento a Washington dopo la rielezione, quando si disse a
favore di una rivoluzione democratica globale contro i rimanenti dittatori
del pianeta. Ma da allora i motivi di disaccordo hanno prevalso: dal mancato
affondo contro l’Iran alla linea debole con il Pakistan di Pervez Musharraf,
dall’aumento della spesa pubblica ai tentennamenti sull’immigrazione
clandestina fino al punto cruciale dell’Iraq, dove i neoconservatori hanno
invocato senza successo un aumento delle truppe. Il tramonto dei
neoconservatori ha coinciso con la diplomazia multilateralista di
Condoleezza Rice che ha riaperto le porte della Casa Bianca ai pragmatici e
realisti che lavoravano con George Bush padre. Saranno ora costoro, a
cominciare dall’ex Segretario di Stato James Baker ed il nuovo capo del
Pentagono Robert Gates, ad avere voce in capitolo sulla direzione da
intraprendere in Iraq.
Ma attenzione a trarre giudizi troppo rapidi: l’allontanamento di Donald
Rumsfeld dal Pentagono era proprio una richiesta dei neocon a causa del suo
rifiuto ad aumentare le truppe.
Guardiamo alle presidenziali del 2008. I
Repubblicani moderati Rudy Giuliani e John McCain stanno scaldando i
muscoli. Chi tra i due viene preferito dall’entourage di Bush per
succedergli alla Casa Bianca?
È presto per parlare di candidature. Giuliani e McCain sono scesi in campo
puntando all’elettorato moderato incoronato come decisivo dal voto di
Midterm. Entrambi inoltre sono dati dai sondaggi per vincenti in un
ipotetico duello con Hillary Clinton. Ma due anni è un periodo molto lungo
nella vita politica americana: può succedere di tutto e potrebbero esservi
altri nomi a sorpresa. Mitt Romney, governatore del Massachusetts, è un
mormone conservatore che guida uno Stato liberal e piace certamente di più
alla base repubblicana.
Ecco, in Italia è praticamente sconosciuto,
ma negli Usa si parla molto di lui come candidato repubblicano alla
Presidenza. Che tipo è?
È un leader politico tosto per le prese di posizione sui valori ma
flessibile con i media e nella gestione dei rapporti con i liberal. In
Massachusetts ha conquistato voti democratici. Ma l’essere mormone potrebbe
diventare un boomerang nei rapporti con la destra evangelica. Il suo
principale vantaggio è essere un governatore: gli americani dal secondo
dopoguerra in poi hanno eletto governatori e generali alla presidenza con
l’unica eccezione del senatore John F. Kennedy.
Per la riconferma al Senato, Hillary
Clinton ha condotto una campagna in stile presidenziale, anche in termini di
soldi spesi. È lei la candidata in pectore dei Democratici alla Casa Bianca?
Hillary perderebbe oggi tanto contro Giuliani – 8 punti – che McCain – 10
punti – sebbene rimanga il candidato democratico potenzialmente più forte,
carismatico e capace di raccogliere fondi. Il dilemma dei Democratici è come
poter vincere senza Hillary ma grazie al suo sostegno. Due gli scenari
possibili: Hillary scende in campo con una campagna mirata a rinnovare la
propria immagine, oggi troppo polarizzante, oppure fa un passo indietro
indicando lei il candidato presidente e ritagliandosi così il ruolo di
leader del partito per i prossimi anni. Ma sul suo cammino vi sono molte
insidie: a cominciare da Al Gore, l’ex presidente di Bill Clinton oggi amato
dalla base liberal, idolo degli ecologisti e capace di raccogliere fondi a
Hollywood anche senza il via libera di Hillary.
Una domanda ambiziosa: chi si aggiudicherà
le elezioni presidenziali nel 2008?
I Democratici ritengono di essere in vantaggio ma Karl Rove, stratega
repubblicano, ribatte che a Midterm non hanno votato neanche 60 milioni di
americani contro i quasi 120 milioni del 2004. La risposta sul duello del
2008 potrebbe dipendere dalla discesa in campo di candidati indipendenti
capaci di strappare voti decisivi ad uno dei due partiti. Il repubblicano
Michael Bloomberg, sindaco di New York, e Joseph Lieberman, democratico ma
eletto senatore come indipendente in Connecticut, sono due nomi da tenere
d’occhio. La partita per le presidenziali è appena agli inizi.
Maurizio Molinari, corrispondente dagli Stati Uniti de La Stampa.
Alessandro Gisotti, giornalista.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006