Lo scoglio di Cipro
di Giuseppe Mancini
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

La repubblica di Cipro è, dal 1° maggio 2004, uno Stato membro dell’Unione Europea; la Turchia, Stato candidato all’ingresso nell’ue, dal ’74 occupa militarmente la parte settentrionale dell’isola di Cipro. Un compromesso sembra impossibile, i negoziati hanno raggiunto una fase di stallo, i paesi contrari alla Turchia in Europa per altri motivi (politici, economici, culturali) – soprattutto Francia, Germania, Austria e Paesi Bassi – possono opporre un pretesto che nei fatti è anche una valida ragione: perché non si può accettare nell’Unione uno Stato, la Turchia, che non riconosce e non ha rapporti diplomatici con uno Stato membro, la repubblica di Cipro. L’isola di Afrodite rimane infatti divisa tra le due comunità, greco-cipriota e turco-cipriota: la repubblica di Cipro riconosciuta internazionalmente, che può esercitare la propria sovranità solo sulla parte meridionale; la repubblica turca di Cipro settentrionale, creata nel 1983 e priva di riconoscimento internazionale – in realtà, uno Stato-fantoccio che esiste solo grazie al sostegno politico ed economico di Ankara. Riconoscere la repubblica di Cipro significherebbe, per la Turchia, accettarne la sovranità sulla totalità del territorio nazionale e abbandonare la finzione della repubblica turca di Cipro settentrionale; per motivi di politica interna, di percezioni geopolitiche e di prestigio internazionale non ritiene di farlo: e chiede invece la riunificazione dell’isola o il riconoscimento internazionale per le istituzioni della comunità turco-cipriota.

La questione cipriota, in effetti, è alla base del rapporto della Commissione europea e della decisione del Consiglio europeo (dicembre 2006) che hanno sancito un brusco rallentamento nel processo di adesione: perché il governo Erdogan non ha rispettato l’impegno, previsto dal Protocollo addizionale alla Dichiarazione di Ankara sull’unione doganale (29 luglio 2005), di aprire la Turchia alle merci, alle navi e agli aerei ciprioti entro il 2006 – una sorta di riconoscimento de facto della sovranità greco-cipriota su tutta l’isola (anche se una dichiarazione unilaterale turca aveva sottolineato la natura solo tecnica e non politica di queste misure, poi disattese). In buona sostanza, il processo di adesione della Turchia all’ue e il processo di riunificazione di Cipro sono interdipendenti: non ci sarà adesione senza riunificazione, non ci sarà riunificazione senza adesione.

Un processo estremamente incerto, reso intrattabile dalla storia moderna di Cipro: per secoli sotto dominio ottomano, dal 1878 possedimento e dal 1925 colonia britannica, indipendente dal 1960 in virtù di un compromesso orchestrato da Gran Bretagna, Grecia e Turchia e mal digerito dai greco-ciprioti ortodossi desiderosi di unirsi alla Grecia (enosis), che compongono l’80 per cento della popolazione, e dai turco-ciprioti musulmani che rivendicavano la spartizione con la Turchia (taksim). Un compromesso intrinsecamente fragile: perché fondato su di una rigida separazione tra gruppi etnici, nell’amministrazione del paese, che ha reso impossibile la cooperazione tra le due comunità; perché osteggiato dagli scalmanati, dagli estremisti a mano armata pronti a sbarazzarsi con le maniere forti anche dei membri della loro stessa comunità orientati al dialogo e alla collaborazione. Gli scontri inter-etnici del 1963-1964 e del 1974 sono stati la conseguenza di quel falso compromesso; come l’intervento militare della Turchia, in un contesto geopolitico che per Ankara (circondata da nemici: Grecia, Bulgaria, urss, Siria, Iran) era particolarmente ostile. Con ulteriori complicazioni, figlie di quell’intreccio di interessi e esigenze politiche che hanno contraddistinto la storia cipriota: degli usa e dell’urss, impegnati a evitare che il nemico della guerra fredda acquisisse posizioni vantaggiose; della Gran Bretagna, che dal periodo coloniale ha conservato due basi militari, Akrotiri e Dhekelia, per il controllo del Mediterraneo orientale e del Medio oriente; della Turchia e della Grecia, divise da rivalità, da inimicizia, da un complesso contenzioso sulla demarcazione delle rispettive zone di sovranità nell’Egeo; infine delle Nazioni unite, che nella soluzione del problema cipriota hanno investito energie, risorse politiche e finanziarie, credibilità.

Nel processo negoziale di riunificazione, paradossalmente, è stata invece l’Europa ad essere continuamente assente, ad assistere impotente al fallimento puntuale delle numerose iniziative diplomatiche dell’onu – tutte rivelatesi inadeguate e inconcludenti, nonostante il contesto favorevole creatosi con la fine della guerra fredda e la normalizzazione dei rapporti tra Grecia e Turchia. In realtà, sin dal 1977 (accordi Makarios-Denktash, i leader delle due comunità) è stata individuata la formula per la riunificazione: una federazione binazionale e bizonale, composta da due entità politiche fortemente autonome in grado di preservare le specificità culturali e i legami politici dei greco-ciprioti e dei turco-ciprioti. Ma questa formula astratta, spesso a causa dell’intransigenza di Denktash, non ha mai trovato una forma concreta: quella di una federazione autentica preferita dai greco-ciprioti, oppure quella di una confederazione con meccanismi di cooperazione solo virtuali pretesa dai turco-ciprioti.

Nonostante ciò, le autorità europee hanno scommesso sulla riunificazione basata su di un piano proposto nel 2002 dal segretario dell’onu Annan, rigettato nelle sue varie versioni a più riprese dai leader ciprioti (Denktash e i presidenti Clerides e poi Papadopoulos) e sottoposto a un doppio referendum il 24 aprile 2004: i turco-ciprioti hanno detto sì al futuro europeo (65 per cento), i greco-ciprioti già sicuri dell’ingresso in Europa hanno votato massicciamente no (76 per cento). Il commissario all’allargamento Verheugen si è infuriato, gli ancora 15 hanno offerto ai turco-ciprioti un sostanzioso pacchetto di aiuti economici, gli Stati Uniti hanno aperto alla repubblica turca di Cipro settentrionale e al nuovo leader Talat; lo stesso presidente Papadopoulos ha dichiarato l’intenzione di favorire il più possibile lo sviluppo economico e l’integrazione politica dei turco-ciprioti – anche grazie ai contatti e agli scambi intercomunitari permessi dalla graduale apertura della green line, la linea di separazione tra le due entità politiche dell’isola fino al 2003 pressoché impermeabile (e i contatti e gli scambi non fanno che crescere). Il no dei greco-ciprioti è però da capire; ed è stato, a ben guardare, opportuno e salutare. Da una parte, gli incentivi politici ed economici erano per loro inesistenti: l’adesione all’ue era già acquisita e imminente (formalizzata col Trattato di Atene del 16 aprile 2003), mentre sono state giudicate nel complesso insoddisfacenti le misure relative agli aggiustamenti territoriali e al ritorno dei rifugiati nel Nord (con la possibilità di recuperare le proprietà rimaste per tre decenni inaccessibili). Dall’altra, il piano Annan avrebbe imposto come base della riunificazione una confederazione estremamente blanda, fondandone il funzionamento su meccanismi a base etnica: doppia cittadinanza, quote etniche nel parlamento e nella burocrazia, quote etniche per il ritorno dei rifugiati – con una palese violazione delle norme comunitarie che garantiscono a tutti i cittadini dell’ue le libertà fondamentali di movimento e di residenza e combattono le discriminazioni su base etnica e religiosa; riproponendo lo stesso difetto congenito della costituzione del 1960 voluta dalla Gran Bretagna: perché, invece di sanare i contrasti esistenti, un sistema istituzionale a base etnica, per di più con uno Stato centrale debolissimo, questi contrasti finisce col rinsaldarli e con l’amplificarli, come avvenuto nel ’63-’64 e nel ’74.

Dal 1° maggio 2004 ben poco è cambiato. La repubblica di Cipro fa parte a pieno di titolo dell’Unione, ma continua ad esercitare una sovranità territorialmente limitata; la repubblica turca di Cipro settentrionale continua a essere diplomaticamente ed economicamente isolata: le promesse europee di revoca o comunque attenuazione dell’embargo sono cadute nel vuoto, gli aiuti proposti si sono materializzati solo in parte (con un pacchetto di 139 milioni di euro); come previsto, il Consiglio europeo del 17 dicembre 2004 ha dato il via libera per i negoziati di adesione con la Turchia, che sono stati formalmente aperti il 3 ottobre 2005, con il pieno assenso, quindi, della Repubblica di Cipro: che come tutti gli altri membri dispone in materia del diritto di veto, ma ha scelto di non esercitarlo. Non è pensabile, infatti, che il governo di uno Stato minuscolo, per territorio e pil, possa impedire a tutti gli altri Stati di accoglierne un altro nel seno dell’Unione; il governo cipriota protesta, mercanteggia, cerca di ottenere quanto più possibile, ma alla fine accetta le decisioni collettive. Anzi, tra gli Stati dell’Unione è proprio la Repubblica di Cipro che più avrebbe da guadagnare dall’ingresso della Turchia in Europa: la Turchia in Europa vorrebbe dire riunificazione, la Turchia fuori dall’Europa vorrebbe dire divisione probabilmente definitiva.

L’unica novità, dal 1° maggio 2004, è che i leader delle due comunità, Papadopoulos e Talat, hanno ripreso ad incontrarsi: il 3 e l’8 luglio 2006, per iniziativa delle Nazioni unite. Incontri interlocutori, che hanno evidenziato la volontà poco convinta di riprendere il negoziato per la riunificazione: l’onu insiste col piano Annan, l’ue continua la sua latitanza, e anzi auspica che il piano Annan venga accettato: un piano che prevede numerose misure in palese contrasto con le norme comunitarie. L’ultima trovata di Ibrahim Gambari, sottosegretario nigeriano per gli affari politici dell’onu, è un piano in tre tappe: l’istituzione di gruppi di lavoro e comitati tecnici che preparino liste di materie da discutere, un meeting tra i due leader per fare il punto della situazione sotto la supervisione di un mediatore onu, per finire i negoziati veri e propri. La sostanza non cambia, l’insuccesso sembra ancora una volta certo. A meno che, finalmente, l’Europa non si decida ad agire.

 

 



Giuseppe Mancini, dottorando in Storia moderna e contemporanea all’Istituto italiano di scienze umane di Napoli.

(c) Ideazione.com (2006)
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