Ma l'Europa sarebbe economicamente più fragile
di Massimo Lo Cicero
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Nel mese di dicembre l’Unione Europea ha imposto uno stop, e per un periodo abbastanza lungo, all’ingresso della Turchia tra i suoi paesi membri. Ha suscitato un certo clamore che il Papa abbia, al contrario, manifestato la sua opinione in una direzione assolutamente contraria: auspicando che quel processo di integrazione possa procedere. I dati sorprendenti di questa diversità di atteggiamento stanno nello scarto tra la dimensione delle motivazioni piuttosto che in quello relativo all’esito auspicato del processo di integrazione.

La simpatia con cui il Papa guarda all’integrazione nasce dalla evidente circostanza che l’integrazione stessa sdrammatizzerebbe la difficoltà di far convivere culture diverse nello spazio politico europeo, senza che questa manifestazione di tolleranza costringa la Chiesa, e molti europei, a dover rifiutare la presenza di una marcata radice cristiana nelle culture dei popoli che rappresentano il nocciolo duro dell’ue ed il cuore geografico dell’unico continente, l’Europa, che si presenta come la penisola di un altro: l’Asia. La creazione di uno spazio federale europeo tra due penisole, l’Europa carolingia e l’Anatolia, sarebbe un evento simbolico di enorme impatto sul futuro delle dinamiche politiche in questa difficile area del mondo contemporaneo. Se, a questa eventuale integrazione, si affiancasse nel medio periodo – essendo non infinita la distanza che ci separa dal 2010 – l’area di libero scambio nel Mediterraneo, nascerebbe spontanea la tentazione di riconoscere che, oltre le chiacchiere di maniera, sarebbe stato fatto un radicale passo in avanti verso la ricostruzione di una vera dimensione mediterranea della politica europea sulla sua frontiera meridionale. Purtroppo non è facile che questi due processi si completino vicendevolmente nei prossimi anni.

Il problema non è di facile soluzione sia per i motivi legati alle culture ed agli atteggiamenti politici e religiosi dei popoli coinvolti in questo processo, ma anche per motivi riconducibili alla struttura delle relazioni internazionali che legano ed oppongono tra loro le economie di cui quei medesimi popoli sono i protagonisti.

L’Unione Europea, ma questo è ben noto, non rappresenta oggi un club sovranazionale omogeneo sulla scena mondiale. Una parte importante dei paesi che questa istituzione include hanno dato vita ad un vero e proprio club monetario: essi condividono una moneta ed il governo del ciclo economico che deriva dal controllo della moneta e da un robusto patto di indirizzo che uniforma i comportamenti dei governi nazionali in materia di finanza pubblica. Questo regime unico di governo dell’espansione monetaria e di controllo della finanza pubblica crea un ambiente singolare di politica economica: singolare in relazione alle eterogeneità strutturali ed al diverso ciclo congiunturale che l’insieme di questi paesi attraversa in presenza di un medesimo framework di controllo finanziario dei mercati; singolare perché un paese molto importante che contende agli Stati Uniti il ruolo di principale domicilio dei mercati finanziari mondiali, il Regno Unito, non aderisce al regime della moneta unica e mantiene una propria unità monetaria.

A questo club monetario, che non include tuttavia il principale attore finanziario tra i grandi paesi europei, si affianca e si collega un club di natura commerciale, che include altri dieci Stati, in larghissima parte reduci dal fallimento delle economie socialiste controllate dall’ormai ex potenza imperiale dell’urss. Si tratta di economie ad alto tasso di crescita, dotate di eccellenti risorse umane e di una rete di infrastrutture, da implementare, ma che le colloca in posizione oggettivamente molto competitiva, anche in ragione delle condizioni molto favorevoli dei loro mercati nazionali del lavoro, rispetto ai paesi membri del club monetario per la localizzazione di nuovi progetti di investimento.

A questi Stati, in una logica assolutamente condivisibile, l’Unione Europea ha offerto una sponda in materia di legalità e di istituzioni economiche amiche del mercato, offrendo una base di riferimento per la ricostruzione di economie fiaccate dalla lunga stagione di dipendenza verso l’urss e dalla progressiva implosione del sistema in cui erano state incluse per mezzo secolo. Ma l’ingresso di questi paesi nell’Unione ha generato un incremento radicale della diversità interna, tra le varie economie federate, ed una marcata competizione tra le aree deboli, ancora presenti all’interno dei mercati nazionali per gli appartenenti al club monetario, e le economie dei paesi new comers. Fin qui una situazione che avremmo dovuto descrivere nei medesimi termini anche negli anni immediatamente alle nostre spalle. Mentre oggi si presenta sulla scena una ulteriore incognita di natura valutaria. Questo genere di contraddizioni si somma ora con una diversa ed aggiuntiva circostanza critica: la progressiva rivalutazione dell’euro, alla quale non risulta estranea la politica della Banca Centrale Europea (bce), sia per la sua identità istituzionale che per il modo in cui quella identità viene interpretata. La bce è l’erede della banca centrale tedesca ed eredita da essa una identità monetarista dichiarata, che assume il controllo dell’inflazione attraverso la politica monetaria come la propria missione esclusiva ed esclude ogni compromesso tra questa missione e quella di promuovere, secondo una ragionevole compatibilità, la crescita dell’economia che utilizza la moneta da essa controllata.

La Bce si colloca, sotto il profilo della identità istituzionale, all’estremo opposto della Federal Reserve e questa diversità radicale si sposa, nelle recente congiuntura internazionale, con una opposizione anche del ciclo congiunturale tra i mercati che utilizzano le due valute. L’economia americana rallenta e presenta un grande deficit nel saldo delle partite correnti mentre quella europea riprende la corsa della crescita e presenta, per alcuni paesi, segnatamente la Germania, una capacità di competere sulla scena internazionale. In queste condizioni la Bce ha lasciato crescere la massa monetaria in termini di quantità ma innalza progressivamente la dimensione del tasso di interesse. Il deficit delle partite correnti e lo scarto tra i tassi di interesse tra l’area del dollaro e quella dell’euro inducono un progressivo apprezzamento nel mercato mondiale della moneta europea rispetto a quella americana. La soglia attesa di criticità, perché l’Europa consumi il proprio margine di competizione con le imprese americane, viene individuata da alcuni osservatori – tra i quali si annovera il premio Nobel Robert Mundell, il padre della teoria delle aree monetarie ottimali, che rappresenta uno dei fondamenti per la creazione dell’euro – in un cambio superiore ad 1,3 tra le due valute, euro e dollaro.

L’industria tedesca reputa di poter sopportare anche un cambio di 1,5. La soglia giudicata critica è già stata superata e quella che gli stessi operatori tedeschi dichiarano di temere potrebbe non essere improbabile nei prossimi mesi. È in questo contesto che deve essere letta la vicenda che oppone l’Unione Europea all’ingresso della Turchia se vogliamo comprendere le ragioni economiche, e non solo quelle culturali e politiche che si muovono dietro questa eventuale decisione, di una ulteriore integrazione nel club commerciale, per un nuovo grande paese.

Queste ragioni sono di duplice natura: la prima legata alla demografia del paese in questione, la Turchia, la sua dimensione di oltre settanta milioni di individui nel proprio territorio nazionale e di una certa pressione che il paese stessa ha esercitato, fino ad ora, nell’alimentare flussi immigratori verso l’Europa ed, in particolare, verso la Germania. La seconda ragione si lega alla capacità della Turchia di crescere, elevando progressivamente il proprio tenore economico e la dimensione del proprio prodotto interno lordo.

Come si può leggere nel grafico in basso, che mostra la dimensione degli indici del prodotto interno a prezzi correnti ma a parità di potere di acquisto tra i vari aggregati, dopo il 1980 l’economia turca presenta un profilo espansivo molto marcato: cresce più intensamente della media di tutti i paesi ocse. Una media che risulta molto superiore, sempre sotto il profilo della capacità di espandersi, di quella dei quindici paesi che appartengono all’area monetaria dell’euro. Una parte di quella espansione si può interpretare anche come effetto dell’inflazione che quel paese ha scontato negli anni alle nostre spalle ma essa appare sotto controllo a partire dall’ingresso nel Ventunesimo secolo. Anche perché la Turchia, nella prospettiva del suo ingresso nell’Unione Europea, ha adottato politiche macroeconomiche di convergenza verso gli standard adottati dai paesi del club commerciale europeo. Un vincolo che, se non applicato, renderebbe impossibile, alla lunga, la convivenza tra il club commerciale medesimo ed il club monetario ed impraticabile il trasferimento, da molti paesi auspicato, dal primo al secondo. Il nostro paese, invece, rimane evidentemente al di sotto della media ocse e, successivamente al 2000, si colloca al di sotto della media dei quindici paesi che adottano l’euro.

In molti settori, tipicamente presenti nell’industria e nell’economia italiana, come l’agroalimentare od il turismo, la crescita turca ha mostrato di poter giocare con successo le proprie attitudini competitive.

Nel turismo, ad esempio, è evidente che l’offerta aggregata di settore per la Turchia, fondata sulla ricettività alberghiera, la nautica da diporto e la balneazione lungo la propria costa mediterranea, ha mostrato da tempo di essere superiore per qualità dei servizi offerti e, di conseguenza, per capacità di attrarre investimenti esteri, alla corrispondente industria turistica dell’Italia meridionale.

Anche nell’industria agroalimentare, come nelle produzioni agricole di base, ritorna questa capacità dell’economia turca di insidiare quella italiana. Più in generale, la Turchia si presenta come un player assai dinamico nel mercato mediterraneo e si configura come uno dei giocatori più interessati alla creazione della zona di libero scambio perché, attesa la sua rilevante dimensione demografica, essa rappresenta sia un possibile produttore di beni e servizi competitivi ed esportabili che un grande mercato di consumo, e di investimenti espansivi, per chi venga dall’esterno del suo perimetro nazionale. Un protagonista ideale, dunque, per la creazione di una zona di libero scambio in cui si eccitano le virtù reciproche di integrazione dei vari partecipanti. Non è necessario spiegare ai lettori italiani che il Mezzogiorno del nostro paese rappresenta proprio una di quelle zone deboli incluse nel perimetro nazionale dei paesi aderenti al club monetario dell’euro.

Dunque esso subisce, e subirà nei prossimi anni, una duplice pressione offensiva: dai paesi new comers dell’est e dai paesi mediterranei più capaci di presentarsi come partners competitivi della zona di libero scambio nel Mediterraneo. Questa duplice pressione competitiva ci pone davanti ad un delicato quesito di politica industriale: chiuderci in una dimensione autarchica, creata da una politica dei dazi o dei sussidi pubblici che, come è evidente, sono equivalenti sul piano logico od aprirci ad una vera sfida competitiva? Il rigore fiscale, imposto alla gestione della nostra finanza pubblica dal patto di stabilità stipulato con gli altri paesi europei, mostra quanto sia effimera la prima opzione e quanto sia necessario accettare la sfida che ci viene sul secondo fronte della possibile reazione attesa.

In definitiva, il problema di ammettere o meno la Turchia nell’Unione Europea, seppure nella sfera di quello che abbiamo definito come un club commerciale, non ha alcuna relazione profonda con il dato posto all’attenzione dei paesi membri dell’Unione stessa: la questione di una maggiore integrazione tra la Turchia e Cipro.

La dimensione delle relazioni tra Cipro e la Turchia si colloca in una sfera assolutamente locale e circoscritta.

I problemi che impediscono oggi una soluzione alla eventuale integrazione tra Turchia ed Unione Europea si possono e si devono riferire a questioni di ordine assolutamente generale e, più precisamente: l’impatto che il regime monetario imposto dalla bce genera sul cambio tra euro e dollaro e le conseguenze di quel cambio sulla dinamica economica europea e la stabilità del mercato finanziario internazionale; l’esigenza di rivedere la separazione tra il club commerciale ed il club monetario – le due aggregazioni endogene all’Unione Europea – dando alla stessa un regime di governo meno frammentario.

In effetti sia la prima che la seconda questione derivano dalla incoerenza, nel medio periodo, tra le ragioni che avevano condotto alla creazione dell’Unione, come area forte all’interno della scacchiera mondiale, e la situazione di fatto che la vede come un’area regionale debole e fragile sotto il profilo economico nel contesto della globalizzazione. L’ingresso della Turchia, sic stantibus rebus, probabilmente accentuerebbe questa fragilità ulteriormente e, nel caso fosse accompagnato da una parallela liberalizzazione degli scambi commerciali nel bacino del Mediterraneo, rappresenterebbe una minaccia nei confronti dei paesi deboli appartenenti al sistema dell’euro e delle regioni deboli degli stessi paesi forti, in particolare modo per il Mezzogiorno d’Italia.

 

 



Massimo Lo Cicero, docente di Economia della comunicazione e Economia dell’informazione e della conoscenza all’Università Tor Vergata di Roma.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006