Torna il Grande Gioco all'ombra dell'energia
di Stefano Grazioli
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Con l’inizio del 2007 e il passaggio della presidenza dell’Unione Europea alla Germania i rapporti soprattutto con la Russia, ma anche con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia sono tornati con forza al centro dell’attenzione. Nei mesi scorsi Berlino aveva espresso i punti cardine della propria strategia, indicando nell’avvicinamento agli Stati dell’ex urss uno dei punti fondamentali per lo sviluppo continentale, con chiaro riferimento alle risorse energetiche. A oltre quindici anni dal crollo dell’Impero sovietico, non unicamente la Russia, ma anche le nazioni limitrofe hanno intrapreso un cammino segnato sia da incertezze e conflitti che da una crescita economica straordinaria. Ci sono però notevoli differenze: Kirghizistan e Tagikistan sono ancora piccoli e poveri, fragili democrazie in cerca di stabilità; Uzbekistan e Turkmenistan sono Stati autoritari retti da dittatori cresciuti su valanghe di petrodollari; il Kazakistan è invece il paese che più si avvicina agli standard occidentali, anche se il divario da colmare è ancora ampio.

Il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, lo scorso novembre, ha effettuato un lungo viaggio in tutte le repubbliche, proprio in preparazione del semestre europeo che sino alla fine di giugno vedrà una serie di appuntamenti tra Berlino e Bruxelles con i massimi esponenti politici di tutte le nazioni centroasiatiche, con l’eccezione ovvia del turkmeno Saparmurat Nyazov. A dare il via alle danze è stato a gennaio il presidente kazako Nursultan Nazarbayev, in visita nella capitale germanica. Il dialogo tedesco ed europeo con Astana e le altre capitali non si presenta comunque facile e trovare piattaforme comuni sembra un’impresa ardua. Come già detto: troppo differenti le cinque repubbliche tra di loro e troppo vaga e disunita, per non dire assente, la politica di Bruxelles nella regione. Fino ad oggi l’Asia centrale post-sovietica è stata al di fuori delle strategie europee e solo singolarmente alcuni paesi si sono impegnati a istituire relazioni costanti con gli Stati tra il Caspio e il Pamir, lasciando il campo libero per le potenze, regionali e non, che sin dalla dissoluzione dell’urss si sono date da fare per allacciare rapporti di ogni genere. Oltre ovviamente alla Russia, sono Cina e India a spingere da est e da sud, con gli Stati Uniti che a corrente alternata fanno da spettatori ed attori in una riedizione da Terzo Millennio di quel Great Game giocato nell’Ottocento da imperi oggi decaduti. L’Europa arriva tardi? A questa domanda Steinmeier ha risposto alla fine del suo viaggio autunnale che “troppo tardi” ancora non è. Probabilmente si vedrà in questi mesi se qualcuno avrà voglia, forza e necessità di recuperare il terreno perduto.

Le mille facce dell’Asia post-sovietica
Quando nel dicembre del 1991 l’urss ha cessato di esistere, i cinque Stati dell’Asia centrale, con le loro immense ricchezze naturali (gas, petrolio, minerali) e l’arsenale militare e tecnologico ereditato da Mosca, sono finiti direttamente dalla padella nella brace. Terminato il controllo diretto dal centro, alla guida dei nuovi Stati ci sono, tre lustri dopo, sempre le stesse facce, o quasi: comunisti riciclati sotto una parvenza di democrazia, ma che in realtà hanno messo in piedi sistemi che definire dittatoriali è un eufemismo e che comunque con il comunismo ora hanno poco a che vedere. È così che Nursultan Nazarbayev da primo segretario regionale del pcus è diventato presidente in Kazakistan, fondando un sistema dove autoritarismo fa rima con corruzione; in Turkmenistan l’egregio Nyazov (uno che si fa chiamare modestamente Turkmenbashi, il padre di tutti i turkmeni), anche lui ex dirigente rosso, ha instaurato un regime basato su un culto della personalità da fare invidia a Stalin, e lo Stato che governa è senza dubbio il più repressivo e dittatoriale tra quelli dell’Asia centrale. L’Uzbekistan, la più potente e ricca delle repubbliche dopo il Kazakistan, è stato adottato da Islam Karimov, manco a dirlo ex capo dei comunisti locali, che secondo le solite tradizioni democratiche ha costituito una propria formazione, eliminato a fucilate buona parte degli avversari e, tra referendum truccati ed elezioni farsa, si è assicurato il potere che ora esercita. In Tagikistan, martoriato da anni di guerra civile, Emomali Rachmonov è passato dalla falce e martello al vertice del paese, confermandosi per la terza volta alla presidenza nelle elezioni del novembre 2006. Infine in Kirghizistan si è avuto l’unico caso di un leader non proveniente dalle fila del pcus, Askar Akaiev professore di fisica e, un po’ come la Svizzera, politicamente neutrale, che però ha fatto recentemente una brutta fine, ed è stato destituito nella cosiddetta Rivoluzione dei tulipani nel 2005 che ha portato al potere Kurmanbek Bakiev.

Nei dieci anni dall’indipendenza al principio del 2000 gli Stati dell’Asia centrale hanno dovuto fare i conti – a modo loro, s’intende – con una serie di problemi: da quelli economici a quelli sociali, da quelli religiosi a quelli politici e amministrativi. Sullo sfondo della lacerazione dell’Impero, anche qui bisognava ricostruire l’economia, stiracchiata tra privatizzazione e destatalizzazione, l’industria e l’agricoltura, riorganizzare lo sfruttamento delle risorse naturali. I conflitti sociali si confondevano con quelli religiosi dovuti alla penetrazione del fondamentalismo musulmano: durante il comunismo l’Islam è stato represso, ma è sopravvissuto sotto diverse forme in clandestinità. Già durante gli anni Ottanta e durante la guerra in Afghanistan confraternite e sette si sono sviluppate un po’ dappertutto per poi esplodere dopo l’indipendenza. Mentre deobandisti (da cui sono sorti gli estremisti del miu, Movimento islamico dell’Uzbekistan) e wahhabiti hanno cominciato a espandersi, sono nate le preoccupazioni non solo dei potenti locali, ma anche di chi, prima di tutti la Russia, e non solo, ha interessi da difendere. Se Mosca fino all’autunno del 2001 si è occupata soprattutto di coltivare l’alleanza all’interno dello Shanghai Cinque e Sei (poi diventata sco, Shanghai Cooperation Organisation), battendosi per la lotta al traffico di stupefacenti e contro l’infiltrazione islamica, ha dovuto poi anche darsi da fare per contenere l’espansionismo americano nella regione.

A differenza dell’ue, le multinazionali del petrolio, il Fondo monetario e l’osce hanno già intrapreso rapporti e fornito aiuti nel decennio precedente, con i vari dittatori pronti e contenti nel fare grassi affari dietro vagonate di dollari; la presenza di truppe a stelle e strisce direttamente sul territorio dell’ex Unione Sovietica è per il Cremlino un rospo difficile da mandar giù e anche una sfida sul lungo periodo. La Russia dal 2000, con Putin, ha rafforzato la collaborazione con l’Iran – armi, centrali atomiche a scopo civile, ma anche cooperazione per la sicurezza in Asia centrale alla luce dei bollori in Afghanistan – e ha trovato soprattutto nella Cina un alleato per mettere a freno le ambizioni statunitensi. Washington a sua volta non può forzare molto, ha bisogno proprio di Mosca per contenere i progetti atomici di Teheran, cosa anche nell’interesse russo, dato che la proliferazione nucleare militare nella regione non è vista di buon occhio nemmeno al Cremlino. Pechino, dal canto suo, si è trovata la jihad al confine e si è duramente lamentata delle infiltrazioni estremiste nella provincia nordoccidentale dello Xingjiang, l’unica regione cinese a maggioranza musulmana. All’interno della sco, Russia e Cina sono il motore trainante per opporsi alle minacce islamiche dei talebani, di Osama bin Laden e al Qaeda e a quelle del Miu o dell’Hizb ut Tahrir. Lo stazionamento dei soldati americani in Asia centrale offre a Mosca e Pechino un ulteriore motivo per cementare la loro alleanza. La strategia russa, dalla Cecenia al confine con la Cina, è quella di rivalutare la propria influenza e arginare quelle esterne, islamiche e americane. Negli ultimi cinque anni i rapporti sono però mutati nel Grande Gioco: il vantaggio usa, sull’onda dell’impotenza russa nel decennio eltsiniano e dell’immobilità cinese del dopo Tienammen, si è assottigliato e Washington ha perduto qualche colpo di fronte alla nuova politica del Cremlino e alle mosse aggressive del drago cinese.

Risorse energetiche e geopolitica delle pipelines
La battaglia è iniziata da un pezzo: crollato l’Impero e lasciati liberi gli istinti di un manipolo di emuli di Stalin il gioco si è fatto duro. Le basi militari russe, americane, tedesche sparse nelle varie repubbliche dalla Georgia al Kirghizistan sono però solo un simbolo. Bisogna rimettere ordine e distribuire adeguatamente la torta, quella vera: l’oro nero del Caspio, che con la scoperta del giacimento di Kashagan, uno dei maggiori al mondo, costituisce la posta più allettante della partita. Gli angloamericani, presenti con l’aioc sin dal 1994 (il contratto del secolo con Aliyev senior in Azerbaigian) in attesa di vedere cosa succederà dopo l’eliminazione di Saddam in Iraq e la disputa con Teheran, sembravano fino a poco tempo fa in questa particolare gara in pole position. Con la costruzione della pipeline che collega Baku, in Azerbaigian, con Ceyhan, in Turchia, attraverso Tbilisi (btc) gigantesco oleodotto di 1750 chilometri del costo di quasi tre miliardi di dollari finito nel 2005, Washington pensava di aver dato un duro colpo a Mosca, collegando il Caspio al Mediterraneo passando solo in Azerbaigian, Georgia e Turchia, tagliando fuori Russia (Cecenia) e Iran. Un progetto più geopolitico che economico. Il consorzio che ha la concessione è guidato dall’inglese bp e vi partecipano anche l’Eni e la francese Total-Fina-Elf. Parallelamente alla btc c’è anche il scp (South Caucasus Pipeline, Baku-Tbilisi-Erzurum), gasdotto che potrebbe arrivare in un futuro non molto lontano sino a Turkmenbashi, in Turkmenistan. Mosca avrebbe preferito la solita via da Baku a Novorossisk, sul Mar Nero, che ha però il difetto di passare per Grozny, anche se da poco è stato realizzato un collegamento con Makhachkala, direttamente sul Caspio.

La Russia è avvantaggiata invece dal nuovo oleodotto che va dal Caspio al Mar Nero unendo Tengiz (Kazakistan) a Novorossisk. La società costruttrice cpc (Caspian Pipelines Consortium) appartiene per metà ai russi, ai kazaki e all’Oman, mentre il resto se lo dividono Agip, bp e le americane Chevron e Mobil, che dimostrano come le multinazionali si muovono con altri tempi e in autonomia dalle visioni politiche dei loro governi: questo è il più grande progetto a partecipazione straniera sul suolo dell’ex Unione Sovietica. Tra il Caucaso e il confine cinese si snodano poi altre vie, che a seconda di come andranno le cose potranno avvantaggiare l’uno o l’altro dei giocatori. Dal Caspio attraverso Atasu, una via kazaka firmata Kazmunaigas e Kaztransoil (in collaborazione ovviamente con Pechino, Cnpc) arriva ad Alashankou, nella Xingyang cinese. Russia e Kazakistan approfitterebbero poi di oleodotti e gasdotti che dal nord del Caspio arrivassero ai grandi porti dell’Iran nel Mar Arabico passando per il Turkmenistan, con grande gioia non solo di Putin e Khatami, ma soprattutto dei diretti interessati Nazarbayev e Nyazov.

Pecunia non olet, il petrolio nemmeno. I grandiosi piani per il Trans Afghan Pipelines (oleodotti e gasdotti) dal Kazakistan attraverso Turkmenistan e Afghanistan verso Pakistan e India sono ancora in stallo. Mentre più concreti sono i progetti russo-cinesi per unire Angarsk a Daqing e al porto di Nakhodka. E non è finita. Gas e petrolio devono poi arrivare sino al centro dell’Europa. Guardando in questa direzione ci sono Blue Stream (gas dal Mar Nero russo a Samsun, in Turchia), il Nabucco (gas dallo snodo turco via Bulgaria verso Ungheria e Austria) e altri progetti che vedono l’oleodotto Odessa-Brody prolungato fino in Polonia, a Plock, un altro dalla rumena Costanza fino in Croazia e un terzo dalla Bulgaria (Burgas) sino in Grecia (Alessandropoli).

Un problema insoluto, da cui dipendono i destini di alcuni nuovi corridoi, è invece costituito dalla spartizione giuridica del Mar Caspio, questione non secondaria in bilico da oltre un decennio e che ha provocato in passato veri e propri scambi di cannonate tra i contendenti. Dopo la dissoluzione dell’urss si affacciavano sul bacino non più due Stati (Russia e Iran), ma cinque (si aggiungevano Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan) e ciascuno voleva la sua parte. Ma dividersi i giacimenti di gas e petrolio più grandi del mondo dopo quelli del Golfo e della Siberia non era cosa facile, anche perché prima bisognava stabilire – decaduti gli accordi stipulati tra Mosca e Teheran ancora in epoca sovietica – se il Caspio fosse da considerarsi un mare o un lago. Nel primo caso gli Stati avrebbero controllato poche miglia dalla loro costa e il resto sarebbero state acque internazionali accessibili a tutti; come lago avrebbe dovuto essere diviso a mo’ di torta in cinque parti, a ognuno la sua. Il dubbio è oggi ancora irrisolto, tanto che sul lato nord si è arrivati ad accordi riconosciuti, mentre a sud Azerbaigian, Turkmenistan e Iran non hanno trovato ancora una soluzione. Al di là delle possibili varianti, è facile capire come la ricerca di nuove vie di trasporto da e attraverso l’Asia centrale e il Caucaso meridionale – e sfruttare al meglio soprattutto i giacimenti di petrolio kazaki (Karachaganak e Tengiz) e azeri (Azeri-Chirag-Gunashli) e quelli di gas (oltre a Kashagan e Tengiz in Kazakistan quelli di Shah Deniz in Azerbaigian) – sia una questione che riguarda da vicino un po’ tutti, non solo le multinazionali. È difficile dire chi arriverà primo in questo nuovo gioco a più partecipanti: i contendenti ufficiali (Russia, usa e Cina), con l’interessamento a distanza, ma neanche tanto, di Turchia, Arabia Saudita, Iran, Pakistan e India, daranno vita per un bel pezzo al più grande spettacolo geopolitico dell’inizio del Terzo Millennio. Il premio sarà il controllo su una delle regioni più ricche del pianeta e sulle sue risorse. Probabilmente non ne uscirà un vincitore unico, ma ne trarrà più vantaggio chi sceglierà l’alleato migliore.

Cinque repubbliche, una strategia comune per l’Unione Europea?
Che ruolo ha in tutto questo l’ue? Minimo, ma crescente, sempre stando a sentire il ministro tedesco Steinmeier. Anche perché, anche solo geograficamente parlando, l’Europa dovrebbe avere maggiore interesse, rispetto ad esempio agli Stati Uniti, a che le risorse energetiche caspiche e centroasiatiche trovino nuove vie di sbocco, per diminuire la dipendenza, almeno in teoria, da singoli fornitori. Paradossalmente il comportamento di Bruxelles è stato però quello di non mettere il naso del Grande Gioco, almeno fino a quando non c’è stata una necessità impellente. Interessante è evidenziare come sia arrivata proprio dalla presidenza tedesca la strategia di avvicinamento. La Germania dipende in gran parte dal gas russo (il nuovo progetto sotto il Baltico è una cooperazione tra i due paesi, lanciata dall’asse Schröder-Putin e sostenuta sia da Gazprom che dai tedeschi di Eon e Basf), Berlino è però consapevole della necessità di differenziare. Certo, a livello europeo, programmi come traceca (Transport Corridor Europe Caucasus Asia, la “nuova via della seta”) o inogate (Interstate Oil and Gas Transport to Europe) esistono da diversi anni, ma la loro efficacia è stata marginale. È giunto il tempo di rilanciare. Il commissario per le relazioni esterne della Commissione ue, Benita Ferrero ha fatto sentire la sua voce, lo scorso autunno, sempre ad Astana e anticipando Steinmeier. In un discorso all’Università della capitale kazaka (The European Union and Central Asia – building a 21st century partnership) ha illustrato i pilastri della cooperazione in Asia centrale: dall’energia, al traffico di droga e all’Aids, a politica di sicurezza e riforme democratiche.

Come al solito belle parole ma poca concretezza, anche se forse si è iniziato a intravedere qualcosa. Già lo scorso dicembre è stato siglato con il Kazakistan un accordo che prevede il rafforzamento degli scambi tecnologici e la collaborazione nel campo del nucleare civile. Il compito di fare le prime mosse è passato però ora alla Germania. Al termine del viaggio propedeutico autunnale Frank-Walter Steinmeier, colui che, più di Angela Merkel, ha in mano le redini della politica estera tedesca (uomo di fiducia accanto all’ex cancelliere Schröder, prima come coordinatore dei servizi segreti, poi come capo al Kanzleramt), con un occhio privilegiato alla Ostpolitik, ha ribadito la necessità di una strategia comune con la regia dell’ue. In un’intervista rilasciata ai microfoni della Deutsche Welle ha parlato dei diversi motivi per cui l’Europa deve rivolgersi verso questa regione, non solo quelli economici, ma anche quelli di sicurezza, con riferimento in particolare ad Afghanistan e Iran, i due grandi paesi che si estendono dal Caucaso meridionale alla Cina e confinano con gli Stati dell’ex Unione Sovietica. Senza dimenticare, sulla scia dei buoni propositi della Ferrero-Waldner, gli sforzi sul cammino democratico: il ministro tedesco ha messo l’accento sulla necessaria apertura politica e sulle riforme come “investimento per il futuro”.

Il problema di tutte le repubbliche dell’Asia centrale è infatti la lenta transizione verso la democrazia, con qualcuno che corre più veloce degli altri e alcuni che sembrano aver perso già il treno. Del Tagikistan di Rachmonov abbiamo già detto; in Kazakistan Nazarbayev è in carica dal 1990 ed è stato rieletto con percentuali oltre il 90 per cento nel 1995, nel 1999 e nel 2005 per altri sette anni; le prossime elezioni in Turkmenistan, se ci saranno, sono previste per il 2009 e si sa già chi le vincerà (sempre che la salute tenga); in Uzbekistan Karimov sarà messo alla prova, si fa per dire, quest’anno, mentre i tulipani di Bishkek sono appassiti prima di sbocciare: il cambio di élites in Kirghizistan non è stato altro che il risultato non di una lotta tra forze dittatoriali e forze democratiche, ma tra gruppi di potere rivali. Molti osservatori in ogni caso sono concordi nel ritenere che l’apertura politica ci sarà solo quando le élites che reggono le sorti dei rispettivi paesi (discorso che vale soprattutto per Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan) svilupperanno una strategia di crescita e sviluppo economico non ancorata unicamente su gas e petrolio. Come ci ha confermato direttamente Kanat Berentaev del Public Policy Research Center di Almaty, in Kazakistan, un’organizzazione non governativa impegnata in studi politici ed economici. Secondo Berentaev le risorse naturali sono necessarie inizialmente per trovare sicurezza e stabilità, sul lungo periodo possono però non essere sufficienti. La posizione geografica di Stati come il Kazakistan, a metà strada tra Europa e Cina, con la Russia a ridosso, è sicuramente un buon punto di partenza per lanciare l’economia e intraprendere rapporti sia a occidente (come vorrebbe l’Unione Europea a guida tedesca), sia a oriente (Pechino ha oggi bisogno di gas e petrolio almeno quanto l’Europa, domani ne avrà molto di più), ma ogni paese deve pensare prima di tutto a sviluppare se stesso e la propria democrazia, possibilmente senza ingerenze eclatanti dall’esterno.

La sfida tedesca ed europea è proprio quella di trovare la chiave per instaurare rapporti proficui per entrambi dal punto di vista economico favorendo la crescita democratica: impresa non facile e per molti versi già disattesa, con la frequente accusa di organizzazioni umanitarie verso Berlino e altre capitali di sostenere indirettamente regimi dittatoriali facendo affari con Islam Karimov o Saparmurat Nyazov. E allora? La strada dei compromessi sembra quella più plausibile e realistica. Si è già visto proprio con l’Uzbekistan e le sanzioni del dopo Andijon. A Bruxelles, come a Berlino, non hanno scovato ancora una via maestra: l’isolamento è impraticabile, le sanzioni inefficaci, il dialogo porta a poco, ancor meno un intervento diretto. L’Europa che nel Grande Gioco è stata fino ad oggi alla finestra, si affaccia titubante nell’arena con una strategia ancora da elaborare e verificare sul campo. Non è che siano rosee prospettive.

 



Stefano Grazioli, giornalista e scrittore, è esperto di Russia e Asia centrale.

(c) Ideazione.com (2006)
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