Alla ricerca della vocazione perduta
di Andrea Gilli e Francesco Giumelli
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Con la fine della guerra fredda, è diventato drammaticamente evidente quanto le Forze Armate siano uno strumento essenziale e fondamentale di politica estera, anche per medie potenze come l’Italia. Se infatti durante il quarantennio 1950-90, per via della sua posizione geopolitica e strategica (con annessi benefici: classico caso di buck-passing),1 il nostro paese ha potuto godere di un ruolo di rilievo nell’arena internazionale, con il crollo del Muro di Berlino si è aperta una nuova fase nella quale valgono le vecchie regole della politica internazionale: conta non solo chi ha più carri armati, ma anche chi li sa e li vuole usare. E l’Italia non brilla né nell’una né nell’altra attività. Non solo infatti il nostro bilancio della Difesa è ridottissimo (e in continuo ridimensionamento proprio dall’inizio dalla fine della guerra fredda),2 ma il nostro apparato militare è anche obsoleto, e di conseguenza non in grado di servire i nostri interessi nazionali e materialmente incapace di difendere il nostro territorio, in particolar modo proiettando la sua forza verso aree o situazioni di crisi che, se non risolte, potrebbero compromettere seriamente la nostra sicurezza nazionale3.

Lo strumento militare di uno Stato può essere un mezzo molto efficace per raggiungere obiettivi importanti sia in politica interna, sia in politica estera. Nella visione weberiana, le Forze Armate sono determinanti nell’essenza stessa dello Stato in quanto braccio autorizzato all’uso della forza4. Per questa ragione, uno Stato efficiente e razionale non può prescindere dalla valutazione di questo strumento e dalla corretta considerazione delle sue potenzialità, in special modo nel più vasto contesto della riflessione sulla propria posizione strategica nello scenario globale. Purtroppo, l’Italia ha fallito nel compito di elaborare una strategia che attribuisse alle Forze Armate ruoli ed obiettivi precisi. E ciò non deve sorprendere più di tanto: mancando completamente un’idea coerente di politica estera da perseguire, sarebbe stato difficile immaginare un ruolo per le nostre forze armate in detto contesto. Così, mentre per dirigere la nostra politica estera «si navigava a vista»5, le nostre Forze Armate hanno subìto i più drastici tagli di bilancio, anche per via di una situazione delle finanze pubbliche che minacciava l’esistenza stessa del nostro Stato.

Queste due circostanze (l’assenza di una concezione coerente, per non dire seria, della politica estera, e la drammaticità dei nostri conti pubblici) hanno dunque portato ad una situazione paradossale: l’Italia dispone di un esercito estremamente efficiente (specialmente se paragonato alle risorse che vi investe), stimato per le sue competenze, e che il paese non ha esitato ad utilizzare in più di una situazione, ma per il quale non è ancora stata trovata una vocazione.

Il sistema internazionale mette però sul nostro paese delle pressioni sistemiche che ci intimano ad agire. Possiamo non rispondere, ma dobbiamo anche sapere che tale scelta costerà cara, soprattutto in termini di credibilità e dunque di influenza su un mondo costretto verso l’incertezza e di sicuro sempre meno affabile verso di noi.

Determinare i fini per ristrutturare i mezzi
Chi scrive ritiene infatti che sia estremamente necessaria una ristrutturazione delle nostre Forze Armate, ristrutturazione che prima ancora che tecnica e operativa deve essere politica: bisogna cioè scegliere quali Forze Armate per quale ruolo dell’Italia nella politica internazionale. Bisogna insomma determinare i fini, per decidere come riformare i mezzi, dati alcuni imprescindibili vincoli materiali. Una scelta di questo genere avrebbe notevoli e vaste implicazioni: bisogna decidere se essere più o meno integrati alla nato, se puntare sull’Europa, se avere una proiezione globale o una regionale, se si vuole essere pronti a mandare i soldati in guerra, o se invece ci si accontenta di missioni di peace-keeping e peace-enforcing, eccetera. I costi relativi (il trade-off) di ogni scelta sono diversi: maggiori costi comportano spesso maggiori rischi, ma anche maggiori prospettive. Ciò però non ci esime dalla necessità di scegliere.

In questo nostro scritto cercheremo dunque di spiegare per quale motivo le Forze Armate sono tanto importanti nel campo internazionale, anche per un paese come l’Italia. Quindi ripercorreremo le principali missioni internazionali a cui hanno preso parte i nostri corpi, e come ciò ha giovato all’Italia. Riassumeremo successivamente le principali opzioni di riforma proposte nei tempi più recenti e offriremo una breve panoramica dei vantaggi e degli svantaggi che ognuna di esse comporta, fermo restando un punto da cui non si può prescindere: l’opzione migliore non viene dettata dai mezzi di cui si dispone ma dai fini che ci si prefigge di raggiungere. Ogni paese, sulla base della sua cultura, della sua identità, delle sue prospettive e delle sue risorse sceglie il livello di impegno internazionale che predilige. Non c’è una scelta migliore o peggiore: c’è la scelta che il paese deve compiere. Scelta purtroppo, in Italia, a lungo rimandata per via di un dibattito politico che considera tabù le questioni militari. Proprio per questo motivo, a nostro modo di vedere, sarebbe altamente auspicabile che si inizi a discutere seriamente di Forze Armate, di interessi nazionali e di proiezione militare all’estero. Senza questo dibattito, si potrà pensare a qualsiasi tipo di riforma: ma senza il consenso e il supporto del popolo italiano, essa sarà sempre, se non vana, quanto meno incompleta.

Se durante la guerra fredda la principale minaccia che il nostro paese doveva affrontare era rappresentata dalla possibilità di essere invaso dalle truppe sovietiche e/o di essere colpito dalle sue testate atomiche (cosa che, vista la nostra intrinseca debolezza,6 ha di fatto spostato l’onere della nostra difesa sugli Stati Uniti, attraverso il meccanismo nato), nell’era post-guerra fredda vi è stato un primo riequilibrio nei compiti spettanti ad ogni attore dell’alleanza atlantica7: non è un caso, come vedremo in seguito, che proprio dalla fine della guerra fredda la partecipazione dell’Italia a missioni militari all’estero sia cresciuta esponenzialmente. Con l’11 settembre, però, questo processo ha subìto una nuova accelerazione, anche per via dell’indebolimento relativo osservato dagli Stati Uniti e dovuto essenzialmente alla crescita vorticosa di nuove potenze mondiali quali India e Cina.

Senza eccedere, possiamo dire semplicemente che gli Usa rappresentano ancora il principale garante dell’ordine e della sicurezza mondiale, e soprattutto della nostra sicurezza. Ma perché questo compito di sceriffo mondiale possa essere assolto8, è necessario che gli altri partner della nato si facciano progressivamente sempre più carico di nuovi e impegnativi compiti, così da evitare che Washington sia costretta ad intervenire in ogni situazione di crisi, soluzione che potrebbe altrimenti intaccare la loro posizione di «defender of last resort»9.

Proprio per questo motivo l’Italia dovrebbe attrezzarsi per poter intervenire prontamente ed efficacemente almeno nelle aree geopolitiche di riferimento (Mediterraneo allargato: dai Balcani al Medio Oriente fino al Nord Africa) se non anche oltre (come sta avvenendo in Sudan o in Afghanistan), in modo da operare come una sorta di efficace sostegno degli Stati Uniti e così contribuire simultaneamente e direttamente alla propria sicurezza e al mantenimento dell’ordine internazionale.

Breve storia delle Forze Armate italiane
L’esercito italiano inizia la sua avventura nel 1861, quando l’Armata Sarda del Regno Sabaudo diventa Esercito Italiano per opera del ministro Fanti e quando nasce la Regia Marina dall’unione delle Marine sarda, borbonica, toscana e pontificia ad opera del ministro della Difesa Cavour. Da allora, le Forze Armate italiane hanno alternato fasi di gloria e di dolorose sconfitte, di conquiste coloniali e di rovinose ritirate. Il primo impegno della Marina Militare nel 1866 a Lissa si conclude con una sonora sconfitta che segna ancora oggi la memoria dell’Arma simboleggiata dal fazzoletto nero della divisa. Il primo traguardo è raggiunto dal generale Cadorna nel 1870 quando, dopo gli episodi di Porta Pia, Roma viene integrata al territorio italiano. Nel 1885 inizia lo sforzo coloniale sotto la guida del colonnello Tancredi Saletta che apre la lunga campagna libica conclusasi malamente ad Adua nel 1896. Tuttavia, le ambizioni coloniali italiane non si esauriscono lì, anzi andranno avanti fino al secondo dopoguerra. Nel 1897 si inaugura la serie di impegni internazionali italiani di peace-keeping, con la partecipazione sull’isola di Candia al Corpo inter-alleato che doveva sedare la rivolta dei locali contro la dominazione turca. Esperienza ripetuta pochissimi anni dopo dal corpo di spedizione per porre fine alla vittoria dei “Boxers.” Nel corso della campagna libica del 1911, è l’Italia che per prima utilizza il potere aereo in operazioni belliche. La prima guerra mondiale è combattuta valorosamente dall’Esercito Italiano che pagò un sonoro contributo di sangue per la vittoria: dei 4.000.000 di mobilitati, 600.000 persero la vita (quasi il 7 per cento) e 1.500.000 furono feriti (circa il 30 per cento)10.

Nel 1923 fu creata l’Aeronautica Militare che diventò una Forza Armata indipendente e vera e propria gloria nazionale fino alla seconda guerra mondiale, quando l’Italia deteneva ben 33 degli 84 primati contemplati dalla Federazione Aeronautica Internazionale. Non solo la pratica, ma anche la teorizzazione del pensiero strategico aereo nacque in Italia con il generale Giulio Douhet dal quale prendono spunto tutte le forze aeree del mondo11. Sempre nel ventennio fascista, l’Esercito partecipò alla guerra civile in Spagna e concluse con successo la campagna coloniale in Etiopia. La seconda guerra mondiale rappresentò un momento importante per l’Esercito Italiano poiché l’impietoso giudizio del campo di battaglia ridimensionò permanentemente i disegni di grande potenza dell’Italia. Infatti, da allora, lo strumento militare fu messo in secondo piano ed il bipolarismo che ne seguì ingessò di fatto il dibattito strategico nel paese lasciando una ferita ancora aperta nella memoria collettiva per quanto riguarda l’uso della forza come metodo di risoluzione dei conflitti12.

L’attuale stato delle Forze Armate italiane
Nel corso della breve storia che abbiamo presentato, l’Italia non ha saputo elaborare una strategia di paese all’interno della quale delineare quale uso fare delle proprie Forze Armate, abbandonando un’attenta valutazione dei pregi e difetti del nostro esercito affinché potesse venire impiegato a seconda degli obiettivi che erano realmente alla portata. Al contrario, l’Italia ha alternato manie da grande potenza con comportamenti da piccolo Stato che hanno disorientato le Forze Armate trovatesi spesso, purtroppo troppo spesso, senza una guida.

In verità, la fine della guerra fredda ha avviato il dibattito su quale strategia fosse più adatta per l’Italia, e questo dibattito viene affrontato anche dalle Forze Armate stesse. La pianificazione delle Forze Armate si basa sui compiti stabiliti dal Parlamento (Legge 331 del 14 novembre 1997) e dalle direttive del governo in materia di Sicurezza e Difesa. Tuttavia, è il “Concetto strategico del Capo di Stato Maggiore della Difesa” che, pubblicato con scadenza biennale, è di grande rilevanza per il Documento di Pianificazione di Lungo Termine della Difesa. Tuttavia, l’ultimo documento pubblicato nel 2005 non risolve il problema: cosa fare delle nostre Forze Armate? Nel documento non si chiarisce quali specialità debbano caratterizzare le nostre Forze Armate, bensì ci si limita a sostenere la multifunzionalità dei reparti, cosa che, in altri termini, significa non avere nessuna competenza specifica13.

Purtuttavia l’Italia, e con essa le sue Forze Armate, necessita di una direzione che porti alla creazione di un esercito in grado di svolgere compiti che altri non sono in grado di portare a termine. Nella nostra epoca, essere in grado di garantire affidabilità riguardo certe funzioni in territorio di guerra fornirebbe finalmente all’Italia una collocazione nello scacchiere internazionale. Inoltre, le pur ottime performance ed il discreto stato delle Forze Armate non rendono raggiungibili gli obiettivi di lungo termine fissati nel documento di pianificazione.

Ciò è dovuto anche ai continui tagli effettuati al bilancio della Difesa. Tagli avvenuti contemporaneamente alle crescenti richieste del mondo politico perché le nostre Forze Armate si impegnassero in numerose e variegate operazioni internazionali. Di conseguenza, le forze terrestri sono passate da 299.000 unità agli attuali 112.000 uomini, il che tradotto in altri termini ha significato una riduzione da 24 a 11 brigate. A tale diminuzione si è aggiunta le dismissione di 900 carri armati sui 1200 disponibili nel 1990. Per quanto riguarda la Marina Militare, dai 43.000 uomini e 18/20 unità d’altura si è passati a 34.000 uomini e 14/16 unità d’altura. L’Aeronautica Militare ha subìto anch’essa un notevole ridimensionamento che ha portato l’apparato da 65.000 a 44.000 uomini, da 18 a 13 gruppi di volo intercettori d’attacco e da 330/370 linee di volo alle attuali 24014.

Nel complesso le tre Forze Armate, Esercito, Aeronautica e Marina contano circa 190.000 unità: una notevole differenza rispetto alle  300.000 dei primi anni Novanta, ma una differenza che perde valore quantitativo se consideriamo che nel 2005 la leva obbligatoria è stata abolita e l’esercito ha avviato l’evoluzione verso la professionalizzazione. Certamente, oltre a questi sono da aggiungere le 118.269 unità rappresentate dall’Arma dei Carabinieri, elevati al rango di Forza Armata nel 2000 (ex legge n. 78 del 31 marzo 2000)15. Quindi, complessivamente l’Italia dispone di quattro Forze Armate: Esercito, Aeronautica, Marina e Carabinieri. L’Esercito è a sua volta composto da sei Armi: fanteria, cavalleria, artiglieria, genio, trasmissioni e trasporti e materiali. Senza entrare troppo nel dettaglio, le brigate di stanza sul territorio italiano sono 11: tre meccanizzate (B. Sassari, Granatieri di Sardegna e Aosta), due alpine (Julia e Taurinense), due corazzate (Ariete e Pinerolo), una paracadutisti (Folgore), una bersaglieri (Garibaldi), una aeromobile (Friuli), e una cavalleria (Pozzuolo del Friuli)16.

Dopo il passaggio da una struttura territoriale ad una funzionale, da qualche anno l’Aeronautica è divisa in tre comandi: comando difesa aerea, il comando forze attacco e ricognizione, ed il comando forze aeree trasporto e supporto. Dal Comando Forze Difesa Aerea (Divisione Caccia Aquila) dipendono il 4°stormo (di stanza a Grosseto), il 5° (Cervia-Ravenna), il 9° (Grazzanise-Caserta), il 36° (Gioia del Colle-Bari) ed il 37° stormo (Trapani Birgi-Trapani) che hanno compiti di difesa del territorio nazionale. Dal Comando Forze Attacco e Ricognizione (Divisione Caccia Drago) dipendono il 2° stormo (Rivolto-Udine), il 6° (Ghedi-Brescia), il 32° (Amendola-Foggia), il 50° (San Damiano-Piacenza), il 51° (Istriana-Treviso), il 17° (Padova), l’Aeroporto di Aviano (Pordenone) ed il Comando Aeronautico di Goose Bay (Labrador, Canada) che hanno la capacità di operare oltre i confini nazionali per la tutela e gli interessi del paese. Dal Comando Forze Aeree Trasporto e Supporto (IX Brigata Aerea “Leone”) dipendono il 14° e il 15° stormo di stanza a Pratica di Mare-Roma), il 31° stormo, il 41° (Sigonella-Catania), il 61° (Lecce), il 72° (Frosinone), le Frecce Tricolori ed i centri S.A.R. (Search and Rescue) l’82° (Trapani Birgi), l’83° (Rimini) e l’84° (Brindisi) che hanno i compiti di addestramento e supporto dell’Arma17.

La Marina Militare è organizzata in sei comandi dislocati a Taranto, La Spezia, Augusta, S. Rosa e Brindisi: il Comando In Capo della Squadra Navale (cincnav-Roma), il Comando delle Forze d’Altura (comforal-Taranto), il Comando delle Forze da Pattugliamento per la Sorveglianza e la Difesa Costiera (comforpat-Augusta), il Comando delle Forze Aeree (comforaer-S. Rosa), il Comando delle Forze di Contromisure Mine (comfordrag-La Spezia), il Comando della Forza da Sbarco della Marina Militare (comforsbarc-Brindisi) e il Comando delle Forze Subacquee (comforsub-Taranto)18.

I Carabinieri sono guidati dal Comandante Generale, mentre la seconda figura più importante è il Capo di Stato Maggiore sotto il cui comando si trovano 6 Reparti: I Reparto “Organizzazione delle Forze”, II Reparto “Impiego delle Forze”, III Reparto “Telematica”, IV Reparto “Logistica”, V Reparto “Comunicazione ed Affari Generali” e VI Reparto “Pianificazione Programmazione Bilancio e Controllo”. Tuttavia, la peculiarità dei Carabinieri è l’organizzazione territoriale suddivisa in 5 Comandi Interregionali, 19 Comandi di Regione, 102 Comandi Provinciali, 17 Comandi di Reparto Territoriale, 538 Comandi di Gruppo o Compagnia, 36 Tenenze e 4632 Stazioni. Decisamente una importante presenza sul territorio.19 Inoltre, i Carabinieri dispongono di tre reggimenti — tra cui il famoso Tuscania — che possono essere impiegati all’estero con funzioni di MSU (Military Specialized Unites) e di polizia militare.20

Oltre alla naturale protezione dei confini dello Stato e della nazione da attacchi militari convenzionali, tutte e quattro le Forze Armate svolgono funzioni di sicurezza sia in Italia che all’Estero. All’interno dei confini nazionali hanno partecipato ad operazioni di soccorso alla popolazione in occasione di calamità naturali, ma hanno anche svolto funzioni di sicurezza quale “l’operazione Domino” contro la minaccia terroristica all’Italia.

Allo stesso tempo, circa 6500 soldati e più di mille carabinieri sono impiegati all’estero in Operazioni di Supporto alla Pace21. L’Italia svolge un ruolo di rilievo in questi contesti, tanto che nel 2005 ha assunto il comando della missione Isaf in Afghanistan, Althea in Bosnia e Kfor in Kosovo. Il nostro paese ha partecipato alle missioni internazionali in Libano (1982), Namibia (1989), Albania (1991), Kurdistan (1991), Somalia (1992), Mozambico (1993), Bosnia (1995), Timor Est e Kosovo (1999), Congo (2001), Sudan (2003), Afghanistan (2002), Iraq (2003) e Libano (2006)22. Le missioni internazionali hanno caratteristiche particolari che, tuttavia, non dovrebbero prescindere dalla salvaguardia degli interessi nazionali. Le missioni di peace-keeping, ovvero quelle rivolte al mantenimento della pace in zone di conflitto, e di peace-enforcement, quelle in cui la pace deve essere imposta alle parti in causa, hanno l’obiettivo di contribuire alla stabilizzazione di aree regionali che possono avere ripercussioni negative sulla sicurezza del paese, oltre al rispetto degli impegni presi in seno alle organizzazioni internazionali di cui facciamo parte. Le missioni internazionali possono poi avere obiettivi legati alla sicurezza, come in Afghanistan ed Iraq, dove lo scopo è quello di affrontare una minaccia diretta alla sicurezza internazionale. Nel complesso, le Forze Armate italiane hanno dimostrato una notevole duttilità nell’operare in contesti nazionali ed internazionali nonostante la classe dirigente italiana non abbia mai affrontato realmente la questione strategica del paese e, di conseguenza, non abbia mai assegnato ai nostri militari una chiara missione da compiere. Il discreto stato delle Forze Armate, insieme alle grandi capacità organizzative ampiamente dimostrate negli ultimi anni, provano che il vero potenziale dei nostri militari deve ancora manifestarsi. Per massimizzare l’efficacia dello strumento militare al servizio degli interessi nazionali c’è bisogno di una strategia-paese che assegni un ruolo alle nostre Forze Armate e contemporaneamente contribuisca a delineare e individuare le aree di specializzazione in cui sarebbe opportuno rafforzare la nostra presenza.

Le ipotesi di riforma
Alla luce dello stato attuale delle nostre Forze Armate, e delle ragioni prima esposte per le quali una media potenza come l’Italia deve disporre di una forza militare in grado di intervenire prontamente ed efficacemente all’esterno dei propri confini militari, procediamo qui di seguito elencando le principali opzioni di riforma delle nostre Forze Armate.

In questa sede ci limiteremo a riprendere le conclusioni a cui sono giunti una serie di studi comuni tra la Rand Corporations ed il CeMiSS (Centro Militare di Studi Strategici).23 Il nostro esercito, come già detto, deve sostanzialmente essere riformato in modo da poter intervenire efficacemente all’esterno dei confini nazionali per risolvere quelle crisi che, se non tamponate per tempo, rischiano di aprire cancrene alla lunga difficilmente curabili.

Questa direzione ha ovviamente diverse sfaccettature, così riassumibili. a) Global Full Spectrum: con questa opzione l’Italia si doterebbe di tutte le competenze necessarie per affrontare i diversi tipi di intervento (dai conflitti ad alta intensità alle operazioni di peace-keeping) su scala globale. b) Nicchia globale: con questa soluzione, invece, il nostro paese potrebbe intervenire su scala globale ma solo per svolgere determinate funzioni. Ciò, di fatto, implica una ridotta capacità di intervento e in generale una ridotta assunzione di rischi (ad esempio  sviluppo di capacità logistiche). c) Regional Full Spectrum: questa soluzione doterebbe l’Italia di un esercito in grado di operare con prontezza ed efficacia un tutta la zona balcano-mediterranea, mentre le sue possibilità di intervento all’esterno di tale area sarebbero notevolmente ridimensionate. d) Global Stability Operations: questa opzione permetterebbe all’Italia di sviluppare capacità di intervento di post-conflict resolution, incentrate cioè nel peace-keeping e nell’intervento umanitario, su scala mondiale. e) Nicchia regionale: questa opzione è identica a quella omonima globale, se non appunto per il fatto che circoscriverebbe la capacità di intervento nei teatri regionali di competenza (Balcani e Mediterraneo). f) Regional Stability Operations: come nel caso precedente, è analoga a quella globale, se non per il fatto che focalizzerebbe le nostre capacità sui teatri regionali circostanti.

Come già ricordato all’inizio di questo scritto, non c’è un’opzione buona e una cattiva, una migliore e una peggiore24. C’è l’opzione che il paese ritiene più adatta alla luce dei costi, dei vantaggi e dei rischi che essa comporta, della compatibilità con la sua storia nazionale e con la sua visione del sistema internazionale. Una scelta, però, va compiuta. Ogni opzione comporta, a sua volta, delle ulteriori scelte, anch’esse a loro volta da ponderare con i vari fattori in gioco e con la propria concezione della politica internazionale. Visto il carattere divulgativo di questo nostro saggio, sottolineeremo alcuni passaggi fondamentali in modo da chiarire la materia del contendere.

La decisione di sviluppare un esercito che svolga funzioni di nicchia a livello globale richiede altresì di optare tra capacità di intervento rapido e capacità di sustained operations. Mentre nel primo caso si parteciperebbe direttamente alle fasi di combattimento, con i rischi e oneri che ciò comporta (sarebbero per esempio necessari numerosi velivoli militari di trasporto, un’elevata integrazione con le altre forze della coalizione – soluzione che, nel caso della Marina o dell’Aviazione, può essere estremamente costosa), nel secondo caso ci si occuperebbe in prevalenza della fase post-conflict (ciò richiederebbe velivoli in prevalenza di tipo commerciale per il trasporto dei nostri militari, differenti tipi di addestramento, ma anche la disponibilità e la volontà di prendere impegni di lungo termine)25. Lo sviluppo di capacità di nicchia richiede ovviamente di determinare anche quali capacità di nicchia sviluppare, e ciò dipende dal contesto che si predilige (lo sviluppo di una capacità navale ha differenti implicazioni e soprattutto un diverso valore a seconda che si guardi con un’ottica europea invece che transatlantica), ma anche dai propri vantaggi comparati (rafforzare i nostri punti di forza richiede ovviamente minori costi: gli Alpini, i Carabinieri e alcuni reparti della Marina sono per esempio particolarmente apprezzati per le loro competenze e per la loro efficacia e, allo stesso tempo, ricoprono dei ruoli per lo più vacanti all’interno della nato).

La soluzione Regional Full Spectrum, dall’altra parte, farebbe dell’Italia una sorta di poliziotto regionale in grado di partecipare direttamente a guerre di vasta scala, conflitti di medie dimensioni (missioni di counter-insurgency, eccetera) e a stability-operations. Ma contemporaneamente ci allontanerebbe dal resto della politica mondiale: anche assumendo che l’Italia rimanga in futuro nel suo attuale sistema di alleanze (risvolto probabile ma non certo, visto che addirittura alcune alte cariche dello Stato sono di diversa opinione), la soluzione qui analizzata restringerebbe notevolmente gli orizzonti del nostro paese, declassandoci di sicuro come alleati (a meno che il Mediterraneo non si trasformi in un centro nevralgico di crisi: ma ciò, per la sicurezza stessa del nostro paese, non è da auspicare).

La soluzione Global Full Spectrum sarebbe verosimilmente troppo impegnativa per il nostro paese (ci richiederebbe di essere una sorta di piccoli Stati Uniti), sia in termini di risorse materiali, che da un punto di vista identitario e culturale, mentre soluzioni regionali come quella di nicchia o quella delle Stability Operations rischiano dall’altra parte di marginalizzarci eccessivamente. Non solo per via del fatto che ci escluderebbero dalle missioni più importanti e fuori dalla nostra aerea di riferimento, ma anche perché, essendo meno costose, esse potrebbero essere facilmente adottate da altri paesi che mirano a conquistare dei punti nella scala delle alleanze con Washington.

In un mondo globalizzato, quella militare è ancora la dimensione più importante nel concetto di potere, per questa ragione ogni Stato non deve esimersi dal riflettere su quali siano i metodi migliori per impiegare le proprie Forze Armate. Purtroppo in Italia abbiamo visto che non è così. A fronte di un passato segnato da episodi positivi, da un presente in cui i nostri soldati sono impiegati in missioni all’estero e nell’importante presenza operativa su tutto il territorio nazionale, il dibattito sull’uso della forza e delle Forze Armate rappresenta ancora un tabù. In Italia di questi temi non si può parlare ed i nostri militari sono costretti ad operare in un clima di sfiducia ed ostilità26.

In altre parole, ogni Stato dovrebbe sforzarsi di elaborare una strategia militare ed una dottrina militare che assegnino obiettivi e compiti alle proprie Forze Armate27. L’Italia non solo ha fallito in questa missione, ma attraverso un processo lento e graduale di riduzione dei suoi finanziamenti sta mettendo a rischio la funzionalità di base del nostro esercito. Nonostante i sempre crescenti impegni che vengono richiesti alle Forze Armate, dal mondo politico non arrivano altrettante risorse sufficienti per dare loro la possibilità non solo di vincere la sfida alla trasformazione,28 ma anche di svolgere le normali funzioni di manutenzione e routine amministrativa. Due dati sono sufficienti per esemplificare la situazione. Nel 2004, mentre lo Stato italiano ha stanziato circa 150 milioni di euro per finanziare i programmi di ricerca scientifica in materie militari, la Francia ha speso per questa voce circa 1,5 miliardi di euro. Nel 2004 l’ammiraglio Di Paola ha sottolineato come l’Italia spenda meno per le proprie forze armate di Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, Polonia, Olanda, Svezia e Finlandia29. Per inciso, nel 2005 e nel 2006 le spese per le Forze Armate sono ulteriormente diminuite e, mentre scriviamo, il dibattito è aperto sul taglio previsto dalla manovra finanziaria del 2007.30

In definitiva, le Forze Armate italiane hanno saputo iniziare il processo di riforma che ha portato il nostro paese ad essere uno dei più presenti in missioni nato, ue e onu. Questo comportamento è indice di un buon livello di preparazione che deve essere considerato un punto di forza. Allo stesso tempo, però, la guida politica non ha saputo attribuire alle Forze Armate italiane un ruolo nel disegno strategico del paese all’alba del Ventunesimo secolo. A ciò si aggiunga il fatto che, mentre le risorse continuavano ad essere ridotte, la classe politica, conscia a sua maniera dell’importanza politica e simbolica della partecipazione alle missioni internazionali, non ha desistito dal mandare il nostro esercito in giro per il mondo. Ciò è sicuramente positivo, visto che in queste missioni il nostro esercito ha operato egregiamente, contribuendo così alla crescita della nostra credibilità nell’arena internazionale. Ma non curandosi delle risorse da destinare alle nostre Forze Armate, la nostra classe politica ha anche mostrato la sua totale immaturità: voleva gli onori, ma non era disposta a prendersene gli oneri. Il risultato è paradossale: si vuole un esercito per fare bella mostra di sé in giro per il mondo, ma non lo si vuole mettere in condizione di operare con efficacia e in sicurezza. Alla lunga, un tale azzardo non può che avere delle pesanti ripercussioni, in primo luogo in termini di efficacia ed efficienza del nostro mezzo militare.

Va a proposito sottolineato il fatto che un epilogo simile non è stato possibile per via dell’inesistente dibattito strategico che distingue il nostro paese, probabilmente unico caso tra i membri del G7 nel quale non si è in grado di attribuire una funzione precisa alle proprie Forze Armate.

In questo breve saggio – cercando di far circolare presso un pubblico più vasto delle informazioni e delle preoccupazioni che purtroppo esistono solo tra gli ambienti militari o tra quelli accademici che si occupano di dette questioni – abbiamo ricordato una serie di opzioni fra le quali la classe politica dovrebbe scegliere. All’Italia ora non resta che optare fra una di queste sei strade e prediligere quella che meglio si adatta alle peculiarità del paese. L’Italia ha bisogno di un dibattito strategico: è dunque il caso di iniziare a parlare senza falsi pregiudizi e con una buona dose di realismo di come poter utilizzare le Forze Armate per servire gli interessi della nazione e della pace. Questo non può che essere il punto di partenza di ogni riforma del nostro esercito. E soprattutto è ora di dimettere il tabù che gli italiani hanno verso i militari e l’uso della forza e decidere, finalmente, «che cosa fare con le Forze Armate»31.

Note
1.       Si veda a proposito, T. V. Paul, Michael Fortmann, et. al., Balance of Power: Theory and Pratice in the 21st Century, Stanford University Press, Stanford, 2004.
2.       Giovanni Martinelli, “Forze Armate italiane, più missioni e meno soldi”, Pagine di Difesa, 14 Luglio 2005.
3.       La proiezione della forza militare, attualmente, è ben più rilevante della difesa del territorio nazionale: se è infatti improbabile un attacco contro il nostro Paese (fatta eccezione per la vulnerabilità a missili a lunga gittata) è verosimile pensare che il deterioramento o lo scoppio di focolai di Guerra in aree strategiche per il nostro Paese possa compromettere seriamente la sicurezza dell’Italia.
4.       Max Weber, La Scienza come professione. La Politica come professione, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2001.
5.       Aurelio Lepre, Storia della Repubblica Italiana, il Mulino, Bologna, 2003, 273.
6.       Sia in termini di capacità militari che di coesione socio-politica, si veda a proposito Barry Buzan, People State and Fear: An Agenda for International Security Studies in the Post-Cold War Era, Lynne Rennier Publishers, Boulder, 1991.
7.       Ministero della Difesa, Libro Bianco, 2002, disponibile all’indirizzo internet http://www.difesa.it/Approfondimenti/Libro+Bianco/ (Novembre, 2006); e Capo di Stato Maggiore della Difesa, Concetto Strategico, 2005, disponibile su http://www.difesa.it/NR/rdonlyres/7CF00FEA-D74E-4533-B3ED-9CCCD8B79E89/0/libroconcettostrategico.pdf (Novembre, 2006).
8.       Si veda Colin S. Gray, The Sheriff: America’s Defence of the New World Order, Kentucky University Press, Lexington, 2004.
9.       Gray, ibid.
10.       Sito web Esercito, http://www.esercito.difesa.it.
11.       Giulio Douhet, Il Dominio dell’Aria: saggio sull’arte della guerra aerea, Stabilimento poligrafico dell’Amministrazione della Guerra, Roma, 1921. Quest’opera è fra le più citate negli studi strategici sull’aviazione ed il nome del generale italiano è riportato in tutti i manuali contemporanei di studi strategici e del pensiero militare.
12.       Virgilio Ilari, Storia Militare della Prima Repubblica 1943-1993, Nuove Ricerche, Ancona, 1994; Ciro D’Amore, Governare la difesa: Parlamento e politica militare nell’Italia repubblicana, F. Angeli, Milano, 2001.
13.       Capo di Stato Maggiore della Difesa, Concetto Strategico, 2005.
14.       Tony Settembrini, “Ulteriori Tagli all’Esercito Dannosi per la Difesa”, Pagine di Difesa, 30 Maggio 2005.
15.       Capo di Stato Maggiore della Difesa, Concetto Strategico, 2005; e Stato Maggiore della Difesa, “Investire in Sicurezza. Forze Armate: Uno strumento in Evoluzione”, Tecnologia e Difesa, n. 19, 2005.
16.       Sito web Esercito, http://www.esercito.difesa.it.
17.       Sito web Aeronautica, http://www.aeronautica.difesa.it.
18.       Sito web Marina Militare, http://www.marina.difesa.it.
19.       Per ulteriori approfondimenti sulla struttura operativa dell’Arma dei Carabinieri, http://www.carabinieri.it.
20.       Stato Maggiore della Difesa, “Investire in Sicurezza. Forze Armate: Uno strumento in Evoluzione”, Tecnologia e Difesa, n. 19, 2005.
21.       Giulio Fraticelli, “L’esercito italiano nella funzione di stabilizzazione e ricostruzione”, Rivista Militare, n. 2, 2004; e Enzo Gasparini Casari, “Al di là della forza e della violenza”, Rivista Militare, n. 4, 2004.
22.       Sito web esercito http://www.esercito.difesa.it e sito web Aeronautica, http://www.aeronautica.difesa.it.
23.       Changing US Defense Policy and the War on Terrorism: Implications for Italy and US/Italian Relations, Artistic & Publishing Company, Rome, December 2002; Transforming Italy’s Military for a New Era: Options and Challenges, Rubbettino, Soveria Mannelli, november 2003; Restructuring the Italian Armed Forces for a New Era: Capabilities and Options, Rand Corporations, Santa Monica, May 2006.
24.       Ovviamente ci sono, ma le alternative demenziali sono già state depennate da questa lista. Purtroppo, però, negli ambienti politici alcune di esse continuano a circolare.
25.       Che l’Italia in realtà ha già preso e sta mostrando di saperli portare a termine, come in Afghanistan e in Bosnia.
26.       Fabrizio Battistelli, Gli Italiani e la Guerra. Tra senso di insicurezza e terrorismo internazionale, Carocci Editore, Roma, 2004; Angelo Panebianco, Guerrieri Democratici. Le Democrazie e la Politica di Potenza, il Mulino, Bologna, 1997; e Marina Nuciari, “Italy: a military for what?” in Charles Moskos, J.A. Williams, David R. Segal (eds), The Postmodern Military, Oxford University Press, Oxford, 2000.
27.       Per strategia militare si intende l’impostazione delle classe politica su come usare le forze armate per raggiungere obiettivi politici, mentre per dottrina militare si intende come le forze armate dovrebbero essere organizzate per rispondere alle minacce. Per ulteriori approfondimenti, Barry Posen, The Sources of Military Doctrine. France, Britain and Germany between the World Wars, Cornell University Press, Ithaca, 1984.
28.       Giampaolo Di Paola, “La Trasformazione è la Sfida più Difficile”, Discorso pronunciato al Centro Alti Studi per la Difesa, 15 giugno 2004.
29.       Giovanni Martinelli, “Forze Armate Italiane, più missioni e meno soldi”, Pagine di Difesa, 14 luglio 2005.
30.       Michele Nones, “Poche luci e ancora molte ombre nel bilancio della Difesa”, Affari Internazionali, 2006; Tony Settembrini, “Ulteriori Tagli all’Esercito dannosi per la Difesa”, Pagine di Difesa, 30 maggio 2005; Piero Laporta, “Se non ci sono i soldi sciogliamo le Forze Armate”, Libero, 28 dicembre 2005; e Giulio Fraticelli, “Più risorse per un Esercito combat e umanitario”, Pagine di Difesa, 5 maggio 2005.
31.       Vittorio Vasari, “È ora di decidere cosa fare con le forze armate”, Pagine di Difesa, 13 giugno 2005.




Andrea Gilli, studente del MSc in International Relations alla London School of Economics and Political Science. 

Francesco Giumelli, dottorando di ricerca in Scienza della politica e Relazioni internazionali presso l’Università degli Studi di Firenze e visiting student al mit di Boston.

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