Otto mesi di solitudine
di Domenico Mennitti
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

La grande manifestazione di protesta contro la legge finanziaria, organizzata a Roma dalla Casa delle Libertà, ha fatto registrare un enorme successo di partecipazione, nonostante la defezione di Casini. Ovviamente l’iniziativa si presta ad interpretazioni diverse; tuttavia bisogna subito dire, per sgomberare il campo da qualsiasi equivoco, che il tentativo di leggerla in chiave ironica ha avuto breve spazio e mediocri autori.

Che siano stati un milione o il doppio i manifestanti, è apparso subito evidente che una mobilitazione così massiccia e così intensamente vissuta come atto di protesta non è materia di contabili e neppure di quei politologi che da qualche tempo immaginano di poter promuovere il loro ruolo da quello di scienziati della politica (capaci di svolgere interessanti analisi sugli eventi) a quello di protagonisti della politica (capaci cioè di promuovere gli eventi e di volgere a proprio favore le conseguenze).

La verità è che la lettura del paese propinata dalla maggior parte degli analisti sino ad aprile dell’anno in corso, cioè sino alla vigilia delle elezioni, era completamente sbagliata: hanno osservato e raccontato un’altra Italia e, soprattutto, altri italiani. Infatti non c’è stata la disfatta del centrodestra e, ancora più chiaramente, non c’è stato il trionfo della coalizione contrapposta; di più quest’ultima, appena tornata ad occupare le postazioni del potere, si è immediatamente incagliata nella rete delle contraddizioni interne, taciute in campagna elettorale per l’evidente ragione che “l’unione fa la forza”. Ma la persistenza dei contrasti non fa la forza dell’Unione, l’ultima “cosa” inventata a sinistra, come le altre di respiro corto.

La verità è che l’Unione non ha vinto (ammesso che quei ventimila voti siano tutti veri, si tratta comunque di una maggioranza risicata, esposta agli umori parlamentari) e non ha prodotto un governo stabile (bisogna ricordare che la tradizione dei partiti uniti è quella dei governi provvisori, ostinatamente esposti alla precarietà anche quando in teoria avrebbero dovuto contare su sostegni numericamente molto consistenti). Questo stato di cose, prima di essere materia di dotte riflessioni, induce a constatare che la sostanziale parità delle forze in campo non è un elemento di equilibrio, bensì di forte squilibrio, di precarietà, in una parola, di crisi.

Ecco: l’Italia è in crisi. Dopo le elezioni lo è molto più di prima e da una parte e dall’altra c’è finalmente la consapevolezza di quanto la situazione sia divenuta drammatica. È sempre accaduto che la legge finanziaria sia stata oggetto di contrasti e persino di lacerazioni: da una parte la maggioranza – qualsiasi maggioranza – a dimenarsi per far quadrare i conti, dall’altra l’opposizione – qualsiasi opposizione – a proclamare la inutilità di manovre sadicamente restrittive. Ma non è mai accaduto che si determinasse, non fra i partiti o le coalizioni ma fra i cittadini, la diffusa percezione che si sia approvata una legge iniqua, sadicamente punitiva per tutti, inadeguata sia a risanare il bilancio che a programmare lo sviluppo. Mai è accaduto che i lavoratori abbiano scavalcato i sindacati e che questi, per conservare un minimo di credibilità, siano stati costretti a mobilitarsi contro il governo invocato, votato e infine abbandonato al proprio insostenibile destino.

Così la manifestazione del centrodestra è stata l’interprete genuina del sentimento nazionale ed ha messo in moto un processo politico che nei giorni immediatamente successivi ha provocato accelerazioni importanti. La competizione elettorale, gli schieramenti che vi hanno partecipato, le regole che hanno rinnovato il modo di esprimere la rappresentanza, l’attribuzione ai partiti di un potere che non meritano e che non riescono ad esercitare hanno prodotto un vuoto politico gravissimo. La legge elettorale salutata come il ritorno trionfale al proporzionale in verità sta resuscitando il maggioritario, perché è questo il processo innescato dal terremoto del 1994, è questo il principio che ormai ispira il comportamento degli elettori, è questa l’aspirazione che prevale rispetto alla teoria delle botteghe partigiane.

Sulla strada della interpretazione della volontà dei cittadini il centrodestra è obiettivamente più avanti della coalizione avversaria, nonostante Casini punti a smarcarsi perché soffre dell’egemonia berlusconiana. Ma il Cavaliere è ancora il leader insostituibile di questa destra, l’unico capace di suscitare la fiducia nel suo popolo perché – diciamola tutta – è anche l’unico che non lo ha tradito, non lo ha abbandonato ritenendo inesorabile la sconfitta, non lo ha mollato sino all’ultimo giorno, non si è fatto condizionare dalle previsioni catastrofiche di quanti, appunto, hanno raccontato per anni un’altra Italia. Berlusconi è il leader perché, nonostante rivendichi una natura impolitica, in fondo è il più politico di tutti, in quanto la politica non è solo analisi, riflessione, mediazione; è pure sensibilità, azione, rischio. Non è campo da attraversare sempre con calcolo prudente, spesso è terreno sul quale occorre muoversi con temperamento, con gesti forti e determinati. Berlusconi non è un prudente, neppure un moderato come pure ama definirsi. È un combattente, uno che non arretra mai. Per questo incute timore agli avversari e trasmette fiducia ai suoi.

Il tempo delle scelte
È tempo che si interpreti bene la fase che il nostro paese sta attraversando e di scegliere comportamenti adeguati alle difficoltà che incombono; altrimenti vince la paura, non prevale la prospettiva coraggiosa. La destra ha governato lungo cinque anni accidentati sul piano interno ed ancor più su quello internazionale. Non ha accreditato di sé l’immagine di una forza riformista, soprattutto nella direzione della modernizzazione del paese. Le è mancata la spinta per mettere mano alle grandi riforme, soprattutto a quella della Costituzione, riducendola ad un compromesso di fine mandato per conservare il favore della Lega. Ma sul versante del centrosinistra, la polemica sostenuta nei confronti dell’ex governo non ha segnato nessuna novità ed il dibattito politico-culturale si è protratto asfittico avendo come motivo centrale la denigrazione dell’avversario. Speravano di stravincere predicando il declino, raccontando in maniera melanconica e un po’ truffaldina le sciagure di un paese che non riusciva neppure a completare la quarta settimana del mese con lo stipendio che riceveva. Ora che pigiano frenetici sui bottoni del potere, sono incapaci di lanciare un segnale di speranza e si aggirano nelle piazze con l’incubo di subire contestazioni.

Certo, può anche essere che i fischi provengano da elettori del centrodestra, ma la reiterazione delle proteste e la mancanza di reazione ad un gesto che nessuno – sia chiaro – considera edificante stanno a significare che fischiare vorrebbero tutti, che non c’è italiano che se la sente di applaudire. In questa condizione ha relativa importanza l’approvazione della legge finanziaria, che tutti considerano ormai un atto necessario, perché l’esercizio provvisorio del bilancio sarebbe davvero una irreparabile iattura. Ma Prodi sa che l’orizzonte resta burrascoso: gli argomenti già segnati nell’agenda politica sono di grande portata e di rischiosa soluzione, per cui resta l’interrogativo sulla tenuta della maggioranza e del governo, affidata ad eventi sui quali l’ambiguità dei comportamenti è già un segno di precarietà. L’incognita maggiore riguarda il Partito democratico, dal quale hanno già preso le distanze le formazioni estreme e rispetto al quale pure i soci fondatori (ds e Margherita) hanno conti interni difficili da far quadrare.

Il centrodestra, soprattutto Berlusconi, non può consentirsi tempi troppo lunghi, ma sarebbe un errore precipitare le cose: deve definire gli obiettivi strategici, affrontare e risolvere con determinazione i rapporti fra alleati, individuare gli strumenti migliori per cogliere utili risultati, portare alla ribalta una classe dirigente che sia di destra come l’elettorato. L’anno nuovo metterà alla prova l’uno e l’altro fronte. Entrambi faranno bene a smettere di polemizzare sul numero dei voti espressi per puntare a guadagnare quelli delle prossime consultazioni elettorali. Sicuramente per le Amministrative di primavera, e poi, chissà. Tutto potrà accadere.




Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi, presidente della Fondazione Ideazione.

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