L'Europa del no
di Barbara Mennitti
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Sul sito ufficiale del governo tedesco, www.bundesregierung.de, nella sezione dedicata all’Europa, si può rintracciare un breve documento del 2005 dal titolo “Ist die Türkei reif für einen Eu-Beitritt?”, la Turchia è pronta ad entrare in Europa? Questo documento divulgativo vorrebbe riassumere in sette domande e altrettante risposte la difficile questione dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea ed è particolarmente interessante perché proviene non solo dal paese che più di tutti vi si oppone, ma anche perché sarà proprio alla Germania che da gennaio del 2007 spetterà il turno di presidenza dell’Unione Europea. Il documento è un piccolo capolavoro di diplomazia. Vi si riconoscono i «sostanziali progressi» compiuti dalla Turchia nel campo dei diritti umani: l’abolizione della pena di morte, la normalizzazione della situazione nel Sud-est del paese, il permesso di trasmettere trasmissioni radiofoniche e televisive in lingue diverse dal turco e altre misure che dovrebbero avvicinare il paese di Erdogan agli standard occidentali. Peccato però – si conclude il paragrafo qualche riga più sotto – che Amnesty International lamenti che queste riforme rimangano in gran parte lettera morta e non vengano messe in pratica. «Il governo turco ha dimostrato – chiosa il documento – di essere in grado di porre mano anche a riforme difficili. Ora deve dimostrare di volere davvero applicare queste riforme». E la questione diritti umani è liquidata.

Il documento continua affrontando le questioni economiche. La Turchia, si riconosce, è in gran parte già un’economia di mercato, sicuramente molto più di quanto lo erano al momento del loro ingresso nell’Unione Europea i dieci nuovi paesi membri, che nel maggio del 2004 avevano appena messo mano alle riforme che li avrebbero trasformati da economie pianificate ad economie di mercato. E quindi questo prerequisito essenziale è assolto. Il reddito pro-capite dei turchi, si aggiunge, è poco meno del doppio di paesi come la Romania, il cui ingresso nell’ue è previsto per il 2007, e l’economia turca in generale registra una crescita dinamica. Anche per i due milioni e mezzo di ospiti turchi in Germania vi sono parole di elogio. Essi rappresentano un notevole potenziale economico: 800mila lavoratori, dei quali circa 41mila sono indipendenti e quasi 20mila imprenditori che hanno creato circa 300mila posti di lavoro. Questo idillio multiculturale si infrange però, e senza preavviso, sulla quinta domanda, che si chiede in un grigio linguaggio un po’ burocratico se l’ingresso nell’ue aumenterebbe «il potenziale di migrazione» dalla Turchia alla Germania. Sarà necessario, si risponde, accordarsi per un periodo di passaggio per evitare che entri immediatamente in vigore la libera circolazione dei lavoratori, così come è stato fatto per i paesi che sono entrati nel 2004.

Ma il colpo di grazia alla questione arriva proprio alla fine. Ci si chiede se la Turchia entrerà a breve nell’Unione e la risposta, lapidaria, recita che «la sensazione che un ingresso della Turchia sia inevitabilmente alle porte è errata». Certo, i negoziati sono stati aperti il 3 ottobre del 2005, ma «se dovesse risultare che la Turchia ricade negli problemi già superati o non realizza le riforme necessarie, si potranno abbandonare o interrompere le trattative». In ogni caso, si conclude, «nel migliore dei casi l’ingresso della Turchia non sarà possibile prima del 2014». Alla faccia dell’ottimismo.

Questi tre punti riassumono i principali motivi della ferma opposizione che la Germania esercita all’ingresso nell’Unione Europea del paese di Erdogan suggerendo, invece, di stringere uno speciale accordo di partenariato economico e commerciale. Un ruolo in tutto questo gioca sicuramente anche la paura che, spostando le frontiere dell’Unione sempre più ad est, i paesi che storicamente hanno costituito il cuore geografico e politico dell’Europa, il cosiddetto asse franco-tedesco, verrebbero naturalmente a perdere la loro centralità e, con essa, parte della loro importanza. E non si tratta solo di geografia. Se la Turchia entrasse nell’Unione Europea fra non meno di dieci anni, ragionano in Germania, quasi sicuramente sarebbe il paese più popoloso dell’intera Unione. Secondo le nuove regole del trattato costituzionale, che fra dieci anni si presume sarà entrato in vigore almeno nei suoi aspetti più importanti, per prendere decisioni a maggioranza basterà l’approvazione del 55 per cento degli Stati dell’Unione, che equivale al 65 per cento della popolazione. Questo vuol dire che la Turchia si troverà a ricoprire il ruolo più importante nel processo decisionale europeo e avrà il peso maggiore sia nel Consiglio dei ministri che nel Parlamento. Tutto secondo le regole della democrazia, certo, ma molti si chiedono se sarà ancora possibile perseguire gli scopi e i contenuti politici tradizionali dell’ue nel caso in cui la Turchia diventasse la nuova potenza europea. E non si tratta solo di capire se il paese possa e voglia soddisfare in tempi ragionevoli i criteri di accesso di Copenaghen in materia di diritti umani. Molti si pongono una domanda più profonda e cioè se l’adesione turca possa davvero favorire una maggiore integrazione e quindi «la creazione di una unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa», come è scritto nell’articolo 1 del titolo primo del Trattato di Maastricht, quello che ha istituito l’Unione. O se, invece, l’ingresso del grande e popoloso paese musulmano non snaturerebbe l’idea stessa che è alla base dell’Unione Europea. Molti ritengono che la Turchia sia un paese ancora troppo ancorato all’idea di nazione per accettare i modelli di governance europei che prevedono una suddivisione della sovranità e temono che questo potrebbe creare dei problemi all’intero sistema dell’Unione.

Ma le riserve sono, naturalmente, anche o forse soprattutto di natura economica. In base alla strategia di Lisbona, per sviluppare ulteriormente il mercato interno, l’ue deve creare uno spazio economico competitivo che riesca contemporaneamente a soddisfare le esigenze della globalizzazione e a rispettare elevati standard di protezione del lavoro, dell’ambiente e dei consumatori. I critici sostengono che un ingresso della Turchia, anche fra dieci anni, imporrebbe una battuta d’arresto a questi progetti europei, vista l’arretratezza del paese in generale e della sua parte sud-orientale in particolare. Ma i problemi economici, secondo gli oppositori all’ingresso turco, non si limiterebbero ad un rallentamento degli obiettivi di Lisbona. Gli oneri finanziari che l’Unione si troverebbe a dover affrontare minacciano di essere particolarmente marcati. Si fa riferimento soprattutto alla politica agricola comune e alla politiche strutturali e regionali, che attualmente assorbono rispettivamente il 45 e il 32 per cento del budget dell’Unione. E se è vero che, quando la Turchia entrerà nell’ue, le spese per la politica agricola saranno ormai diminuite drasticamente, secondo quanto richiesto dall’Organizzazione mondiale per il commercio, rimane il problema delle costose politiche strutturali e regionali che hanno lo scopo di ridurre le grandi disparità di ricchezza fra i paesi dell’Unione. La Turchia, sostengono i critici, potrebbe rivendicare il diritto a gran parte di questi fondi, senza però contribuire al bilancio europeo in maniera significativa.

Il vero spauracchio, però, il motivo che addurrà (o tacerà per non sembrare razzista) il tedesco medio per spiegare la sua contrarietà all’ingresso della Turchia è l’immigrazione, il terrore di essere invasi da ondate incontrollate di immigrazione turca, qualora vigesse la libera circolazione delle persone. Gran parte dei tedeschi ritiene francamente di aver già dato abbastanza e che due milioni e mezzo di turchi possano, per così dire, bastare. Ma non è solo l’uomo della strada a vederla così; Wilhelm Hankel, docente di politica monetaria e dello sviluppo presso l’Università di Francoforte sul Meno, sostiene che «la Turchia può offrire solo problemi al mercato del lavoro europeo, cioè l’arrivo di forze lavoro poco qualificate e solo parzialmente integrabili». Esse, sostiene il professore, contribuiscono poco alla crescita della produttività e molto a far lievitare la spesa assistenziale, i conflitti sociali e i problemi di formazione dei lavoratori immigrati. Ma il fascino del mercato del lavoro europeo dovrebbe rappresentare una preoccupazione anche per le élites turche, perché la fuga di capitale umano rallenterebbe notevolmente lo sviluppo del paese. Secondo Hankel, è proprio nel mercato del lavoro che appare evidente quanto poco in comune abbiano l’Unione Europea e un paese in via di sviluppo caratterizzato da forti dualismi culturali e regionali come la Turchia. Non si integrerebbero, creerebbero, anzi, nuovi conflitti all’interno dei paesi dell’ue. «L’Unione Europea – conclude Hankel – non è uno Stato unitario che livella, ma un insieme di Stati culturalmente autonomi e economicamente eterogenei. Un’unione di questo tipo ha una capacità limitata di assorbire i lavoratori stranieri».

La Germania è in ottima compagnia nella sua battaglia all’ingresso della Turchia nell’ue. Il suo più grande alleato su questo versante è la Francia di Chirac e Sarkozy, l’altra metà dell’asse, l’altro pezzo di spina dorsale europea. Con loro si sono allineate l’Olanda e la Danimarca, tutti paesi che nel passato recentissimo hanno avuto grandi difficoltà a gestire le rispettive minoranze di immigrati, perlopiù musulmani. La Francia, che ultimamente ha varato leggi islamofobiche come quella che proibisce alle donne musulmane di indossare il velo negli uffici pubblici, ha dovuto affrontare l’emergenza delle banlieues; l’Olanda paga ormai da qualche anno lo scotto di una politica d’integrazione che si è rivelata completamente fallimentare; in Danimarca è esplosa poco tempo fa la cosiddetta “crisi delle vignette”. A completare il fronte del no si schierano l’Austria del cancelliere Wolfgang Schüssel e la Polonia dei gemelli Kaczynski, ma se si votasse oggi probabilmente si allineerebbero anche Slovacchia, Ungheria e Lituania. Questo per quanto riguarda i governi, perché dai sondaggi emerge che le opinioni pubbliche di tutti i paesi dell’Ue sono in maggioranza contrarie all’ingresso della Turchia e, curiosamente, anche fra i turchi cresce la percentuale dei contrari.

La questione turca ha sicuramente un merito, quello di aver costretto opinioni pubbliche e classi dirigenti europee a interrogarsi sul processo di integrazione dell’Unione, che spesso veniva vissuto come una cosa avulsa dalla realtà, in qualche modo scontata e irreversibile. Per ora questa attenzione si è concretizzata in una seria crisi, culminata con il no dei francesi e degli olandesi al referendum sulla costituzione. Ma gli europei si stanno finalmente chiedendo cosa significa l’Europa, cosa vogliono da essa e a cosa sono disposti a rinunciare in suo favore. La speranza è che si tratti di una di quelle famose crisi di crescita dalla quale uscirà fuori una nuova determinazione e una nuova coscienza di sé.


 

 

 




Barbara Mennitti, redattore di Ideazione

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