La musica dei druidi che incantò la destra
di Maurizio Stefanini
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

Cominciamo da un pentolone, in una notte di luna piena. Un pentolone in cui sarà cotta una poltiglia che non è ancora fatta col granturco, visto che alla scoperta dell’America manca ancora almeno un millennio e mezzo. Ma nel cui sommesso ribollire s’indovina già quel che sarà la polenta. Mangiano polenta in continuazione, infatti, i guerrieri tribali di cui stiamo parlando, tant’è che i greci li chiamano pulitifagi: “mangiapolenta”, o come diremmo noi “polentoni”. È polenta che sarà servita con salsicce, già sfrigolanti nell’aria pungente della sera. Ma nell’aria, oltre all’odore del cibo, ci sono anche le note lamentose di uno strumento, fatto con canne di giunco fissate a un otre di pelle di capra. E intanto che si aspetta la cena, al suono di quella primitiva cornamusa alcuni dei guerrieri del bivacco si alzano, e iniziano a ballare facendo ondeggiare le gonne. Sì: i guerrieri più temuti della loro epoca, feroci collezionisti di teste di nemici, in battaglia vanno con quel curioso abbigliamento muliebre. Di più: disprezzano chi porta calzoni.
No: non stiamo parlando degli antichi celti. Quello che abbiamo descritto è infatti un accampamento di legionari romani.
“La musica andina è di sinistra, la musica celtica è di destra”, era stato lo stereotipo da noi accennato parlando appunto della musica andina: un’analisi terminata la quale ci eravamo appunto riservati di tornare sul secondo termine dell’equazione. Ma prima che “da destra” in Italia la moda per la musica e la cultura celtica è stata agitata in particolare in chiave antiromana, con il boom della Lega. Ed è dunque un discorso che è giusto iniziare col ricordare che sono stati gli antichi romani, se non proprio gli inventori della polenta, certo il popolo che nell’antichità ne ha mangiata di più, ritenendola quasi un segreto della propria forza militare, e imponendola ovunque siano andati. Loro la preparavano infatti con la farina di farro, più energetica di quell’orzo invece alla base della dieta dei greci e degli altri popoli dell’antico Mediterraneo. E ne facevano a tal punto uno status di virtù guerriera che ai reparti colpevoli di codardia in battaglia come umiliante punizione veniva dato appunto orzo al posto del farro: il rancio dei vigliacchi! Eredità del dominio romano, la polenta continuerà a essere fatta essenzialmente con farina di farro fino a età moderna inoltrata. Sarà per combattere le carestie che tra Seicento e Settecento la Repubblica di Venezia farà partire un programma di sostituzione dell’antico cereale con quello nuovo appena portato dal Nuovo Mondo, e che una volta seminato dà una rendita tanto più brillante rispetto alle graminacee tradizionali. Riuscirà a tal punto, questo progetto, che non solo l’atavico piatto finirà per essere associato indissolubilmente al mais: perfino l’etichetta di “polentoni” si trasferirà definitivamente dagli antichi romani ai moderni veneti.
Il sugo di pomodoro del condimento, poi, è una cosa più tarda ancora: bisogna aspettare che l’Unità d’Italia e i contratti di fornitura per l’approvvigionamento del Regio Esercito permettano al piemontese Cavalier Cirio di diffondere le sue conserve per la Penisola. In compenso, già la polenta dei quiriti fà quelle bolle di cottura di cui bisogna stare attenti a evitare gli schizzi, forieri di dolorose scottature. Varrone, un pioniere della glottologia col gusto per le etimologie un po’ avventurose, sostiene addirittura che puls, nome latino del manicaretto, non sia che un’imitazione onomatopeica del suono di queste bolle scoppiettanti durante la cottura. Lo stesso Varrone ci dice anche che il nome della “luganiga” viene dalla Lucania: qui è più credibile, vista la concomitante testimonianza di Cicerone. Se però la salsiccia l’hanno inventata in Magna Grecia, sono stati sempre i romani a portarla nell’Italia del Nord e in altre terre di influenza celtica, assieme alla polenta. Oggi la Lega celebra kermesse anti-romane a base di polenta e luganiga: sarebbe esattamente come fare feste no global anti-Usa abbuffandosi di hamburger e Coca Cola. O manifestare odio per la Germania ingozzandosi di würstel e crauti innaffiati di birra. O chiamare alla resistenza contro l’“invasione islamica” con banchetti di kebab e tè alla menta.
Anche i gonnellini, tunicae, furono una caratteristica del legionario romano. Solo dal primo secolo dopo Cristo l’arruolamento sempre più massiccio di barbari e la prolungata permanenza nelle fredde regioni del Nord Europa favorì tra i soldati il diffondersi delle lunghe bracae, prima disprezzate come indumento di effeminati e incivili. In particolare, proprio incivili delle terre celtiche. Uno dei romanzi di Danila Comastri Montanari su Publio Aurelio Stazio, il senatore investigatore nella Roma di Claudio, ci mostra proprio un gustoso dialogo con un gladiatore oriundo dell’attuale Borgogna, cui il protagonista confida di comprare dalle sue parti il «rifornimento di cervesia e il grasso giallo che producete col latte di mucca». «Il raffinato senatore Publio Aurelio Stazio beve cervesia e apprezza i condimenti celti! Chi l’avrebbe mai detto? Non ti manca che adottare le nostre lunghe braghe...», risponde stupito il gladiatore. Ma un conto è gustare birra e burro al posto di vino e olio, un conto è abbandonare il gonnellino per i pantaloni. «Che gli Dei mi proteggano, sono troppo scomode! C’è da impazzire a sentirsi le gambe imprigionate nella stoffa».

Antiche tradizioni moderne nella Scozia delle cornamuse
Nel primo saggio del famoso volume curato da Eric Hobsbawm e dedicato all’Invenzione della tradizione, raccontando il modo in cui è nata quella delle Highlands di Scozia Hugh Trevor-Roper riferisce di “difese” del kilt scozzese basate su motivazioni abbastanza simili. Ma spiega anche come quel costume suppostamente arcaico è in realtà un’invenzione del Settecento. In precedenza gli highlanders più poveri portavano sì la gonna, ma nella forma di un plaid stretto alla cintura: è il belted plaid, residuo di un costume appunto romano e poi medievale, arrivato all’età moderna negli abiti del clero e, appunto, di quella zona d’Europa particolarmente periferica. È tra 1727 e 1734 che un industriale quacchero inglese di nome Thomas Rawlinson inventa un gonnellino staccato dal plaid, per rendere più comodo il lavoro di taglio degli alberi e di cura delle fornaci agli highlanders che ha assunto in una fonderia da lui aperta presso Inverness. È alla Battaglia di Waterloo che il kilt della fanteria scozzese diventa famoso in tutta Europa. Ed è addirittura tra 1842 e 1844 che il sistema di identificazione dei clan attraverso il tartan, l’intreccio di colore dei kilt, è creato di sana pianta dai fratelli Allen: due mitomani che si pretendono discendenti dei re Stuart, che hanno la mania per il folklore, e che fingono di rivelare tradizioni millenarie. Il loro successo è almeno pari a quello di James Macpherson: l’altro spettacolare falsario che dopo aver scritto di sana pianta la saga di Ossian l’ha pubblicata nel 1807 come traduzione di antichi canti gaelici delle Highlands, dando tra l’altro origine al Romanticismo.
Di affidabilità non superiore a Macpherson e ai fratelli Allen fu Edward Williams, alias Iolo Morganwg: un muratore gallese oppiomane vissuto tra 1747 e 1826, che pretendeva di essere l’ultimo depositario dell’antico sapere dei druidi, e che scrisse con piglio da grafomane autodidatta su un po’ di tutto, dalla filosofia alla metrica celtica. Di lui parla diffusamente Prys Morgan in “From a Death to a View: la caccia al passato gallese in epoca romantica”, secondo saggio del già citato L’invenzione della tradizione. E, continuando alle origini della celtomania moderna, appena un po’ più di considerazione è data per la Bretagna al barone Hersant de Villemarqué, alias Kervarker. Curiosità per il lettore italiano: da un canto di quelli che il nobile affermò e molti filologi negarono avesse raccolto dai contadini e marinai della sua terra, Angelo Branduardi ha sviluppato il testo di una sua canzone famosa, La serie dei numeri. Di grande prestigio gode invece Robert Burns, che visse tra 1759 e 1796, e che nelle raccolte di versi da lui compilate mise sì canti popolari da lui raccolti assieme a composizioni in anglo-scozzese da lui stesso composte sul loro modello, ma a differenza di Macpherson, Morgawng e Kervarker indicò abbastanza chiaramente quel che era farina del suo sacco e quel che non lo era. Per di più, fu anche uno dei primi raccoglitori di folklore che si curò di annotare anche la musica, guadagnandosi sul campo un ruolo incontestabile di pioniere della moderna etnomusicologia. Gli scozzesi lo considerano inoltre il loro poeta nazionale, e nel dibattito per l’adozione di un nuovo inno che si è acceso nella regione dopo la devolution del 1999 è proprio Scots wha hae, un antico brano raccolto da Burns e risalente forse alle guerre di Braveheart, quello che si contende la top position con il Flower of Scotland dei tifosi di calcio e di rugby: quest’ultimo, in effetti, poco più di una O sole mio locale.
Anche del repertorio di Burns è Parcel of rogues, un canto di emigrazione di popolarità assimilabile alla nostra Mamma mia dammi cento lire. Ma tra le 368 canzoni delle sue raccolte c’è anche Auld Lang Syne, che è forse in assoluto la canzone più cantata di tutta l’anglofonia. I suoi versi sono in un anglo-scozzese del Cinquecento fortemente arcaico, al punto che gli stessi testi in lingua originale hanno bisogno di una nota per tradurre il titolo in inglese moderno: Old Long Since, per un senso che in italiano potrebbe forse essere reso dai primi versi della famosa canzone del 1935 di Frati-Raimondo Piemontesina Bella: «addio bei giorni passati...». «For auld laaaang syyyyyne, my dear, /for auld laaaang syyyyyne/ we’ll taaaak a cup o’ kindness yet, / for auld laaaang syyyyyne» si canta in tutto il mondo di lingua inglese a Capodanno con un bicchiere in mano e una frequente lagrimuccia negli occhi, a una frequenza perfino più massiccia di quella con cui da noi ai compleanni si intona «tanti auguri a teeee...». Ma questa canzone la usano anche a Taiwan per lauree e funerali, e la cantano nei negozi giapponesi al momento della chiusura, e alla sua melodia sono stati adattati i versi dell’inno nazionale coreano. Quanto a noi italiani, dopo averlo per un po’ orecchiato nei film hollywoodiani lo abbiamo infine trasformato in un ballabile: avvenne nel 1943, quando le melodie anglo-sassoni erano ufficialmente vietate dalla censura di guerra, ma venivano contrabbandate con l’aiuto di qualche testo o titolo fittizio. Per questo, ancora oggi la conosciamo semplicemente come Valzer delle candele.

E Giulio Cesare portò le zampogne in Scozia
Tuttavia, la ricerca più recente ha rivelato che anche Burns si era preso qualche colossale licenza. Un esempio veramente clamoroso è rappresentato da Ye Jacobites by Name, un motivo trascinante che gran parte dei gruppi di musica celtica presentano oggi come uno degli inni della rivolta giacobita del 1745-46, anzi il suo inno per eccellenza. E una specie di Marsigliese di quella che viene oggi presentata come l’ultima grande rivolta indipendentista scozzese contro l’Inghilterra, traducendo in termini di nazionalismo moderno una lotta che in realtà per la mentalità dell’epoca dovette avere un significato ben diverso. I clan delle Highlands, infatti, si erano schierati con il “giovane pretendente” Bonnie Prince Charlie non in nome del separatismo, ma per lealtà tribale alla spodestata dinastia degli Stuart. D’altra parte, il nipote di Giacomo II non voleva restaurare l’indipendenza scozzese dall’Inghilterra, bensì rivendicare il trono dell’intero Regno Unito agli usurpatori Hannover. Per questo, invece di asserragliarsi nella sua roccaforte delle Highlands marciò su Londra, trovandosi però costretto alla ritirata dall’indifferenza degli inglesi, e venendo infine rovinosamente sconfitto a Culloden Moor. Il testo tramandato da Burns è di un’ironia amara, e denuncia il modo in cui il “buon diritto” degli Stuart è stato negato dalla forza bruta: «voi che vi chiamate giacobiti, tendete le orecchie/ vi spiegherò il vostro errore/ le vostre dottrine devo incolpare/ Cos’è giusto e cos’è sbagliato, secondo la legge?/ Una spada corta ed una lunga/ Un braccio debole ed uno forte per sguainarla». Ovvero: vi considerano criminali solo perché i vostri nemici sono più forti. Ebbene: si è scoperto che nel trascrivere il testo, attorno al 1791, in un impeto di ideologismo filo-giacobita il poeta lo aveva del tutto trasformato, per rovesciarne l’originario carattere anti-giacobita. «Con il Papa vi siete messi d’accordo», tuonavano infatti i versi del testo vero, ardenti del sacro sdegno anti-cattolico che aveva armato contro gli Stuart la rivolta di Cromwell del 1642-49 e la “Gloriosa Rivoluzione” del 1688-89. «Il Papa e i Preti/ dove sono venuti/ hanno governato con crudeltà». E via di questo passo... Diciamo che sarebbe come scoprire che Bella Ciao era un inno fascista, con il testo oggi noto compilato dopo la guerra da un raccoglitore di canti partigiani!
Anche il grande Burns, dunque, diede un suo contributo alla collezione di bufale già costruita da fratelli Allen, Macpherson, Morgawng e Kervarker. Bufale, va detto, che in Scozia furono rese particolarmente possibili proprio per il fatto che dopo la rivolta giacobita il Parlamento di Londra aveva emanato disposizioni draconiane per proibire i costumi ancestrali delle Highlands, punendo così i clan locali del massiccio appoggio da loro dato alla causa del “giovane pretendente”. E il divieto, durato tra 1746 e 1782, aveva creato un vuoto in cui era stato relativamente facile inserirsi. Conclusione: né i kilt che si vedono nell’Highlander con Christopher Lambert, né quelli di Braveheart sono in effetti più storici dei famosi anfibi che si vedono ai piedi di un montanaro scozzese nello stesso film di Mel Gibson o dell’ancor più famoso orologio al polso del legionario di Scipione l’Africano.
Neanche il sistema dei Clan è antico come pretendono certi fanatici di celtismo: il registro attuale dei membri risale infatti al 1815, e i riferimenti più antichi non vanno più in là del XII secolo. È vero che questo sistema nasce comunque dall’intrecciarsi tra il feudalesimo medievale e una tradizione tribale più antica. Ed è Cesare a riferirci delle tribù in cui erano divisi i galli. Tribus, però, viene da una circoscrizione territoriale dell’antica Roma, che secondo alcuni richiama la originaria tripartizione etnica dei fondatori dell’Urbe, tra latini, sabini e etruschi. Era la tribù che pagava il tributo, ospitava un tribunale, eleggeva un tribuno, lo ascoltava parlare alla tribuna. Naturalmente, nessuno può eccepire sul fatto che nell’antichità i romani furono migliori combattenti dei celti, malgrado la fama di ferocia di questi ultimi. La vittoria di Cesare ebbe comunque conseguenze più durature che quella di Brenno, e ci fu un Impero Romano, non un Impero Gallico. E quanto alle teste tagliate, è vero che quelle con cui i celti decoravano le proprie case ha dato luogo a un motivo decorativo arrivato in certe aree europee ben dentro al Medio Evo e anche oltre, sia pure nella forma simbolica di sculture di pietra.
Ma sentiamo un attimo quanto scriveva nel 1989 l’insigne storico Andrea Giardina nel presentare una raccolta di saggi intitolata all’Uomo Romano: «È stato recentemente dimostrato come i romani avessero una particolare inclinazione per il taglio delle teste. Non si tratta, beninteso, di un particolare addensamento di teste mozze in un determinato periodo, com’è accaduto in epoche a noi assai più vicine, ma di una costante e puntuale dislocazione di questa pratica lungo tutto l’arco della storia romana. Teste tagliate con grande perizia o maldestramente, dal corpo dei vivi o dei morti, avvolte in bende o protette accuratamente da strati di miele, da olio di cedro, da cera, o da altre sostanze; conficcate su picche e sui pali degli accampamenti, esposte nel centro della vita civica o scagliate tra i piedi dei nemici; teste di gente comune o di grandi protagonisti (fu questa sorte che toccò, per esempio, a Pompeo, a Cicerone, a Nerone, a Massenzio); teste di avversari politici o di nemici di guerra, di criminali o di banditi.
Quella definizione di “civiltà dalla testa tagliata” che è stata escogitata per i celti, spetterebbe dunque con ugual diritto anche ai romani. Per i romani, il tagliar teste non rientrava affatto in un’attitudine definibile come crudelitas: l’atto del taglio della testa era, oltre che un ovvio mezzo d’intimidazione, un segno di potenza, una manifestazione di efficienza e di bravura. I romani erano un popolo fine, e la crudelitas la vedevano piuttosto in alcuni comportamenti che talvolta si associano a quell’atto: per esempio, gioire scompostamente davanti al capo mozzato di un avversario troppo a lungo temuto, o diffondersi in commenti di cattivo gusto su questo o quel particolare fisionomico. Sono questi i comportamenti che trasformano in crudelitas quell’ammirevole esternazione di potenza che si era manifestata nella decapitazione del nemico».
Infine la cornamusa, termine che in epoca rinascimentale e barocca viene affibbiato alla più antica zampogna: dal greco symphÿnia e/o dall’aramaico sumpopiniah, ma comunque dal Mediterraneo. Nel III secolo a.C. alla zampogna dedicò un poema l’alessandrino Teocrito, con una serie di versi di lunghezza decrescente, a riprodurre visivamente il disegno dello strumento. E nel I secolo a.C. fu un virtuoso di zampogna, oltre che di lira, l’imperatore Nerone, secondo quanto ci riferiscono Svetonio e Dione Crisostomo. Non vi è certezza, ma molti ritengono che i legionari romani marciassero al suono delle zampogne, proprio come i reggimenti di highlanders dell’esercito britannico moderno. Viceversa, J.S. Megaw fa un buon punto sugli studi archeologici moderni quando ci informa che «scarsa è l’evidenza materiale dell’abilità di costruttori e suonatori di strumenti musicali degli antichi celti»: giusto un paio di fonti iconografiche del VII secolo a.C. con lire a quattro corde, flauti di Pan a cinque canne, flauti diritti singoli e doppi e corni; e poi qualche reperto di flauti e corni di cattiva qualità, utilizzabili al più come strumenti di segnalazioni. Ma «a partire dalla fine del periodo di Hallstatt nel V secolo a.C. fino all’ultimo secolo a.C. la documentazione di strumenti musicali praticamente scompare». E «soltanto nei primi secoli d.C., con l’introduzione – o reintroduzione – di strumenti musicali mediterranei concomitante l’espansione verso nord dell’Impero romano, l’evidenza materiale migliora direttamente».
Insomma, le zampogne ai celti le portò Cesare! «Com’è ovvio, sono le zampogne i rappresentanti della famiglia di flauti di canna più frequentemente associati con i celti del periodo finale», conferma Megaw. Ebbene, «come per tutti i flauti di canna dell’Europa settentrionale e occidentale, l’evoluzione delle zampogne va ricollegata a un’origine e diffusione dai Balcani e dal Mediterraneo orientale, ma non si hanno documenti preistorici e archeologici indicativi di un loro uso in Occidente prima del Medioevo». In Scozia le prime testimonianze risalgono al XV secolo, anche se riferiscono di una loro importanza simbolica che fa pensare a un’ampia diffusione medievale. Ma le bande di cornamuse oggi simbolo della Scozia risalgono anch’esse, come i tartan dei kilt, al XIX secolo, e a quell’opera di “invenzione della tradizione” studiata da Trevor-Ropert.

Romani e veneti alleati contro i celti
Né le puntualizzazioni a proposito dell’uso “anti-romano” fatto della moda celtica finiscono qui. Non solo i leghisti esaltano Brenno e Vercingetorige, non solo dei fumetti di Asterix si bea lo sciovinismo francese nel vedere gli avi dei macaronì fatti a polpette. Alan Stivell, il celebre cantante e polistrumentista bretone considerato uno dei massimi rappresentanti della rinascita del folklore celtico, ha parlato più volte della battaglia di Alesia come dello scontro tra i due possibili futuri della civiltà occidentale.
«La sconfitta di Vercingetorige da parte di Cesare fu anche la sconfitta di un modello libertario da parte della statolatria romana». Eppure, quando l’Act of Union del 1707 fuse Inghilterra e Scozia nel nuovo Regno Unito gli scozzesi rinunciarono sì al proprio Parlamento e alla propria bandiera. Ma ponendo come condicio sine qua non il mantenimento non solo dello status ufficiale per la propria Chiesa di Scozia presbiteriana al posto della Chiesa di Inghilterra anglicana, ma anche del diritto romano al posto della common law. Non parliamo poi dell’Irlanda, che ha legato la difesa della propria identità alla fede cattolica romana, in contrapposizione al protestantesimo anglo-sassone. E quanto al dragone rosso della bandiera gallese, è un emblema che i legionari romani avevano copiato ai persiani. Eloquente segnale delle loro nostalgie, i britanni romanizzati lo sventolarono come simbolo di legittimismo imperiale, dopo che lo sgombero delle ultime legioni dall’isola in concomitanza col sacco di Roma di Alarico ebbe lasciato il campo libero all’invasione anglo-sassone. Fu un’epopea sfortunata, visto che i loro discendenti furono appunto costretti prima a ripiegare in Galles, Cornovaglia e Scozia, per poi essere anche lì sottomessi.
Ma nel frattempo erano stati intellettuali e monaci profughi della Britannia romanizzata a favorire il rigoglio della cultura gaelica nell’Irlanda dell’Alto Medio Evo, permettendo così ai monaci irlandesi di conservare la cultura romana per il periodo sufficiente a consegnarla alla rinascita carolingia.
E quell’epopea, oltretutto, aveva anche dato origine alla leggenda di Re Artù.
Anzi, lo stesso Artù storico probabilmente fu un generale romano: conclusione ormai condivisa dalla maggior parte degli storici, e da cui si sono sviluppati sia il romanzo di Valerio Massimo Manfredi L’ultima legione che il film di Antoine Fuqua King Arthur. Che dire di più? Erano stati soprattutto soldati liguro-celti della Padania a far conquistare a Cesare la Gallia. Last but not least, dal mantovano Virgilio al padovano Tito Livio erano stati soprattutto intellettuali “padani” di sangue celtico i grandi cantori e ideologi della grandezza di Roma al tempo di Augusto. E d’altra parte, se prima di Cesare e Tacito i latini avevano spesso confuso i celti con i germani, in seguito sarebbero stati spesso i germani a mettere latini e celti in un solo fascio. Dal nome di una tribù celtica al confine col mondo germanico, in particolare, deriva quella parola welsch, o walsch, tradizionalmente adoperata dai tedeschi come insulto verso i francesi e gli italiani, e d’altronde cordialmente ripagata con altri insulti tipo boche o crucco. Sempre dalla stessa radice, usata dai tedeschi per i latini dell’attuale Romania, è derivato il nome della Valacchia; usata invece dagli anglo-sassoni per i britanni romanizzati ha dato il nome al Galles: in inglese Wales, mentre un gallese è esattamente un welsh, pronuncia analoga al tedesco welsch.
Questo, dunque, sui celti “antiromani”. E sui celti di destra? Prima di arrivarci, sarà forse utile fare un attimo il punto su chi sono i celti. Ed è qui allora il caso di citare da un’intervista che l’illustre archeologo Sabatino Moscati, scomparso nel 1997 da presidente dell’Accademia dei Lincei, fece all’autore di queste note nel 1991. Occasione: la presentazione della grande mostra sui celti ospitata in quell’anno al Palazzo Grassi di Venezia, e della cui commissione scientifica lui era stato il coordinatore. «I celti non sono i soli protagonisti della storia dell’Italia al di là del Po. Il problema non è quello di esagerare o di annullare questa presenza, ma di considerarla storicamente uno degli strati culturali che compongono la storia dell’Italia settentrionale. Una sorta di strato europeo sovrappostosi per un certo periodo». Europeo, e non solo. Tra le Lettere di San Paolo ce n’è una famosa ai Galati, discendenti di quei galli che nel III secolo a.C. erano debordati in Asia Minore.
Ed è suggestivo tracciare i confini estremi della presenza gallica attraverso i toponimi del continente: dalla Galizia spagnola a quella polacca; dal già citato Galles alla già citata Valacchia; dalla Galazia turca a Senigallia, antica capitale della tribù dei Senoni; da Bologna alla Boemia, richiamanti entrambi la tribù dei Boi. Ma di quell’antico dominio, oggi, non resta che qualche briciola. Le cinque lingue celtiche ancora vive non mettono insieme, tra tutte, che un milione e mezzo di parlanti: ottocentomila per il cymraeg; trecentomila per il gaelico d’Irlanda; duecentomila per il bretone; centomila per il gaelico di Scozia; poco più di un centinaio per il manx. In percentuale, sulla popolazione totale delle rispettive regioni, fa il 25 per cento in Galles; appena il 10 per cento in Irlanda, malgrado lo status di lingua ufficiale assieme all’inglese; il 7 per cento in Bretagna; il 2 per cento in Scozia; lo 0,2 per cento nell’Isola di Man. A essere pignoli, ci sarebbero anche alcune decine di entusiasti, o esaltati (dipende dal punto di vista), che stanno cercando di far rivivere il cornico, estinto in Cornovaglia fin dal XVIII secolo. Ma i cultori parlano di “sette nazioni celtiche”, mettendo nel novero anche la Galizia spagnola. «La lingua non appartiene in alcun caso alla famiglia degli idiomi gaelici», ammetteva nel 1997 un articolo di Giorgio Calcara su Keltia, mensile specializzato in “musiche, leggende, tradizioni dei popoli celti”. «Ma le melodie, anche le più recenti, che ci arrivano da queste terre sono straordinariamente simili e non hanno nulla da invidiare, per composizione ed esecuzione, a quelle della cosiddetta musica celtica per eccellenza».
Per i linguisti, il gallego è una variante di portoghese evoluta separatamente da quando, nella divisione della penisola iberica, la Galizia è rimasta oltre il confine spagnolo. Ma non manca chi attribuisce effettivamente a un sostrato celtico più forte il suono più nasale di portoghese e gallego rispetto a castigliano e catalano. Comunque, da un po’ di tempo la moda della musica celtica ha annesso anche le contigue Asturie: più che altro perché anche lì si fa grand’uso e abuso della gaita, la zampogna iberica. Ma, a parte che il dialetto asturiano, bable, è invece più affine all’occitano che al portoghese, «mentre le Asturie sono musicalmente parlando un territorio di confine fra il mondo mediterraneo e quello centro europeo, simile alla situazione del nord Italia, la Galizia vede invece il prevalere della esecuzione musicale basata sul modo maggiore, che si considera propria di un’antica cultura europea continentale, in contrapposizione ai modi di minore e ai modalismi dell’area ispanico-arabica e mediterranea. In quella direzione il canto galiziano esprime una prevalenza dell’elemento sillabico e non melismatico, che invece troviamo nei repertori asturiani, con limitati interventi decorativi sull’impianto vocale che risulta abbastanza rigido nei suoi schemi metrici e ritmici».
Indubbio è anche l’influsso celtico, oltre che in francese e occitano, nei dialetti che il linguista dell’Ottocento Graziadio Isaia Ascoli definì appunto “italo-celtici”. Individuando nel suono della ü, la famosa “u francese”, «l’acutissima delle spie celtiche in Italia». Ma in questa fratellanza idiomatica padana lui mise i dialetti di Piemonte, Liguria, Lombardia ed Emilia-Romagna. Non quelli delle Tre Venezie. Ottavio Adriano Spinelli, altro articolista di Keltia, affronta il problema affermando che gli antichi veneti «stando alle fonti classiche (Polibio, II, 17,5), non differivano dai celti in usi e costumi, se non nella lingua, mutuata dalla preesistente e locale civiltà euganea».
Anche Albert Uderzo, il disegnatore francese d’origine veneta, che col soggettista ebreo René Goscinny ha regalato allo sciovinismo francese quel magnifico giocattolo che è Asterix, ama ricordare «la resistenza che ai romani opposero i celti del Veneto». Tra parentesi, non solo il disegnatore dell’eroe fumettistico francese per eccellenza nacque italiano e divenne cittadino transalpino che aveva già 7 anni. Lo stesso Goscinny, era figlio di un’ucraina e di un polacco divenuto cittadino francese 13 giorni prima della sua nascita, che lo aveva poi portato in Argentina che non aveva neanche un anno, per lavorare in un’organizzazione sionista. A 17 anni il soggettista di Asterix sarebbe poi andato a New York, per non tornare infine in Francia che ventiseienne. E gli argentini spergiurano che il famoso Asterix non è in realtà che una scopiazzatura spudorata di Patorozú, un loro fumetto su un indio della Pampa. Goscinny aveva comunque fatto un primo tentativo di adattamento trasferendo la storia nel Far West, e facendo del piccoletto forzuto un indiano delle praterie di nome Oumpah-pah. E solo dopo l’assoluto fallimento di questo personaggio aveva pensato di vellicare infine il nazionalismo francese trasponendo Patorozú e Oumpah-pah in un gallico in lotta contro i romani, e strappando infine un successo fenomenale. Sull’identificazione tra celti e veneti, però, l’autore di queste note fece nel 1997 un’intervista con Franco Rocchetta, il fondatore stesso della Liga Veneta, prima alleato e poi avversario di Bossi. E il teorico del venetismo aveva rifiutato con forza. «I celti si spinsero nei Balcani fino all’Anatolia e in Italia fino a Roma, ma non riuscirono a vincere la resistenza veneta, che rimase un’isola indipendente», spiegava. «Anzi, a un certo punto passarono al contrattacco, prendendo quella zona di Bergamo e Brescia che da allora sarebbe rimasta collegata al Veneto per millenni. Fu la controffensiva veneta, e non il mitico ritorno di Furio Camillo, a costringere i galli a sgomberare Roma. E prova di questo rapporto è nel fatto che mentre i romani riempirono di colonie la pianura padana, non ne misero in quella Veneta, perché i veneti non erano entrati nell’Impero da conquistati, ma con un libero accordo federativo. Erano arrivati in Italia coi latini al tempo della prima migrazione indo-europea; erano come loro repubblicani e federalisti; erano stati alleati contro l’invasione celtica». Tanto per concludere il discorso, si può ricordare come la gran parte degli studiosi consideri gli antichi veneti come una popolazione di ceppo illirico. Cioè affine ai moderni albanesi e agli antenati dei romeni prima della latinizzazione seguita alla conquista di Traiano.

Tradizione celtica di destra? Dipende dai casi
Altra caratteristica eredità gallica di francese e dialetti italo-celtici è la scomparsa della tipica distinzione indo-europea tra prima persona singolare soggetto e oggetto: la contrapposizione tra “io” e “me” in italiano. Così, il Re Sole poteva dire «L’état c’est moi», e non «L’état c’est je». Per gli estimatori dei celti, anche questo annullamento della soggettività è una riprova della radicale diversità di prospettiva della loro cultura rispetto a quella che è stata poi la direzione della civiltà occidentale. Il tribalismo invece dello Stato; l’animismo naturalista invece della contrapposizione tra monoteismo e materialismo; la comunità invece della proprietà; la tradizione invece del progresso. Per i critici dell’Occidente, per chi da Vespucci a Rousseau e al moderno ecologismo fondamentalista ha cantato le virtù del buon selvaggio, è la riprova che un modello diverso sarebbe stato possibile anche in Europa. Se non fosse stato cancellato dalla confluenza micidiale tra le quattro componenti che hanno invece formato la moderna cultura occidentale: messianesimo ebraico, razionalismo greco, statalismo romano, militarismo germanico.
Ma questo pensiero è di destra o di sinistra? Indubbiamente, tra Settecento e prima metà del Novecento gli ultimi paesi celtici si sono spesso distinti come roccaforti controrivoluzionarie. A parte le già citate insurrezioni della Scozia giacobita contro l’Inghilterra whig degli Hannover, a parte l’ostinata fedeltà al cattolicesimo romano degli irlandesi in contrapposizione al protestantesimo anglosassone, anche la Bretagna come la Vandea fu durante la rivoluzione francese un covo di guerriglieri legittimisti, i famosi chouans. E anche durante il XIX e XX secolo restò una roccaforte elettorale della destra. Sempre nel XX secolo si può ricordare che nel 1916 la rivolta di Pasqua, con cui iniziò a Dublino la guerra d’indipendenza irlandese, fu apertamente foraggiata dai servizi segreti tedeschi. E pure con gli occupanti nazisti collaborarono apertamente tra 1940 e 1944 i nazionalisti bretoni, senza contare che lo stesso Jean-Marie Le Pen è un bretone. Tuttavia il laburista Blair è scozzese, mentre era gallese Lloyd George, l’ultimo primo ministro liberale della storia del Regno Unito.
Dal punto di vista elettorale negli ultimi decenni la Scozia è sempre stata in maggioranza laburista, mentre i liberali malgrado la loro decadenza sono sopravvissuti alle secche dell’uninominale a un turno grazie al loro marcato adattamento regionale alla stessa Scozia, al Galles e alla Cornovaglia. D’altra parte, sono dichiaratamente di sinistra sia lo Scottish National Party che il partito nazionalista gallese Plaid Cymru, al punto che furono loro a promuovere l’espulsione della Lega dal gruppo dei partiti regionalisti al Parlamento europeo, proprio in quanto “troppo di destra”. Insomma, esiste nel Regno Unito una vera e propria frangia celtica anticonservatrice, contrapposta allo storico predominio dei tories nell’Inghilterra vera e propria. E quanto all’Irlanda, è notorio come l’ira dagli anni Sessanta in poi si sia caratterizzata fortemente in senso marxista. Meno noto è che questa evoluzione era già a buon punto negli anni Trenta, visto che contingenti dell’ira parteciparono alla guerra civile spagnola al fianco dei repubblicani, e in contrapposizione a quegli altri irlandesi della “Legione di San Patrizio” che in nome del cattolicesimo combatterono invece con i franchisti.
Non bisogna neanche dimenticare che, con tutto il loro cattolicesimo intransigente, gli irlandesi alla fine del Settecento non ebbero remore ad accettare l’aiuto della Francia giacobina per i loro tentativi insurrezionali. Ma il fatto è che all’epoca presbiteriani e cattolici erano uniti nella lotta contro il potere anglicano, anche perché entrambi esclusi dai diritti civili. E ci sarebbe voluto un secolo perché la sempre più marcata cattolicizzazione del nazionalismo irlandese ributtasse i protestanti nelle braccia del lealismo.
Un punto di svolta fu probabilmente lo scandalo che nel 1889 travolse il leader nazionalista protestante Charles Stewart Parnell, sposatosi a una sua ex amante da cui il marito aveva divorziato in seguito a quell’adulterio, e dunque demonizzato dai pulpiti cattolici, malgrado una vita trascorsa a difendere la causa irlandese. Altro particolare poco noto ma importante: nel 1182 re Enrico II d’Inghilterra iniziò la conquista dell’Irlanda proprio con l’aiuto e l’incoraggiamento del Papato, che non ne poteva più delle smanie di autonomia liturgica e dottrinale della Chiesa locale. Fu solo per l’incidente di percorso che spinse Enrico VIII a litigare con Roma per Anna Bolena se, divenuti eretici i re inglesi ex “difensori della fede”, furono invece rivalutati come “popolo difensore della fede” gli ex eretici. D’altra parte, se gli Stuart furono dei campioni del cattolicesimo, sia pure con qualche ambiguità, la Scozia è invece stata una roccaforte del calvinismo, e il Galles del metodismo. E fu il celtico Pelagio agli albori della Chiesa a predicare quell’eresia liberal ante litteram secondo cui il peccato originale non esisteva, e che tanto fece infuriare Sant’Agostino. Il nome greco del grande eretico, “uomo del mare”, non era altro che la traduzione di un originale britannico Morgan, tuttora ampiamente diffuso in Galles.
Ma vogliamo proprio puntualizzare tutto fino in fondo? In realtà, non è neanche del tutto corretto dire che l’Inghilterra “conquistò” la Scozia e il Galles. È vero infatti che nel 1282 quest’ultima regione era stata occupata da Edoardo I. Ma nel 1485 fu invece un esercito gallese a sconfiggere a Bosworth Field il re inglese Riccardo III, che trovò la morte gridando la famosa frase shakespeariana «Il mio regno per un cavallo!». Solo che il vincitore Enrico Twdwr, inglesizzato in Tudor, era sì discendente diretto di Rhys ap Gruffydd, leader della resistenza anti-inglese nel XII secolo. Ma suo nonno Owain aveva sposato in segreto Caterina di Valois, vedova del re d’Inghilterra Enrico V, mentre suo padre Edmund aveva sposato una discendente di re Edoardo III. Piuttosto che dare l’indipendenza alla sua terra preferì dunque rivendicare la corona di Inghilterra e Galles assieme, col nome di Enrico VII. Fu tra l’altro per sostenere le sue pretese dinastiche che fece scrivere la storia di re Artù, dando poi il nome di Arturo al suo primogenito, morto prima di ascendere al trono. E fu anzi durante il regno di suo figlio Enrico VIII, il secondogenito, che l’Act of Union del 1536 sancì la formale annessione del Galles all’Inghilterra. Quanto alla Scozia, era invece arrivata indipendente all’età moderna, malgrado i reiterati tentativi di occupazione fatti dagli inglesi nel Medio Evo. Non fu conquistata, ma fu il re di Scozia Giacomo VI Stuart, figlio della famosa Maria Stuarta, che ereditò come Giacomo I il trono d’Inghilterra alla morte di sua zia Elisabetta I, la nubile figlia di Enrico VIII. Che poi essendo l’Inghilterra più ricca e popolata sia stata la Scozia a essere fagocitata nell’abbraccio, questo è un altro paio di maniche...

Eredità celtica, ce n’è per tutti
Tornando alla destra, si può ricordare che dalla sovrapposizione della croce cristiana al simbolo solare dei druidi, al tempo della predicazione di San Patrizio, nacque la croce celtica. E dai cimiteri irlandesi questo segno è rimbalzato nella simbologia dell’estrema destra europea, da quando negli anni Trenta i fascisti francesi decisero di lanciarlo come emblema politico-esoterico affiancabile alla svastica tedesca e al fascio littorio italiano. Ma in campo ambientalista e new age si ricorda invece oggi che quella dei celti era una religione ecologista, collegata ai boschi, alle sorgenti, alla natura. Già dai tempi della Norma di Bellini il grande pubblico conosce i druidi come sacerdoti che accettavano la parità dei sessi, ammettendo nei propri ranghi le donne. Naturalmente, queste mitologie libertarie lasciano scettici gli studiosi più preparati. «I celti erano governati da oligarchie militari, non hanno mai mostrato una capacità di aggregazione politica», ci diceva nel 1991 Sabatino Moscati. «Ma dedurre da ciò una vera e propria ideologia è confondere la realtà».
In effetti, fu la loro incapacità di organizzarsi di fronte alla minaccia di latini, germani e slavi a cancellare i celti dal continente. E anche a impedire ai celti britanno-gaelici, pur protetti dalla marginalità geografica, di salvaguardare la loro indipendenza da Inghilterra e Francia. Tuttavia, proprio dalla loro evanescenza deriva una scarsezza di informazioni per cui ognuno può trarre acqua al suo mulino. Se gli ecologisti si sono richiamati al loro naturalismo, e il radicalismo di destra ne ha esaltato il tradizionalismo, la corrente democratica francese ha invece cercato nella loro storia le radici della sovranità popolare. «I nostri antenati i galli» inizia il famoso libro di storia della scuola laica e repubblicana, e fu un popolare slogan della rivoluzione francese, quello della rivolta del popolo gallo-romano contro i discendenti degli invasori germanici, che Sieyès incitava a «rispedire nelle foreste della Franconia». Si può aggiungere il “comunismo primitivo”, che ha ammaliato i marxisti fino alla passione no global per l’icona “anti-imperialista” di Asterix; la refrattarietà all’idea di Stato, che piace ai liberisti; la resistenza dei culti druidici alla cristianizzazione e lo spiritualismo panteista, che hanno affascinato i mistici, e di cui un’eco in stile new age faceva spesso capolino sul quotidiano leghista Padania all’epoca della “fase indipendentista” del 1996-2000, quando il centro dell’immaginario leghista erano le ampolle con l’acqua del “Dio Po”. Ma va ricordato che la fase “celtica” venne nella Lega dopo la mania per Alberto da Giussano e le nostalgie asburgiche del primo periodo autonomista, e anche dopo la riscoperta longobarda del secondo periodo federalista. Dopo il 2000, con il ritorno nella Casa delle Libertà, la Lega ha iniziato una quarta fase, ispirata ormai al cattolicesimo tradizionalista. Ma nessuno di questi passaggi è rimasto senza residui, e se della fase Alberto da Giussano resta ad esempio il simbolo, all’infatuazione per Brenno e Braveheart si deve la passione tuttora viva nel “popolo padano” per la musica celtica, simboleggiata da quel concorrente del “Grande Fratello” che si era presentato alla “Casa” con kilt e cornamusa. Ma, appunto, la musica celtica la ascoltano notoriamente anche i giovani di destra. Mentre negli anni Settanta Allan Stivell e i complessi irlandesi irruppero in Italia nell’ambito di quella stessa moda per il folk che aveva accompagnato l’ascesa del pci tra 1974 e 1978, e di cui fu la massima icona il successo degli Inti Illimani. Un dato curioso è che nello stesso Cile di oggi la musica celtica è ormai più popolare di quella andina, al punto che i protagonisti dei romanzi di Marcela Serrano si accendono di emozioni all’ascoltare Loreena McKennitt.

La musica che non c’è
Insomma, se come spiegavamo in passato quella andina è una musica considerata di sinistra che però nacque col concorso della Cia e finì per fare da colonna sonora alla caduta del comunismo, la musica celtica ha un’adattabilità ancora maggiore. Resta però un dubbio, legato alla già citata inconsistenza musicale dei reperti archeologici sui celti antichi e all’altrettanto citata origine mediterranea della zampogna: ma la musica che viene definita celtica è poi veramente tale? In effetti un grande ruolo nella nascita di questa etichetta l’ha avuto il già citato polistrumentista bretone Alan Stivell, che in effetti si chiama Alan Cochevelou, e che è nato in Borgogna (nel 1944) e cresciuto a Parigi. Ma bretone era suo padre, che faceva il musicologo, e che quando aveva 9 anni gli costruì una telenn: un’arpa identica a quella che in Bretagna si era usata fino alla fine del Medio Evo. Va detto che quello era stato uno strumento dell’aristocrazia, non popolare. E anche che dopo la sua estinzione era conosciuto unicamente attraverso referenze iconografiche, tant’è che papà Cochevelou aveva dovuto dare un’occhiata alla tuttora esistente arpa irlandese per compiere il suo lavoro. In compenso, Cochevolu figlio ne divenne un virtuoso, appassionandosi anche all’idea di far “risorgere” le antiche culture celtiche al punto da assumere appunto il nome d’arte di Stivell: in bretone “sorgente”, ma anche ipotetica ricostruzione dell’etimologia di Cochevelou in kozh stivelloù, “vecchie fontane”. Così studiò anche il bretone, per recarsi poi in Scozia a imparare la locale cornamusa. Nei 26 album da lui incisi tra 1961 e 2002 si esibisce praticamente in tutte le varietà di arpa, zampogna, oboe e flauto dei vari paesi celtici, e canta anche in tutte le lingue celtiche conosciute vive e morte, oltre che in inglese e francese. «Abbatteremo i muri di vergogna che ci impediscono di guardare il mare/ le torri che ci separano dai nostri stretti fratelli di Scozia, di Galles e d’Irlanda», diceva una sua composizione (in francese) del 1974.
In concomitanza col suo successo è cresciuto anche un nuovo movimento regionalista bretone che, a differenza di quello degli anni Quaranta, è oggi orientato su posizioni di sinistra, anche se elettoralmente conta poco. Negli anni Settanta c’è stato perfino quale fugace attentato di un movimento terrorista ispirato all’ira e all’eta. Ma l’importanza del revival celtico in Bretagna è stata soprattutto culturale, con la creazione della vasta rete di scuole in bretone Diwan e con la rete altrettanto ampia delle orchestre Bagad. Oltre che con i dischi di Alan Stivell la Bretagna ha poi contribuito al boom dell’idea di panceltismo musicale con il Festival Interceltico di Lorient, che nato nel 1971 è ormai arrivato alla trentacinquesima edizione. E lì la fusione tra l’aggressiva ideologia panceltista bretone, il successo che la musica irlandese già riscuoteva sul mercato Usa e l’immagine tradizionalmente forte del folklore scozzese ha fatto il resto. Ironicamente, quello che rimane defilato è il Galles, pur essendo la regione al mondo dove una lingua celtica è più diffusa.
Non solo, comunque, il successo della musica celtica ha spinto varie regioni d’Europa a imitare la richiesta di “ammissione” al celtismo già riuscita alla Galizia. Un po’ in tutta Europa il modello bretone-irlandese-scozzese ha influenzato in profondità gli arrangiamenti e la scelta strumentale dei complessi di folk revival, alle prese col problema di un repertorio che spesso è raccolto dalla voce di informatori anziani come melodia nuda e cruda. In Italia questo è stato in particolare il caso del Nord, che come tutte le aree più sviluppate ha conservato di meno certe tradizioni organologiche invece ancora presenti nel Centro-sud. È stato per questo, molto più che per l’influenza leghista o per improbabili affinità elettive pre-romane, se oggi in alta Italia l’arrangiamento in stile celto-irlandese è dominante. Paradossalmente, anzi, in genere nei festival leghisti, a presenza più popolare che intellettuale, la proposta di “folklore padano” è invece fatta in quello stile liscio-coro alpino che deriva dalla musica leggera italiana pre-era del rock, e che resta l’unica grande “confezione” alternativa al modello celtico.
Naturalmente, in questo modo una grammatica musicale comune alla fine si è creata. Ma, come è facile da capire, più per uno sforzo ideologico consapevole che non per vera e propria riscoperta di una ipotetica cultura pervenuta dall’antichità. Lo stesso Stivell, in particolare, ha orientato la propria ricerca verso un filone strumentale volutamente arcaizzante di arpe e fiati, trascurando del tutto quell’organetto che invece nel folklore bretone recente ha avuto un’influenza massiccia, al punto che i preti dai pulpiti lo avevano ribattezzato “scatola del diavolo”. Ma questa ricerca melodico-armonica aristocratica non ha in compenso disdegnato i flirt ritmici più spericolati con bassi, chitarre elettriche e batterie, secondo la moda rock degli anni Sessanta. Allo stesso modo, quel che oggi è considerato l’organico tipico del complesso irlandese è stato messo assieme dall’industria discografica statunitense, alla voluta ricerca di un prodotto in grado di interessare il campanilismo della vastissima comunità di oriundi irlandesi degli States. Così ad esempio si è imposto l’accompagnamento della chitarra, non a caso non presente nella più purista strumentazione dei Chieftains. Allo stesso modo si è reso onnipresente il tamburello bodhran, che in precedenza era usato sempre da solo, e essenzialmente in contesti rituali. Insomma, l’orchestrina irlandese al cui suono saltellano Leonardo di Caprio e Kate Winslet in Titanic non è anch’essa più storica dei kilt di Braveheart o del romano con l’orologio.
D’altra parte, anche l’organico tipico della bagad si forma tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Cinquanta, quando si decise di adottare la cornamusa scozzese al fianco e spesso anche al posto del più antico ma meno versatile biniou bretone. Sia il biniou che la bagpipe scozzese, ribattezzata biniou braz (=grande), fanno coppia con quel tipo di oboe popolare senza chiavi che in Bretagna chiamano bombarde, e che corrisponde strettamente al piffero dell’Italia del Nord e alla ciaramella dell’Italia centro-meridionale. La concomitanza di date lascia intuire che un gran ruolo lo ebbe sia lo sbarco dei reggimenti Highlanders durante il d-day, sia l’esilio di soldati bretoni in Gran Bretagna al seguito di De Gaulle. Altre tradizioni vanno più indietro, ma ben di rado oltre i tre o quattro secoli, e mai fino all’anno Mille. Anche lasciando da parte quello storico normanno Giraldus Cambrensis che nel XIII secolo testimoniava come i gaeli non avessero fatto altro che copiare la musica dei vichinghi, una ricerca attenta dimostra come in realtà anche le famose danze irlandesi non sono in gran parte che balli di corte della Parigi di Napoleone, mentre nel folklore bretone ci sono addirittura le tarantelle e le monferrine che i reduci dello stesso Napoleone avevano appreso durante le campagne d’Italia. Pure l’Italia centra molto nello stile di Turlogh O’ Carolan: il mitico arpista irlandese vissuto tra 1670 e 1738, e le cui oltre 200 composizioni sono alla base di quel moderno mito dell’arpa celtica cui ha attinto lo stesso Stivell. Al suo tempo a Dublino erano infatti di gran moda compositori nostrani come Corelli, Vivaldi e Geminiani, e in particolare di Corelli O’ Carolan era un grande ammiratore. Alcuni studiosi ritengono che la particolare composizione chiamata dall’arpista planxty, solitamente in tempo di 6/8, fosse un tentativo di imitare quel particolare movimento chiamato giga, presente solitamente come chiusura delle sonate composte dagli autori italiani. E la scuola violinistica italiana del Seicento e Settecento sembra centrare molto anche nel famoso stile dei suonatori irlandesi e scozzesi, passato poi con l’emigrazione d’oltre Atlantico a determinare certi tipici stilemi del country statunitense.
D’altra parte, se la musica irlandese e scozzese deriva molto di più dall’Italia che dagli antichi celti, in compenso a un’analisi musicologica non sembra poi imparentata alla musica bretone come il mito panceltista suggerisce. Identificando le melodie in modo empirico a partire dall’ultima nota uno studio di Breandán Breathnach ha infatti stimato in oltre il 60 per cento le melodie irlandesi in modo di do, contro il 15 per cento in modo di sol o misolidio, il 10 per cento in re o dorico e l’altro 15 per cento in la. E proporzioni simili ha la musica scozzese, pur con qualche differenza: quasi assenza del dorico nelle Lowlands; una certa presenza del mi (frigio); e qualche esempio del fa (lidio). Inoltre le scale penatoniche ed esatoniche appaiono in estinzione, attraverso la diffusa pratica del “riempimento” dei gradi mancanti. Al contrario, la musica bretone presenta un universo modale completo, con melodie in tutti e sette i toni, scale pentatoniche e esatoniche diverse da quelle “riempite” in Scozia e Irlanda, e anche scale di quattro e perfino tre note. «A prescindere dall’utilizzo di scale minori melodiche, o comunque con occasionali alterazioni della sensibile di sapore tonale, e dell’impiego occasionale di cromatismi che rimandano alle scale arabe ed ebraiche», scrivono i musicologi Raffaello Carabini, Gianni Cunich e Giancarlo Nostrini, «la musica bretone sembra effettivamente un esempio quasi unico di sopravvivenza dell’universo musicale medievale sino ai nostri giorni. Se appare suggestiva la tesi che in questo caso possa aver conservata almeno un’essenza dell’originaria genuina identità celtica della cultura bretone, è assai più verosimile sostenere che a plasmarla sia stata l’influenza del canto gregoriano, e in definitiva, come alcuni studiosi bretoni hanno efficacemente sottolineato, essa ha probabilmente più punti di contatto con le musiche dei paesi dell’estremo Oriente che con altre tradizioni “cugine” di Irlanda e Scozia».
Insomma, la musica celtica è come il Cavaliere Inesistente di Italo Calvino. Non c’è, ma sa di esserci
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Maurizio Stefanini, giornalista e saggista.

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