Un futuro di democrazia
di Nathan Sharansky
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

Se la Dottrina Bush significa associare la politica estera degli Stati Uniti al grado di libertà goduto dai cittadini di altri paesi, come ha sostenuto il presidente Bush nel suo secondo discorso inaugurale, quando ha dichiarato che l’America avrebbe «favorito le riforme dei governi delle altre nazioni specificando che un trattamento corretto dei cittadini sarebbe stato essenziale per mantenere buone relazioni», allora sono un sostenitore della Dottrina Bush da più di trent’anni. È la stessa politica a lungo difesa da Andrei Sakharov e che negli Stati Uniti è stata praticata per la prima volta dal senatore Henry M. Jackson, e poi utilizzata con effetti devastanti da Ronald Reagan per distruggere l’impero sovietico, liberare centinaia di milioni di persone, contribuendo così a proteggere la civiltà occidentale.
La Dottrina Bush è stata avversata in primo luogo per la situazione attuale dell’Iraq. È difficile ricordare che soltanto otto mesi fa, un titolo di un giornale non certo noto per essere favorevole al presidente o alla dottrina che porta il suo nome, chiedeva, con stupore, “Bush aveva ragione?”
Quella settimana, gli elettori iracheni hanno stupito il mondo con una partecipazione del 60 per cento alle elezioni democratiche. Davanti a milioni di dita sporche di viola, i più accesi critici del presidente e della sua politica irachena, e in modo particolare dell’enfasi da lui posta sulla promozione della democrazia in Medio Oriente, sono rimasti quasi del tutto in silenzio. Per molti, le elezioni hanno mostrato chiaramente che, proprio come gli italiani, i tedeschi, i giapponesi, gli europei dell’Est, i russi, i sudamericani, e altri prima di loro, anche gli iracheni volevano davvero essere liberi. Coloro che invece avevano sempre sostenuto la necessità di aiutare gli iracheni a costruire una società libera, sono stati presi da una sorta di euforia collettiva.

Euforia abbastanza comprensibile: le idee di queste persone erano state bollate dai critici di destra e di sinistra, come sogni utopici e niente più. E ciò nonostante, era inappropriata: le elezioni irachene ci hanno dimostrato che un Iraq democratico era possibile, e non che fosse inevitabile.
Tuttavia, i critici del presidente, più scettici che mai, farebbero bene a ricordarsi quelle dita macchiate di viola. Perché se i sostenitori della Dottrina Bush hanno commesso l’ errore di pensare che le difficoltà fossero ormai superate, oggi i critici commettono un errore ancora più grande, quando sostengono che il progetto di costruire un Iraq democratico è destinato a fallire.
Questo non vuol dire che il futuro sarà facile. Un Iraq democratico è possibile perché gli iracheni vogliono essere liberi e perché il presidente degli Stati Uniti ha giustamente compreso, come pochi altri leader del secolo scorso, che la sicurezza della sua nazione dipende dal progresso della libertà nel mondo. Il popolo iracheno che anela alla libertà e un leader mondiale che è determinato a garantirla costituiscono una combinazione formidabile. Grazie a questa, l’esperimento democratico iracheno, negli ultimi due anni, ha superato più di un ostacolo, dagli orrendi massacri sulle strade di Baghdad all’opinione pubblica contraria alla guerra in America. Ma se, con questi nemici, questa combinazione vincerà, è un’altra questione.
Non facciamoci illusioni. Nessun regime antidemocratico del Medio Oriente, e di nessun’altra regione, desidera la libertà degli iracheni. I regimi che negano la libertà agli iraniani, ai siriani, ai sauditi, agli egiziani e molti altri, sanno che il successo dell’operazione irachena contribuirà a demolire il loro potere repressivo. E sono anche coscienti del fatto che la stragrande maggioranza dei loro (teoricamente) leali sudditi, da lungo tempo abituati all’arte dell’incoerenza ideologica, alzerà gli occhi verso l’Iraq libero, ponendosi questa semplice domanda: perché non qui?
Alla formidabile opposizione dei regimi antidemocratici, bisogna aggiungere la determinazione dei terroristi islamici a portare scompiglio in Iraq, perché giustamente comprendono che un Iraq libero rappresenterà la loro colossale sconfitta nella guerra che da più di venticinque anni combattono contro il mondo democratico . Immaginate un Giappone occupato dopo la seconda guerra mondiale, circondato da regimi e gruppi terroristici disposti a fare tutto il possibile per impedire l’emergere di una democrazia, e capirete le proporzioni dell’attuale conflitto iracheno.

Si può criticare l’amministrazione Bush per non aver riconosciuto le difficoltà inerenti alla democratizzazione del Medio Oriente, ma certo non per non aver dimostrato di avere la saggezza o il coraggio di tentare. Se non altro, il problema è stato non aver applicato la Dottrina Bush con sufficiente costanza. Ad esempio, lo scorso giugno, il segretario di Stato Condoleezza Rice ha tenuto un discorso davvero degno di nota al Cairo sull’importanza delle riforme democratiche nel Medio Oriente. Tuttavia, già prima della fine dell’estate, l’amministrazione ha compiuto ogni sforzo possibile per mantenere in vita il regime di Hosni Mubarak in Egitto, fornendo al contempo ben pochi aiuti all’opposizione democratica iraniana. Inoltre, ha sostenuto con entusiasmo il piano israeliano di disimpegno da Gaza, che ha del tutto scartato l’idea della centralità di una riforma democratica della Palestina nel processo di pace.
Ugualmente infelice è stata la scarsa attenzione prestata alla trasformazione della Dottrina Bush in una politica bipartisan. Non c’è dubbio che non si tratti di una cosa semplice in un clima politicamente polarizzato. Ma se la Dottrina Bush riuscirà a trasformare la regione e il mondo, dovrà restare la politica degli Stati Uniti anche dopo il 20 gennaio 2009. Eppure, ogni critica che posso muovere all’attuazione della Dottrina Bush è bilanciata dal profondo apprezzamento del fatto che i suoi meriti sono tutt’ora oggetto di discussione. Per troppo tempo, la politica estera americana è stata improntata sul presupposto che aiutare i dittatori amici fosse essenziale per la pace e la stabilità. Questa illusione è crollata l’11 settembre 2001 e il presidente Bush è stato abbastanza coraggioso da tracciare un nuovo corso. Per questo, merita soltanto lodi e gratitudine.

Tra i primi che gli sono riconoscenti ci sono i milioni di afgani e di iracheni che non vivono più sotto una tirannia, i milioni di libanesi che hanno iniziato a costruire una nazione libera, e il numero incalcolabile di democratici che cominciano a far sentire la propria voce in una regione un tempo caratterizzata soltanto da paura e repressione. Sono loro i veri beneficiari della Dottrina Bush e non dubito che l’America e il mondo siano molto più sicuri grazie al dono che è stato fatto loro.

(© Commentary)

(Traduzione dall’inglese di Arianna Capuani)

Nathan Sharansky, ex vice primo ministro di Israele, è distinguished fellow dello Shalem Center di Gerusalemme
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(c) Ideazione.com (2006)
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