Se
la Dottrina Bush significa associare la politica estera degli Stati Uniti
al grado di libertà goduto dai cittadini di altri paesi, come ha
sostenuto il presidente Bush nel suo secondo discorso inaugurale, quando
ha dichiarato che l’America avrebbe «favorito le riforme dei
governi delle altre nazioni specificando che un trattamento corretto dei
cittadini sarebbe stato essenziale per mantenere buone relazioni»,
allora sono un sostenitore della Dottrina Bush da più di trent’anni.
È la stessa politica a lungo difesa da Andrei Sakharov e che negli
Stati Uniti è stata praticata per la prima volta dal senatore Henry
M. Jackson, e poi utilizzata con effetti devastanti da Ronald Reagan per
distruggere l’impero sovietico, liberare centinaia di milioni di persone,
contribuendo così a proteggere la civiltà occidentale.
La Dottrina Bush è stata avversata in primo luogo per la situazione
attuale dell’Iraq. È difficile ricordare che soltanto otto
mesi fa, un titolo di un giornale non certo noto per essere favorevole al
presidente o alla dottrina che porta il suo nome, chiedeva, con stupore,
“Bush aveva ragione?”
Quella settimana, gli elettori iracheni hanno stupito il mondo con una partecipazione
del 60 per cento alle elezioni democratiche. Davanti a milioni di dita sporche
di viola, i più accesi critici del presidente e della sua politica
irachena, e in modo particolare dell’enfasi da lui posta sulla promozione
della democrazia in Medio Oriente, sono rimasti quasi del tutto in silenzio.
Per molti, le elezioni hanno mostrato chiaramente che, proprio come gli
italiani, i tedeschi, i giapponesi, gli europei dell’Est, i russi,
i sudamericani, e altri prima di loro, anche gli iracheni volevano davvero
essere liberi. Coloro che invece avevano sempre sostenuto la necessità
di aiutare gli iracheni a costruire una società libera, sono stati
presi da una sorta di euforia collettiva.
Euforia abbastanza comprensibile: le idee di queste persone erano state
bollate dai critici di destra e di sinistra, come sogni utopici e niente
più. E ciò nonostante, era inappropriata: le elezioni irachene
ci hanno dimostrato che un Iraq democratico era possibile, e non che fosse
inevitabile.
Tuttavia, i critici del presidente, più scettici che mai, farebbero
bene a ricordarsi quelle dita macchiate di viola. Perché se i sostenitori
della Dottrina Bush hanno commesso l’ errore di pensare che le difficoltà
fossero ormai superate, oggi i critici commettono un errore ancora più
grande, quando sostengono che il progetto di costruire un Iraq democratico
è destinato a fallire.
Questo non vuol dire che il futuro sarà facile. Un Iraq democratico
è possibile perché gli iracheni vogliono essere liberi e perché
il presidente degli Stati Uniti ha giustamente compreso, come pochi altri
leader del secolo scorso, che la sicurezza della sua nazione dipende dal
progresso della libertà nel mondo. Il popolo iracheno che anela alla
libertà e un leader mondiale che è determinato a garantirla
costituiscono una combinazione formidabile. Grazie a questa, l’esperimento
democratico iracheno, negli ultimi due anni, ha superato più di un
ostacolo, dagli orrendi massacri sulle strade di Baghdad all’opinione
pubblica contraria alla guerra in America. Ma se, con questi nemici, questa
combinazione vincerà, è un’altra questione.
Non facciamoci illusioni. Nessun regime antidemocratico del Medio Oriente,
e di nessun’altra regione, desidera la libertà degli iracheni.
I regimi che negano la libertà agli iraniani, ai siriani, ai sauditi,
agli egiziani e molti altri, sanno che il successo dell’operazione
irachena contribuirà a demolire il loro potere repressivo. E sono
anche coscienti del fatto che la stragrande maggioranza dei loro (teoricamente)
leali sudditi, da lungo tempo abituati all’arte dell’incoerenza
ideologica, alzerà gli occhi verso l’Iraq libero, ponendosi
questa semplice domanda: perché non qui?
Alla formidabile opposizione dei regimi antidemocratici, bisogna aggiungere
la determinazione dei terroristi islamici a portare scompiglio in Iraq,
perché giustamente comprendono che un Iraq libero rappresenterà
la loro colossale sconfitta nella guerra che da più di venticinque
anni combattono contro il mondo democratico . Immaginate un Giappone occupato
dopo la seconda guerra mondiale, circondato da regimi e gruppi terroristici
disposti a fare tutto il possibile per impedire l’emergere di una
democrazia, e capirete le proporzioni dell’attuale conflitto iracheno.
Si può criticare l’amministrazione Bush per non aver riconosciuto
le difficoltà inerenti alla democratizzazione del Medio Oriente,
ma certo non per non aver dimostrato di avere la saggezza o il coraggio
di tentare. Se non altro, il problema è stato non aver applicato
la Dottrina Bush con sufficiente costanza. Ad esempio, lo scorso giugno,
il segretario di Stato Condoleezza Rice ha tenuto un discorso davvero degno
di nota al Cairo sull’importanza delle riforme democratiche nel Medio
Oriente. Tuttavia, già prima della fine dell’estate, l’amministrazione
ha compiuto ogni sforzo possibile per mantenere in vita il regime di Hosni
Mubarak in Egitto, fornendo al contempo ben pochi aiuti all’opposizione
democratica iraniana. Inoltre, ha sostenuto con entusiasmo il piano israeliano
di disimpegno da Gaza, che ha del tutto scartato l’idea della centralità
di una riforma democratica della Palestina nel processo di pace.
Ugualmente infelice è stata la scarsa attenzione prestata alla trasformazione
della Dottrina Bush in una politica bipartisan. Non c’è dubbio
che non si tratti di una cosa semplice in un clima politicamente polarizzato.
Ma se la Dottrina Bush riuscirà a trasformare la regione e il mondo,
dovrà restare la politica degli Stati Uniti anche dopo il 20 gennaio
2009. Eppure, ogni critica che posso muovere all’attuazione della
Dottrina Bush è bilanciata dal profondo apprezzamento del fatto che
i suoi meriti sono tutt’ora oggetto di discussione. Per troppo tempo,
la politica estera americana è stata improntata sul presupposto che
aiutare i dittatori amici fosse essenziale per la pace e la stabilità.
Questa illusione è crollata l’11 settembre 2001 e il presidente
Bush è stato abbastanza coraggioso da tracciare un nuovo corso. Per
questo, merita soltanto lodi e gratitudine.
Tra i primi che gli sono riconoscenti ci sono i milioni di afgani e di iracheni
che non vivono più sotto una tirannia, i milioni di libanesi che
hanno iniziato a costruire una nazione libera, e il numero incalcolabile
di democratici che cominciano a far sentire la propria voce in una regione
un tempo caratterizzata soltanto da paura e repressione. Sono loro i veri
beneficiari della Dottrina Bush e non dubito che l’America e il mondo
siano molto più sicuri grazie al dono che è stato fatto loro.
(© Commentary)
(Traduzione
dall’inglese di Arianna Capuani)
Nathan Sharansky, ex vice primo ministro di Israele, è distinguished
fellow dello Shalem Center di Gerusalemme.
(c)
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