La società dei proprietari
di Mario Seminerio
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

George W. Bush ha solennemente affermato di volere che l’America diventi una società di proprietari. Prescindendo, per ora, dalla reale possibilità di concretizzare tale visione, cosa significa ciò, in pratica? È noto da molto tempo (ne scrisse già Aristotele) che gli individui tendono a prendersi maggiore cura delle cose che possiedono personalmente. Chi è proprietario dell’abitazione in cui vive tende ad averne più cura di chi vi si trova in affitto. Ciò non è determinato da una qualche “imperfezione” morale dell’inquilino, ma semplicemente dal fatto che il proprietario è più attento ai dettagli, quando si tratta di trarre profitto dal crescente valore della proprietà immobiliare, o di sopportarne una decurtazione causata dal rischio di un suo deterioramento. Più in generale, l’estensione della proprietà privata suscita maggiore orgoglio, dignità, fiducia in se stessi. Ma ciò non si riduce ad una sorta di pulsione egoistica che nega socialità e spirito di comunità.

Secondo Geoff Mulgan, uno stretto collaboratore di Tony Blair, «la sinistra è sempre stata incline a sottostimare l’importanza della proprietà privata e quanto sia difficile, per una democrazia carente di proprietà diffusa dei beni, dirsi compiutamente tale. Per sfuggire alla povertà sono necessari dei beni, ed è necessario che tali beni vengano fatti fruttare. Di ciò vi è ampia evidenza, storica e contemporanea. La proprietà dei beni determina il maggiore orientamento al lungo periodo nell’assunzione di decisioni, ed il maggior peso attribuito all’educazione».
Margaret Thatcher aveva in mente esattamente questo, quando decise di privatizzare il patrimonio abitativo pubblico britannico: 1.5 milioni di unità immobiliari vendute ad altrettanti inquilini, che ne sono divenuti orgogliosi proprietari. Thatcher riteneva che i neo-proprietari sarebbero divenuti più attivi e coinvolti nel preservare e migliorare la qualità della vita della propria comunità. Il valore della proprietà immobiliare tende ad essere incrementato dalla presenza diretta dei soggetti in essa coinvolti. Allo stesso modo, i cittadini possono essere stimolati a migliorare le proprie competenze attraverso l’acquisto di un altro bene fondamentale: la formazione, specialistica e permanente, nel corso della propria esistenza. Ma ciò può avvenire solo se i cittadini percepiscono di vivere in un contesto sociale che premia tale volontà di miglioramento e promozione di sé, cioè in un environment che tuteli il proprio investimento in capitale umano: a che serve migliorare ed accrescere le proprie competenze se si vive in un sistema sociale in cui corporativismi e vincoli limitano fortemente l’accesso a determinate professioni, rendendolo di fatto odiosamente ereditario, o in cui una elevata pressione fiscale disincentiva lavoro e propensione ad intraprendere?
Lo sviluppo di una società di proprietari può anche contribuire a preservare l’ambiente. Un’impresa privata di legname ha, come obiettivo primario, la riforestazione delle aree boschive da cui ricava il proprio prodotto. Si tratti o meno di genuina sensibilità ambientalista, è tuttavia certo che la preservazione nel lungo periodo delle proprie fonti di reddito rappresenta un poderoso incentivo a non depauperare le risorse naturali. Discorso analogo per il controllo dei costi indotti da esternalità negative: nell’Est Europa comunista, l’assenza di proprietà privata ed il disinteresse per prospettive di conservazione di lungo periodo degli assets patrimoniali si accompagnavano a livelli di inquinamento elevatissimi. Come scrisse nel 1995 l’allora primo ministro della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, «il peggior danno ambientale si verifica nei paesi privi di proprietà privata, mercati e prezzi».

Oggi, gli Stati Uniti hanno la più diffusa proprietà immobiliare della propria storia: il 68,6 per cento delle famiglie americane possiede l’abitazione in cui abita. Un dato tanto più interessante ove si consideri la maggiore mobilità geografica che caratterizza la popolazione attiva statunitense rispetto a paesi europei, come l’Italia, che presentano percentuali simili di proprietà immobiliare. Inoltre, circa la metà delle famiglie americane si qualifica, a vario titolo, per possesso azionario. Tale percentuale era pari al 32 per cento nel 1989 e a solo il 19 per cento nel 1983. In soli vent’anni un cambiamento epocale che ha determinato, com’era verosimile attendersi, profondi mutamenti nel sistema di preferenze pubbliche e negli orientamenti politici dell’elettorato coinvolto. Ma ciò significa anche che esiste un’“altra” America, quella a minor reddito medio, che è sprovvista di beni patrimoniali propri. In altri, ben identificabili, contesti socio-culturali questo problema verrebbe risolto tentando di redistribuire e diffondere la povertà. Negli Stati Uniti, l’idealità prevalente è invece quella di accrescere e diffondere la ricchezza ed il benessere.
Non sempre, tuttavia, i vantaggi della proprietà privata sono così intuitivamente ovvi ed immediati. Nel 1958 il celebre economista di Harvard, John Kenneth Galbraith, scrisse il libro che divenne in seguito una sorta di manifesto ideologico dell’intervento pubblico nell’economia: La società opulenta. In esso si mettevano a confronto opulenza privata e pubblico squallore. Da un lato, risorse privatamente possedute: pulite, efficienti, sottoposte a regolare e frequente manutenzione; dall’altro, spazi pubblici sporchi, affollati ed insicuri. Galbraith giunse alla conclusione che la soluzione di riequilibrio consistesse nello spostare risorse dal settore privato a quello pubblico, anziché estendere la proprietà privata. Generazioni di studenti sono così state indottrinate a questi precetti, quegli stessi che hanno generato l’ipertrofia degenerativa dell’intervento pubblico nell’economia negli anni Sessanta e Settanta, e che ancora oggi esercitano una tardiva fascinazione sugli ideologi di casa nostra che tentano, con il consueto lag ventennale, di lasciare le teorie collettiviste per una qualche abborracciata rimasticatura “socialdemocratica”.
Se l’obiettivo strategico è fare di ogni cittadino-lavoratore un investitore, titolare di beni patrimoniali, in grado di esercitare un controllo diretto sui fondi destinati al proprio mantenimento durante gli anni della pensione, e con un interesse esplicito e diretto alla crescita dell’economia nazionale, è necessario che i lavoratori possano trasformare i propri contributi alla Social Security in versamenti ai propri conti di risparmio individuali. Oggi, ogni lavoratore americano “invia” al governo il 12,4 per cento del proprio reddito lordo mensile (con un tetto reddituale di circa 90.000 dollari annui), sotto forma di contributi pensionistici. Su un reddito lordo annuo di 40.000 dollari, parliamo di un prelievo di 4.960 dollari. Ma non si tratta di un investimento la cui titolarità, per definizione, resta in capo al soggetto pagatore, bensì del finanziamento del sistema pensionistico a ripartizione ormai divenuto, per prevalenti ma non esclusivi motivi demografici, un infernale schema di Ponzi.
Con la rivoluzione copernicana della Ownership Society ogni lavoratore, anziché attendere l’alea del momento del pensionamento, e sperare nell’erogazione di una magra pensione da parte di un sistema previdenziale pubblico che sta lentamente avviandosi alla bancarotta, eserciterebbe un controllo diretto sui propri conti di risparmio previdenziale, il cui rendimento non può essere ridotto dal Congresso. Un altro beneficio della proprietà privata, non immediatamente riconducibile a motivazioni economiche, è che essa tende a ridurre la concentrazione del potere.
In un sistema sociale ad esclusiva o prevalente proprietà pubblica dei beni patrimoniali i cittadini non sono in grado di proteggersi dall’arbitrio dei politici. La diffusione della proprietà privata rappresenta quindi un’altra forma di lotta all’abuso dell’altrui posizione dominante, uno dei capisaldi del pensiero liberale. I pilastri della Ownership Society sono costituiti, oltre che da conti individuali di risparmio previdenziale e sanitario, anche dalla facoltà dei genitori di scegliere la scuola che i propri figli potranno frequentare.

Riguardo l’assistenza sanitaria, l’argomento a favore di meccanismi d’intervento pubblico poggia sui casi di fallimento del mercato, riconducibile alle situazioni di selezione avversa. La selezione avversa si verifica ogni volta che uno dei due potenziali contraenti dispone di informazioni migliori (cioè asimmetriche) rispetto all’altro. Quest’ultimo tenterà di difendersi facendo cose che di solito impediscono alle parti di concludere la transazione in modo soddisfacente. Immaginate di essere un soggetto giovane e sano, interessato ad acquistare un’assicurazione sanitaria. Ed ipotizzate quindi che la vostra compagnia di assicurazione stimi in 1000 euro l’anno il costo della spesa sanitaria per soggetti della vostra età. In questo caso, vi verrà richiesto un premio di 1000 euro. Tuttavia, se voi siete soggetti sani, e sapete che la vostra spesa sanitaria annuale è certamente inferiore ai 1000 euro, rinuncerete a comprare la polizza. Ma questo è esattamente ciò che squilibra il sistema.
Le compagnie di assicurazione hanno bisogno dei 1000 euro di premio pagato dai soggetti sani per riuscire a pagare i 30.000 euro annui necessari, ad esempio, alle cure dei pazienti oncologici. A questo punto, per cercare di mantenere in equilibrio i propri conti, l’assicurazione dovrà portare il premio annuo a 1500 dollari. Ma così facendo, gli assicurati “quasi sani”, cioè quelli che spendono ogni anno meno di questo importo, pur non avendo una spesa sanitaria nulla, cesseranno di rinnovare la propria polizza. E così via, in un circolo vizioso che gli economisti chiamano adverse selection death spiral. Come interrompere questa spirale infernale che tende a permanere, pur ridimensionata, anche in caso di utilizzo di questionari sanitari preliminarmente alla sottoscrizione della polizza? Appare evidente che il sistema resta in equilibrio solo se in esso vengono fatti entrare quanti più soggetti sani è possibile. Negli Stati Uniti ciò è (o dovrebbe essere) ottenuto attraverso le polizze sanitarie collettive stipulate dai datori di lavoro. Ma come stiamo verificando in questi mesi, anche qui si stanno manifestando profondi squilibri attuariali, che rischiano di minare il sistema dalle fondamenta. La via alternativa per massimizzare il numero di soggetti sani assicurati passa attraverso il sistema di copertura sanitaria universale, erogata dal governo, e finanziata in prevalenza per mezzo delle imposte. Tuttavia, come noto, anche qui sorgono problemi di eccesso di spesa sanitaria, come ben sanno i cittadini europei.
Secondo alcuni economisti, la via da seguire per massimizzare il benessere della collettività, minimizzandone i costi, consiste nel rendere obbligatoria la sola assicurazione sanitaria sugli eventi catastrofici, cioè quelli che, al verificarsi dell’evento assicurato, implicano elevatissimi costi: patologie croniche, oncologiche e così via. Una polizza per eventi sanitari catastrofici è un contratto a franchigia molto elevata, che quindi esclude le spese sanitarie minori, quali quelle per piccole patologie e controlli di routine.
Partendo dal presupposto che le dinamiche di spesa nella sanità seguono la legge della domanda e dell’offerta, la presenza di sistemi sanitari onnicomprensivi e/o con bassa o nulla compartecipazione alla spesa finisce con l’esercitare una forma di azzardo morale: se un soggetto sa che i suoi costi sanitari saranno comunque coperti dall’assicurazione, egli avrà scarsi o nulli incentivi ad investire nella prevenzione. Altro elemento che incide sulla dinamica della spesa è l’entità della co-assicurazione, ovvero la compartecipazione del cittadino alla spesa sanitaria che lo riguarda.

Un vecchio studio del Rand Institute ha evidenziato la correlazione diretta esistente tra pagamenti effettuati da soggetti terzi per conto del paziente (mutue aziendali negli usa, servizio sanitario nazionale in Europa) e crescita della spesa sanitaria complessiva. Per contro, al crescere della compartecipazione del cittadino alla spesa sanitaria, il trend della stessa tende a seguire più o meno da vicino il più generale incremento del prodotto interno lordo. Anche l’obiezione circa il presunto danno alla prevenzione che sarebbe causato dall’introdurre una relazione più diretta ed immediata tra spesa e servizi sanitari non sembra suffragata dai fatti, come dimostra una ricerca (per quanto non recentissima) di Robert Brook ed altri ricercatori, pubblicata sul New England Journal of Medicine, che giunse alla conclusione che la gratuità dei trattamenti sanitari non conduceva a significativi miglioramenti nella salute del campione statistico osservato. (Robert Brook et al., “Does Free Care Improve Adults’ Health? Results from a Randomized Clinical Trial,” New England Journal of Medicine, December 8, 1983).
Quale via seguire, quindi? La proposta è quella di intervenire sulla legislazione fiscale: il datore di lavoro manterrebbe piena esenzione per le polizze sanitarie a protezione del rischio catastrofico, sottoscritte per i propri dipendenti. Tali polizze, per motivi attuariali, hanno un costo molto contenuto. Le somme in tal modo risparmiate dalle aziende dovrebbero essere messe a disposizione dei dipendenti, su conti sanitari individuali, ed investite in strumenti finanziari a basso rischio, per essere specificamente utilizzate per le spese sanitarie “minori” e per la prevenzione. In caso di utilizzo di tali risparmi individuali per finalità diverse dall’acquisto di servizi sanitari, le somme prelevate dovrebbero essere tassate all’aliquota normale applicata su beni e servizi non sanitari, con eventuale penalizzazione. In tal modo, il ripristino di un legame diretto e visibile tra spesa sanitaria individuale e prestazioni per essa acquisite incentiverebbe i controlli medici di routine, quelli legati alla prevenzione, che tipicamente hanno un limitato esborso immediato ma consentono significativi risparmi nel lungo periodo, legati statisticamente alla minore necessità di curare patologie che la prevenzione consente.
Il cardine del sistema è rappresentato dal forte ridimensionamento del pagamento di prestazioni e servizi sanitari da parte di soggetti diversi dal fruitore. Il doppio standard assicurativo (coperture catastrofiche ed aumentata compartecipazione alla spesa, in regime di mercato, per prevenzione e prestazioni di routine) sembra quindi in grado di gestire in modo soddisfacente il problema del fallimento del mercato, preservando il valore fondamentale della prevenzione. Peraltro, l’introduzione di questo sistema servirebbe a ridurre i costi della struttura burocratica necessaria a verificare i vincoli di prezzo periodicamente imposti dallo Stato per controllare (illusoriamente) la dinamica della spesa sanitaria.

Considerando l’evoluzione demografica della nostra società, con l’imminente pensionamento della generazione dei baby boomers, per evitare la gigantesca spoliazione dei diritti delle generazioni future, camuffata dalla retorica della solidarietà intergenerazionale (che noi italiani tanto bene conosciamo), occorrerebbe introdurre dei vouchers per gli anziani, da integrare con fondi privati, che servirebbero per acquistare direttamente prodotti assicurativi più confacenti alle proprie esigenze specifiche. Il contributo pagato dai lavoratori dipendenti sulla propria busta-paga dovrebbe, poi, confluire su conti di risparmio individuali, da investire sui mercati finanziari.
In pratica, si affermerebbe la rivoluzione copernicana del passaggio da un sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione, applicata al sistema sanitario.


Mario Seminerio, è economista presso una società di gestione del risparmio. Si è laureato in economia aziendale presso l’Università Bocconi di Milano.

(c) Ideazione.com (2006)
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