Novembre 2005, Inghilterra. La ragazza entra alla Sinfin community school
di Derby, al collo ha un grande crocifisso d’oro, il preside la osserva,
la ferma e l’avverte: «Niente gioielli in classe, toglitelo».
«Non è un gioiello – dice la ragazza – è
un simbolo religioso». «Toglilo lo stesso». «Ma
gli studenti sick indossano senza problemi lo spadino cerimoniale e i braccialetti
kara, perché io non posso portare la croce?». «La loro
religione impone di portare quei simboli, la tua no». E il preside
chiude il discorso. La conclusione è che qualche volta il laicismo
è davvero ottuso. Forse bisognerebbe partire da qui.
Qualcosa sta cambiando nell’Occidente, lo vedi nel desiderio di boicottare
la Coca-Cola, feticcio del capitalismo e delle multinazionali. Lo senti
nella rabbia anti-moderna di chi non vuole l’alta velocità.
Il treno, antico simbolo degli anarchici, il mezzo di locomozione popolare,
che diventa simbolo di un futuro cattivo, da abbattere, da cancellare. Lo
registri nello “Scudo di Davide” di stirpe ebraica che finisce
sulle autoambulanze accanto alla croce rossa, per non discriminare, per
essere equidistanti. Qualcosa sta cambiando. L’ideologia se ne era
andata lasciando, dopo un secolo di pensieri logorroici, un vuoto di parole,
ora torna muta, ma con la forza delle immagini. È tornata a nascondersi,
come ha sempre fatto all’alba dei suoi ritorni, dietro le icone, dietro
simboli che dicono tutto e attirano amore e odio. Un giorno, forse, torneranno
anche le parole, magari sotto forma di frammento, più simili ai proverbi
di Mao che alle teorie di Marx. Il futuro sarà una guerra di simboli,
vincerà chi metterà in campo quello più forte. Si torna
a Costantino: In hoc signo vinces. Ora bisogna capire cosa c’è
sotto le immagini.
Il sospetto è che il sentimento più diffuso sia una forte
antipatia contro la modernità. E in fondo è un vizio antico.
I senatori romani che si riconoscevano nel partito degli ottimati erano
anti-moderni. Lo erano i due Catoni. Lo erano gli intellettuali che biasimavano
la cultura greca, colpevole di aver corrotto i costumi romani. Erano anti-moderni
i monaci erranti del Medioevo, gli eretici che avevano anticipato la rivoluzione
pauperista di San Francesco d’Assisi. Anti-moderna era la Chiesa che
guardava con sospetto il mercato. La deriva giacobina, durante la rivoluzione
francese, si riconosceva nella visione del mondo di una padre dell’anti-modernità
come Rousseau. L’anti-modernismo è la ricetta base di tutte
le ideologie. È la farina con cui è stato fatto il pane del
comunismo e del nazismo, solo il lievito era diverso. Cosa è successo
ora? Quando l’ideologia ha lasciato il mondo degli uomini, con un
evento simbolico come la caduta del Muro di Berlino, qualcuno ha bestemmiato
per la perdita del pane, qualcun altro ha detto: facciamo un pane diverso.
Tutti più o meno erano comunque convinti che quel pane sarebbe rimasto
fuori commercio per un bel po’ di tempo. Nessuno ha pensato alla farina.
L’Italia si è adeguata in fretta. L’anti-modernismo è
ancora la ricetta più diffusa, cambia ancora una volta il lievito.
La sinistra che sogna i pacs e difende la legge sull’aborto è
immersa in un sentimento reazionario per tutto il resto: la tecnologia,
la velocità, l’individualismo, il mercato fanno paura, tutto
ciò che non è natura fa paura. Il sogno ideologico della sinistra
si è spostato dalle metropoli alla campagna, dalle fabbriche all’agricoltura,
dall’operaio al contadino, dalla rivoluzione alla resistenza. La destra
che non crede nell’età dell’oro platonica, nel buon selvaggio
di Rousseau, nella storia del mondo come eterna decadenza di un ideale perduto,
alza la bandiera del tradizionalismo (cattolico) ogni volta che la legge
civile incrocia l’etica religiosa. Tutto questo, comunque, ci può
stare. Non stiamo qui a discutere del sentimento e dei valori individuali.
Ognuno è libero di considerare gli ogm cibo per un mondo di Frankenstein,
o di dire che la selezione degli embrioni gli ricorda certi discorsi sulla
purezza della razza, e una serie infinita di film o romanzi di fantascienza.
In genere si può dire che la sinistra protegge la natura e la destra
l’uomo. Tutti e due ritengono, chiaramente, che il male sia la modernità.
Il problema è che l’anti-modernismo sta lievitando in scontro
ideologico. La politica si sta arroccando intorno ai simboli e alle parole
d’ordine: global e no global, pacs e no pacs, bio e biotech, flexy
e no-flexy, conservatori (reazionari) post-marxisti contro conservatori
(reazionari) neo cattolici. Qualcuno dirà che questa è la
politica.
È scontro di idee, opinioni e visioni del mondo. È per questo
che non è mai esistito un manifesto dei “terzisti”, di
chi non sta né di qua e né di là. Probabile, anzi sicuro.
L’unica obiezione che si può fare è che la politica
è idee, opinioni e visioni del mondo, ma non deve essere per forza
di cose una fede. Anche perché la politica è soprattutto potere:
arte del potere, scontro tra poteri, orgasmo del potere. La politica come
fede genera monaci, personaggi che indossano il saio, brandiscono simboli
e animano il dibattito pubblico con le loro prediche. Il loro obiettivo
non è difendere o affermare le proprie idee, non è neppure
portare voti alla loro coalizione, è semplicemente il potere. L’abito
del monaco in questa stagione di anti-modernismo assicura la visibilità.
A destra, per esempio, si sente sempre più parlare di fusionismo,
la necessità di trovare una linea d’incontro all’interno
della coalizione. È una strategia politica lungimirante, che dovrebbe
far tesoro dell’esperienza americana. È il sogno bipartisan.
Qualcuno pensa che i monaci possano essere i protagonisti di questo processo.
Sono loro i “politici forti” che danno identità alla
coalizione. Ma questo è un abbaglio. I monaci, nella loro foga, non
danno identità, ma costruiscono solo anti-identità. È
quello che è successo alla sinistra quando, dopo dieci anni di anatemi,
si è resa conto di riconoscersi in un solo sentimento: l’antiberlusconismo.
La destra rischia di diventare anti-laicista.
A questo punto si può tornare ai simboli. La realtà politica,
con il proporzionale, parla di una destra a tre punte. Una è legata
al destino di Berlusconi, le altre due un giorno risolveranno la questione.
La Lega resta sul confine. La campagna elettorale enfatizzerà le
differenze dei partiti alleati. E già questo rende difficile il progetto
fusionista. Ma guardiamo al futuro. Questo progetto di fusione avrà
dei costi e ce n’è uno che rischia di essere troppo caro: l’esilio
del pensiero liberale. Il liberalismo potrebbe essere un punto d’incontro
per cattolici e gaullisti. È un’illusione, perché dopo
la sbornia di parole degli anni Novanta il liberalismo ispira a ex dc e
a ex msi solo profonda antipatia. Non devono più far finta di conoscere
Hayek o Tocqueville. Sono tornati a casa. Ma soprattutto in questa guerra
di simboli i liberali sono sconfitti in partenza. La libertà, diceva
Kant, è cosa in sé. È trascendentale. La libertà
non ha simboli. È questo il problema. Segue domanda: la croce può
essere simbolo di libertà?
Vittorio Macioce,
caposervizio de Il Giornale.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuileton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006