Fusionista per caso
di Vittorio Macioce
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

Novembre 2005, Inghilterra. La ragazza entra alla Sinfin community school di Derby, al collo ha un grande crocifisso d’oro, il preside la osserva, la ferma e l’avverte: «Niente gioielli in classe, toglitelo». «Non è un gioiello – dice la ragazza – è un simbolo religioso». «Toglilo lo stesso». «Ma gli studenti sick indossano senza problemi lo spadino cerimoniale e i braccialetti kara, perché io non posso portare la croce?». «La loro religione impone di portare quei simboli, la tua no». E il preside chiude il discorso. La conclusione è che qualche volta il laicismo è davvero ottuso. Forse bisognerebbe partire da qui.
Qualcosa sta cambiando nell’Occidente, lo vedi nel desiderio di boicottare la Coca-Cola, feticcio del capitalismo e delle multinazionali. Lo senti nella rabbia anti-moderna di chi non vuole l’alta velocità. Il treno, antico simbolo degli anarchici, il mezzo di locomozione popolare, che diventa simbolo di un futuro cattivo, da abbattere, da cancellare. Lo registri nello “Scudo di Davide” di stirpe ebraica che finisce sulle autoambulanze accanto alla croce rossa, per non discriminare, per essere equidistanti. Qualcosa sta cambiando. L’ideologia se ne era andata lasciando, dopo un secolo di pensieri logorroici, un vuoto di parole, ora torna muta, ma con la forza delle immagini. È tornata a nascondersi, come ha sempre fatto all’alba dei suoi ritorni, dietro le icone, dietro simboli che dicono tutto e attirano amore e odio. Un giorno, forse, torneranno anche le parole, magari sotto forma di frammento, più simili ai proverbi di Mao che alle teorie di Marx. Il futuro sarà una guerra di simboli, vincerà chi metterà in campo quello più forte. Si torna a Costantino: In hoc signo vinces. Ora bisogna capire cosa c’è sotto le immagini.

Il sospetto è che il sentimento più diffuso sia una forte antipatia contro la modernità. E in fondo è un vizio antico. I senatori romani che si riconoscevano nel partito degli ottimati erano anti-moderni. Lo erano i due Catoni. Lo erano gli intellettuali che biasimavano la cultura greca, colpevole di aver corrotto i costumi romani. Erano anti-moderni i monaci erranti del Medioevo, gli eretici che avevano anticipato la rivoluzione pauperista di San Francesco d’Assisi. Anti-moderna era la Chiesa che guardava con sospetto il mercato. La deriva giacobina, durante la rivoluzione francese, si riconosceva nella visione del mondo di una padre dell’anti-modernità come Rousseau. L’anti-modernismo è la ricetta base di tutte le ideologie. È la farina con cui è stato fatto il pane del comunismo e del nazismo, solo il lievito era diverso. Cosa è successo ora? Quando l’ideologia ha lasciato il mondo degli uomini, con un evento simbolico come la caduta del Muro di Berlino, qualcuno ha bestemmiato per la perdita del pane, qualcun altro ha detto: facciamo un pane diverso. Tutti più o meno erano comunque convinti che quel pane sarebbe rimasto fuori commercio per un bel po’ di tempo. Nessuno ha pensato alla farina.
L’Italia si è adeguata in fretta. L’anti-modernismo è ancora la ricetta più diffusa, cambia ancora una volta il lievito. La sinistra che sogna i pacs e difende la legge sull’aborto è immersa in un sentimento reazionario per tutto il resto: la tecnologia, la velocità, l’individualismo, il mercato fanno paura, tutto ciò che non è natura fa paura. Il sogno ideologico della sinistra si è spostato dalle metropoli alla campagna, dalle fabbriche all’agricoltura, dall’operaio al contadino, dalla rivoluzione alla resistenza. La destra che non crede nell’età dell’oro platonica, nel buon selvaggio di Rousseau, nella storia del mondo come eterna decadenza di un ideale perduto, alza la bandiera del tradizionalismo (cattolico) ogni volta che la legge civile incrocia l’etica religiosa. Tutto questo, comunque, ci può stare. Non stiamo qui a discutere del sentimento e dei valori individuali. Ognuno è libero di considerare gli ogm cibo per un mondo di Frankenstein, o di dire che la selezione degli embrioni gli ricorda certi discorsi sulla purezza della razza, e una serie infinita di film o romanzi di fantascienza. In genere si può dire che la sinistra protegge la natura e la destra l’uomo. Tutti e due ritengono, chiaramente, che il male sia la modernità. Il problema è che l’anti-modernismo sta lievitando in scontro ideologico. La politica si sta arroccando intorno ai simboli e alle parole d’ordine: global e no global, pacs e no pacs, bio e biotech, flexy e no-flexy, conservatori (reazionari) post-marxisti contro conservatori (reazionari) neo cattolici. Qualcuno dirà che questa è la politica.

È scontro di idee, opinioni e visioni del mondo. È per questo che non è mai esistito un manifesto dei “terzisti”, di chi non sta né di qua e né di là. Probabile, anzi sicuro. L’unica obiezione che si può fare è che la politica è idee, opinioni e visioni del mondo, ma non deve essere per forza di cose una fede. Anche perché la politica è soprattutto potere: arte del potere, scontro tra poteri, orgasmo del potere. La politica come fede genera monaci, personaggi che indossano il saio, brandiscono simboli e animano il dibattito pubblico con le loro prediche. Il loro obiettivo non è difendere o affermare le proprie idee, non è neppure portare voti alla loro coalizione, è semplicemente il potere. L’abito del monaco in questa stagione di anti-modernismo assicura la visibilità. A destra, per esempio, si sente sempre più parlare di fusionismo, la necessità di trovare una linea d’incontro all’interno della coalizione. È una strategia politica lungimirante, che dovrebbe far tesoro dell’esperienza americana. È il sogno bipartisan. Qualcuno pensa che i monaci possano essere i protagonisti di questo processo. Sono loro i “politici forti” che danno identità alla coalizione. Ma questo è un abbaglio. I monaci, nella loro foga, non danno identità, ma costruiscono solo anti-identità. È quello che è successo alla sinistra quando, dopo dieci anni di anatemi, si è resa conto di riconoscersi in un solo sentimento: l’antiberlusconismo. La destra rischia di diventare anti-laicista.
A questo punto si può tornare ai simboli. La realtà politica, con il proporzionale, parla di una destra a tre punte. Una è legata al destino di Berlusconi, le altre due un giorno risolveranno la questione. La Lega resta sul confine. La campagna elettorale enfatizzerà le differenze dei partiti alleati. E già questo rende difficile il progetto fusionista. Ma guardiamo al futuro. Questo progetto di fusione avrà dei costi e ce n’è uno che rischia di essere troppo caro: l’esilio del pensiero liberale. Il liberalismo potrebbe essere un punto d’incontro per cattolici e gaullisti. È un’illusione, perché dopo la sbornia di parole degli anni Novanta il liberalismo ispira a ex dc e a ex msi solo profonda antipatia. Non devono più far finta di conoscere Hayek o Tocqueville. Sono tornati a casa. Ma soprattutto in questa guerra di simboli i liberali sono sconfitti in partenza. La libertà, diceva Kant, è cosa in sé. È trascendentale. La libertà non ha simboli. È questo il problema. Segue domanda: la croce può essere simbolo di libertà?

Vittorio Macioce, caposervizio de Il Giornale.

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