L'ennesima rivoluzione del Sud
di Massimo Lo Cicero
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

Nicola Rossi propone di ribaltare radicalmente le politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno, realizzate dal 1997 ad oggi, e che, per larghissima parte, coincidono con l’applicazione delle politiche di coesione europee, sperimentate nel nostro paese con il nome di Agenda 2000. Si parte da una rotazione della prospettiva di centottanta gradi: guardare il Mezzogiorno come il Nord del Mediterraneo piuttosto che come il Sud dell’Europa. Osservazione convincente, attesa la nuova centralità logistica del Mezzogiorno rispetto alle rotte dei traffici tra Far East e Stati Uniti, i nuovi poli della crescita mondiale.
Ma non si tratta solo di cambiare la prospettiva dell’analisi. La politica criticata viene considerata un esperimento originale nel panorama degli ultimi dieci anni. Essa si snoda nel segno di una sostanziale continuità amministrativa, presso il Dipartimento delle politiche di sviluppo del ministero dell’Economia, ed è definita, nel suo perimetro metodologico, dal Convegno di Catania promosso da Carlo Azeglio Ciampi, nel 1997. Questa politica ha preso forma nel contesto di un radicale ripensamento degli strumenti economici europei in materia di coesione e crescita, una volta esaurita la fase del necessario risanamento della situazione italiana, imposto dalla crisi dell’inizio degli anni Novanta. Esperimenti di negoziazione tra pubblico e privato, alla scala locale, avevano segnato le prime applicazioni del messaggio di Catania nel biennio che precede il varo di Agenda 2000: era la stagione dei patti territoriali che interpretava la precedente metodologia dei contratti di programma tra grandi imprese ed apparati pubblici: un contratto tra attori forti per la realizzazione di progetti industriali sostenuti da congrue doti di incentivi pubblici.
Con i patti territoriali la procedura assume come interlocutori gli attori dello spazio economico locale; affida loro il compito di leggere i fabbisogni necessari di capitale fisso sociale e di capitale umano, utili al decollo economico delle aree in cui essi sono localizzati; sostiene, con risorse finanziarie dell’amministrazione centrale, la realizzazione di investimenti coerenti con quei fabbisogni e supportati da un adeguato consenso locale creato attraverso pratiche di larga concertazione tra gli interessi sociali organizzati. Questo metodo restituisce interessanti ma frammentari risultati sul terreno dell’alleanza, la partnership, tra poteri privati, le imprese, ed i poteri pubblici, enti locali e regioni.

L’applicazione di Agenda 2000 ne recupera lo spirito ma lo contamina con un metodo molto più obsoleto.
Nicola Rossi sottopone i risultati di Agenda 2000 italian style – ad un anno dal suo giro di boa ed ormai oggetto, da parte della Commissione Barroso, di una valutazione nella prospettiva del suo secondo periodo di applicazione (2007-2013) – ad un giudizio abbastanza liquidatorio. In primo luogo viene considerato insufficiente l’apporto delle risorse impegnate, circa 120 miliardi di euro, rispetto ai risultati ottenuti in termini di sviluppo economico aggiuntivo. In secondo luogo viene fornita una rassegna di casi di sviluppo locale, realizzati attraverso lo strumento del progetto integrato territoriale (pit). Questo strumento si riconduce alla logica dei patti territoriali per interpretare una direttiva metodologica europea: adottare processi integrati di investimento, per conseguire una massimizzazione degli effetti indotti, cumulando schede di progetto contigue nell’ambito di applicazione e nella complementarietà reciproca delle azioni. L’applicazione italiana di questo criterio ha tradotto la metodologia in una dimensione istituzionale, collegando l’integrazione ad organizzazioni spontanee locali, come i distretti industriali; ad istituzioni, come le comunità montane o i parchi di tutela ambientale; alle articolazioni operative della stagione precedente dei patti territoriali, come le agenzie territoriali di sviluppo cui era stata data vita da parte degli enti locali.
I pit hanno assorbito larga parte degli interventi regionali, attirando in un primo momento e concentrando al loro interno, progetti disposti da assi e misure del por. Ma cedendo poi nel tempo alle amministrazioni regionali la gestione di quegli interventi che avevano tentato di aggregare. I pit, inoltre, hanno smarrito il carattere di partnership tra attori pubblici e privati e si sono trasformati in un processo negoziale tra regioni ed enti locali. Mentre, progressivamente, tra regioni ed amministrazioni centrali dello Stato si andavano realizzando, per la gestione di interventi regionali di maglia larga e la intensificazione degli interventi locali, accordi quadro di programma. In questo modo si allargava la negoziazione all’intera scala gerarchica del settore pubblico: la Commissione europea, il governo centrale, le regioni, gli enti locali. Dalle misure prodotte da Rossi risulta basso l’impatto sullo sviluppo macroeconomico di questa catena di contratti che ripropone gli schemi del vecchio intervento straordinario, affidato al ministero ed alla Cassa del Mezzogiorno.

Il primo risultato della diagnosi di Rossi è la smentita della opportunità di «abolire il Mezzogiorno» come aveva scritto negli ultimi anni Gianfranco Viesti. Pur riconoscendo la pluralità di una serie di problemi locali rimane aperto un problema meridionale nello sviluppo italiano, che ha caratteri originali ed atipici rispetto agli altri divari europei. È la medesima tesi di Giuseppe Galasso.
La critica di Rossi verso le politiche europee ed italiane merita, invece, qualche ulteriore e più articolato ragionamento. Lui stesso riconosce la dominanza del modello europeo su quello nazionale ma aggiunge che, nella nostra interpretazione domestica, e a conferma di vecchi modelli della cultura politica cattolica, essa abbia corso il rischio di essere una «luminosa anticipazione di quella che potrebbe definirsi una via legislativa allo sviluppo». Con un sostanziale ritorno al dirigismo e l’abbandono di un contesto di riferimenti fatto di liberalizzazioni, fiscalità di vantaggio e addizionalità degli interventi europei, rispetto a quelli nazionali. Per la verità il dirigismo sembra nascere proprio dal contesto europeo e dal suggerimento di procedere per macchine ripetitive come i pon ed i por. Che i pit non abbiano rappresentato una novità capace di dare elasticità ed adattabilità a quelle griglie precostituite, ed abbiano relegato il rapporto con i privati al mortificante processo dei bandi di gara e degli appalti di micro-opere, tradendo sia la speranza del partenariato che quella della formazione di capitale umano e capitale sociale, è vero. Ma che le burocrazie regionali abbiamo emarginato la centralità dei pit e degli enti locali – che rappresentano la loro base di interessi costituiti – è certamente vero.
Inoltre, il quadro europeo e internazionale si ribalta del tutto all’indomani del varo della rigida macchina di Agenda 2000. Il club monetario, riconducibile ai paesi che adottano l’euro, si allarga ad un club commerciale, al cui interno si collocano soci nazionali a geometria, fiscale e monetaria, variabile che sono competitivi verso le regioni deboli dei paesi del club monetario. Scompare dalla scena l’ambizione dell’Agenda di Lisbona e si dissolve il progetto di una Costituzione europea. Viene meno, insomma, la forza del programma rigido che descrive il futuro in termini di istituzioni e contenuti puntuali e si afferma una geometria conflittuale ed instabile, come testimonia il negoziato sul quantum delle nuove politiche di coesione e la riserva per le politiche agrarie, cui non rinuncia l’asse franco-tedesco. Per il Mezzogiorno italiano, al quale era stata indicata l’Europa come la sponda di un approdo internazionale, si tratta di affrontare l’acqua fredda dell’integrazione economica internazionale (la globalizzazione) ed il trauma di un federalismo incompleto, in cui si risolve la nostra domestica disintegrazione dello Stato nazionale. Trascinato da queste due forze antagoniste, il localismo del Mezzogiorno appare troppo debole e provinciale per affrontare i propri problemi con gli strumenti di Agenda 2000. E se questi poveri strumenti non sono capaci di restituire adeguati progetti di investimento, larga parte della spesa diventa di supporto alla manutenzione ordinaria del territorio, perdendo il suo carattere di investimento addizionale e di supporto alla crescita. Se questo volume di spesa, che non sarebbe da computare tutto come investimento, viene posto a confronto da Nicola Rossi con il volume di reddito generato negli anni ad esso contigui, è chiaro che l’indice risulta troppo alto, denunciando un eccesso di capitale per unità di reddito prodotto.
Ma larga parte di quel capitale non è tale e, se anche lo fosse, dovrebbe essere confrontato con una serie di effetti reddito assai più lunga nel tempo. Il fatto è che una parte del reddito addizionale prodotto tracima dal Mezzogiorno – che rimane una «pentola bucata», secondo la magistrale definizione di Savona – essendo dotato di una offerta troppo segmentata e poco competitiva. Gli incrementi di spesa generano effetti sulle importazioni piuttosto che sulla produzione locale, di conseguenza. Alla critica macroeconomica si dovrebbe sostituire una riflessione di ordine istituzionale. Ciampi aveva individuato il perimetro di una visione alternativa della crescita, che Barca ha tradotto in una missione, coniugando quella visione con una serie di azioni. Non si può, come ci ha ricordato de Rita nel suo ultimo rapporto censis, chiudere la visione, o soffocare la missione, nell’angustia di patti e contratti su obiettivi determinati. È un errore di strategia organizzativa. Non si deve enfatizzare la convergenza, la così detta concertazione, degli interessi costituiti rispetto alla valutazione degli effetti attesi dei progetti, alla loro flessibilità, alla capacità di convivere con l’incertezza del futuro piuttosto che alla capacità di reggere la gestione del rischio e sopportare, in termini di benefici attesi, il test dello sviluppo sostenibile.

Al futuro del meridionalismo serve, insomma, una capacità maggiore di governare scenari incerti e di misurare il valore delle scelte. Facendo i conti con la forza ed il ruolo dei mercati e degli intermediari finanziari, che sono stati i grandi assenti, ed in parte i “parassiti” delle politiche della nuova programmazione. Senza rinunciare alla visione di Ciampi ed alla missione dell’affermazione di una nuova e più attrezzata classe dirigente locale. Ma, se questo è vero, la soluzione non dovrebbe essere la discontinuità gestionale, nella prospettiva di una frattura politica che Rossi legge nel prossimo futuro. Paradossalmente, la critica di Rossi spinge a rileggere i processi ed i loro esiti per compensare i loro limiti. Sarebbe singolare ricominciare da capo in termini radicali, aggiungendo un terzo trauma, l’ennesima rivisitazione del sistema (ricordate le doglie della legge sessantaquattro negli anni Ottanta, insidiata dalla legislazione del terremoto?) in parallelo con i rigori della globalizzazione e le conseguenze economiche del federalismo. E scontando la frustrazione degli attori locali che hanno trovato un ostacolo e non una sponda nelle amministrazioni regionali.


Massimo Lo Cicero, professore di Economia della comunicazione ed Economia dell’informazione e della conoscenza all’Università di Roma Tor Vergata, è esperto di politiche del Mezzogiorno.

(c) Ideazione.com (2006)
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