Nicola
Rossi propone di ribaltare radicalmente le politiche per lo sviluppo del
Mezzogiorno, realizzate dal 1997 ad oggi, e che, per larghissima parte,
coincidono con l’applicazione delle politiche di coesione europee,
sperimentate nel nostro paese con il nome di Agenda 2000. Si parte da una
rotazione della prospettiva di centottanta gradi: guardare il Mezzogiorno
come il Nord del Mediterraneo piuttosto che come il Sud dell’Europa.
Osservazione convincente, attesa la nuova centralità logistica del
Mezzogiorno rispetto alle rotte dei traffici tra Far East e Stati Uniti,
i nuovi poli della crescita mondiale.
Ma non si tratta solo di cambiare la prospettiva dell’analisi. La
politica criticata viene considerata un esperimento originale nel panorama
degli ultimi dieci anni. Essa si snoda nel segno di una sostanziale continuità
amministrativa, presso il Dipartimento delle politiche di sviluppo del ministero
dell’Economia, ed è definita, nel suo perimetro metodologico,
dal Convegno di Catania promosso da Carlo Azeglio Ciampi, nel 1997. Questa
politica ha preso forma nel contesto di un radicale ripensamento degli strumenti
economici europei in materia di coesione e crescita, una volta esaurita
la fase del necessario risanamento della situazione italiana, imposto dalla
crisi dell’inizio degli anni Novanta. Esperimenti di negoziazione
tra pubblico e privato, alla scala locale, avevano segnato le prime applicazioni
del messaggio di Catania nel biennio che precede il varo di Agenda 2000:
era la stagione dei patti territoriali che interpretava la precedente metodologia
dei contratti di programma tra grandi imprese ed apparati pubblici: un contratto
tra attori forti per la realizzazione di progetti industriali sostenuti
da congrue doti di incentivi pubblici.
Con i patti territoriali la procedura assume come interlocutori gli attori
dello spazio economico locale; affida loro il compito di leggere i fabbisogni
necessari di capitale fisso sociale e di capitale umano, utili al decollo
economico delle aree in cui essi sono localizzati; sostiene, con risorse
finanziarie dell’amministrazione centrale, la realizzazione di investimenti
coerenti con quei fabbisogni e supportati da un adeguato consenso locale
creato attraverso pratiche di larga concertazione tra gli interessi sociali
organizzati. Questo metodo restituisce interessanti ma frammentari risultati
sul terreno dell’alleanza, la partnership, tra poteri privati, le
imprese, ed i poteri pubblici, enti locali e regioni.
L’applicazione di Agenda 2000 ne recupera lo spirito ma lo contamina
con un metodo molto più obsoleto.
Nicola Rossi sottopone i risultati di Agenda 2000 italian style –
ad un anno dal suo giro di boa ed ormai oggetto, da parte della Commissione
Barroso, di una valutazione nella prospettiva del suo secondo periodo di
applicazione (2007-2013) – ad un giudizio abbastanza liquidatorio.
In primo luogo viene considerato insufficiente l’apporto delle risorse
impegnate, circa 120 miliardi di euro, rispetto ai risultati ottenuti in
termini di sviluppo economico aggiuntivo. In secondo luogo viene fornita
una rassegna di casi di sviluppo locale, realizzati attraverso lo strumento
del progetto integrato territoriale (pit). Questo strumento si riconduce
alla logica dei patti territoriali per interpretare una direttiva metodologica
europea: adottare processi integrati di investimento, per conseguire una
massimizzazione degli effetti indotti, cumulando schede di progetto contigue
nell’ambito di applicazione e nella complementarietà reciproca
delle azioni. L’applicazione italiana di questo criterio ha tradotto
la metodologia in una dimensione istituzionale, collegando l’integrazione
ad organizzazioni spontanee locali, come i distretti industriali; ad istituzioni,
come le comunità montane o i parchi di tutela ambientale; alle articolazioni
operative della stagione precedente dei patti territoriali, come le agenzie
territoriali di sviluppo cui era stata data vita da parte degli enti locali.
I pit hanno assorbito larga parte degli interventi regionali, attirando
in un primo momento e concentrando al loro interno, progetti disposti da
assi e misure del por. Ma cedendo poi nel tempo alle amministrazioni regionali
la gestione di quegli interventi che avevano tentato di aggregare. I pit,
inoltre, hanno smarrito il carattere di partnership tra attori pubblici
e privati e si sono trasformati in un processo negoziale tra regioni ed
enti locali. Mentre, progressivamente, tra regioni ed amministrazioni centrali
dello Stato si andavano realizzando, per la gestione di interventi regionali
di maglia larga e la intensificazione degli interventi locali, accordi quadro
di programma. In questo modo si allargava la negoziazione all’intera
scala gerarchica del settore pubblico: la Commissione europea, il governo
centrale, le regioni, gli enti locali. Dalle misure prodotte da Rossi risulta
basso l’impatto sullo sviluppo macroeconomico di questa catena di
contratti che ripropone gli schemi del vecchio intervento straordinario,
affidato al ministero ed alla Cassa del Mezzogiorno.
Il primo risultato della diagnosi di Rossi è la smentita della opportunità
di «abolire il Mezzogiorno» come aveva scritto negli ultimi
anni Gianfranco Viesti. Pur riconoscendo la pluralità di una serie
di problemi locali rimane aperto un problema meridionale nello sviluppo
italiano, che ha caratteri originali ed atipici rispetto agli altri divari
europei. È la medesima tesi di Giuseppe Galasso.
La critica di Rossi verso le politiche europee ed italiane merita, invece,
qualche ulteriore e più articolato ragionamento. Lui stesso riconosce
la dominanza del modello europeo su quello nazionale ma aggiunge che, nella
nostra interpretazione domestica, e a conferma di vecchi modelli della cultura
politica cattolica, essa abbia corso il rischio di essere una «luminosa
anticipazione di quella che potrebbe definirsi una via legislativa allo
sviluppo». Con un sostanziale ritorno al dirigismo e l’abbandono
di un contesto di riferimenti fatto di liberalizzazioni, fiscalità
di vantaggio e addizionalità degli interventi europei, rispetto a
quelli nazionali. Per la verità il dirigismo sembra nascere proprio
dal contesto europeo e dal suggerimento di procedere per macchine ripetitive
come i pon ed i por. Che i pit non abbiano rappresentato una novità
capace di dare elasticità ed adattabilità a quelle griglie
precostituite, ed abbiano relegato il rapporto con i privati al mortificante
processo dei bandi di gara e degli appalti di micro-opere, tradendo sia
la speranza del partenariato che quella della formazione di capitale umano
e capitale sociale, è vero. Ma che le burocrazie regionali abbiamo
emarginato la centralità dei pit e degli enti locali – che
rappresentano la loro base di interessi costituiti – è certamente
vero.
Inoltre, il quadro europeo e internazionale si ribalta del tutto all’indomani
del varo della rigida macchina di Agenda 2000. Il club monetario, riconducibile
ai paesi che adottano l’euro, si allarga ad un club commerciale, al
cui interno si collocano soci nazionali a geometria, fiscale e monetaria,
variabile che sono competitivi verso le regioni deboli dei paesi del club
monetario. Scompare dalla scena l’ambizione dell’Agenda di Lisbona
e si dissolve il progetto di una Costituzione europea. Viene meno, insomma,
la forza del programma rigido che descrive il futuro in termini di istituzioni
e contenuti puntuali e si afferma una geometria conflittuale ed instabile,
come testimonia il negoziato sul quantum delle nuove politiche di coesione
e la riserva per le politiche agrarie, cui non rinuncia l’asse franco-tedesco.
Per il Mezzogiorno italiano, al quale era stata indicata l’Europa
come la sponda di un approdo internazionale, si tratta di affrontare l’acqua
fredda dell’integrazione economica internazionale (la globalizzazione)
ed il trauma di un federalismo incompleto, in cui si risolve la nostra domestica
disintegrazione dello Stato nazionale. Trascinato da queste due forze antagoniste,
il localismo del Mezzogiorno appare troppo debole e provinciale per affrontare
i propri problemi con gli strumenti di Agenda 2000. E se questi poveri strumenti
non sono capaci di restituire adeguati progetti di investimento, larga parte
della spesa diventa di supporto alla manutenzione ordinaria del territorio,
perdendo il suo carattere di investimento addizionale e di supporto alla
crescita. Se questo volume di spesa, che non sarebbe da computare tutto
come investimento, viene posto a confronto da Nicola Rossi con il volume
di reddito generato negli anni ad esso contigui, è chiaro che l’indice
risulta troppo alto, denunciando un eccesso di capitale per unità
di reddito prodotto.
Ma larga parte di quel capitale non è tale e, se anche lo fosse,
dovrebbe essere confrontato con una serie di effetti reddito assai più
lunga nel tempo. Il fatto è che una parte del reddito addizionale
prodotto tracima dal Mezzogiorno – che rimane una «pentola bucata»,
secondo la magistrale definizione di Savona – essendo dotato di una
offerta troppo segmentata e poco competitiva. Gli incrementi di spesa generano
effetti sulle importazioni piuttosto che sulla produzione locale, di conseguenza.
Alla critica macroeconomica si dovrebbe sostituire una riflessione di ordine
istituzionale. Ciampi aveva individuato il perimetro di una visione alternativa
della crescita, che Barca ha tradotto in una missione, coniugando quella
visione con una serie di azioni. Non si può, come ci ha ricordato
de Rita nel suo ultimo rapporto censis, chiudere la visione, o soffocare
la missione, nell’angustia di patti e contratti su obiettivi determinati.
È un errore di strategia organizzativa. Non si deve enfatizzare la
convergenza, la così detta concertazione, degli interessi costituiti
rispetto alla valutazione degli effetti attesi dei progetti, alla loro flessibilità,
alla capacità di convivere con l’incertezza del futuro piuttosto
che alla capacità di reggere la gestione del rischio e sopportare,
in termini di benefici attesi, il test dello sviluppo sostenibile.
Al futuro del meridionalismo serve, insomma, una capacità maggiore
di governare scenari incerti e di misurare il valore delle scelte. Facendo
i conti con la forza ed il ruolo dei mercati e degli intermediari finanziari,
che sono stati i grandi assenti, ed in parte i “parassiti” delle
politiche della nuova programmazione. Senza rinunciare alla visione di Ciampi
ed alla missione dell’affermazione di una nuova e più attrezzata
classe dirigente locale. Ma, se questo è vero, la soluzione non dovrebbe
essere la discontinuità gestionale, nella prospettiva di una frattura
politica che Rossi legge nel prossimo futuro. Paradossalmente, la critica
di Rossi spinge a rileggere i processi ed i loro esiti per compensare i
loro limiti. Sarebbe singolare ricominciare da capo in termini radicali,
aggiungendo un terzo trauma, l’ennesima rivisitazione del sistema
(ricordate le doglie della legge sessantaquattro negli anni Ottanta, insidiata
dalla legislazione del terremoto?) in parallelo con i rigori della globalizzazione
e le conseguenze economiche del federalismo. E scontando la frustrazione
degli attori locali che hanno trovato un ostacolo e non una sponda nelle
amministrazioni regionali.
Massimo Lo
Cicero, professore di Economia della comunicazione ed Economia dell’informazione
e della conoscenza all’Università di Roma Tor Vergata, è
esperto di politiche del Mezzogiorno.
(c)
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