La verità è nuovamente ritenuta degna di considerazione. Il
recente dibattito culturale, che pure lo ha generalmente riconosciuto, è
riuscito a scavare solchi incolmabili tra filosofi, teologi, scienziati
e politici. Posizioni opposte, ma accomunate dall’errore che ciascuna
imputa alle altre; sembrerebbe di essere alla riedizione di un vecchio scontro,
se non che stavolta l’errore è stato battezzato con il nome
di relativismo. Da un lato, ecco filosofi e teologi mettere in guardia contro
lo scientismo e l’approccio multiculturale: ugualmente rei di negare
una verità superiore, e quindi inevitabilmente prede del relativismo
etico. Dall’altro, ecco scienziati e filosofi archiviare come inopportuna
la pretesa di assolutezza della fede: la religione è relativa e lo
mostra la molteplicità delle confessioni di fronte all’unità
della scienza. In entrambi i casi, è chiara la valenza positiva acquisita
dalla verità; almeno quanto la stigmatizzazione di un atteggiamento
culturale caduto in disuso, che partendo da un generico scetticismo afferma
l’equivalenza (e la sostituibilità) di punti di vista.
Se il passaggio dal relativismo all’antirelativismo, per gli spettatori,
si è concentrato in momenti topici (eventi editoriali, interventi
accademici, pronunciamenti religiosi e politici), non basta per attribuire
l’evoluzione di idee a singole volontà (intellettuali, politiche
o ecclesiastiche), in cospirazione più o meno sordida. La cronologia
del dibattito potrebbe mostrare il ruscello delle opinioni che progressivamente
s’ingrossa: se sono visibili solo i flutti più impetuosi (la
pubblicazione in Italia a inizio 2005 del libro Genealogia della verità,
di Bernard Williams, o il discorso contro il relativismo di Ratzinger, il
giorno prima di essere eletto Papa), le acque giungono da lontano (il libro
di Williams era apparso in lingua originale nel 2002; le posizioni di Ratzinger
erano state espresse in altre, meno celebri occasioni precedenti). Sarebbe
ingenuo, in altri termini, attribuire a un’iniziativa del papato di
Roma, o dei neocon, o dei filosofi continentali europei il mutamento di
indirizzo di un sentire complessivo. Del resto, quando si tratta di compendiare
e diffondere un messaggio inconsueto, è inevitabile esperire un certo
grado di approssimazione, associata alla necessità di penetrare nel
mainstream. Così, la distinzione – netta, ma sommaria –
tra relativismo e verità assoluta, contesi ora dall’uno ora
dall’altro, può essere spiegata con l’urgenza di costruire
discorsi di immediata utilità nella quotidiana retorica politica.
Se però si tratta di abbandonare il livello più superficiale,
è necessario sgombrare il campo dalle semplificazioni di entrambi
i tipi.
Argomentazioni
simili si basano su una visione statica della verità, sia strutturalmente
che storicamente. Sul piano strutturale, l’approccio statico trascura
le possibili articolazioni del vero: dal grado soggettivo, a quello oggettivo
e infine all’assoluto, per dirla con il vocabolario della filosofia
moderna. Si finisce così per livellare, nella dialettica culturale,
sfaccettature che permetterebbero a posizioni lontane di rivelarsi conciliabili.
Sul piano storico, la verità è vista come un dato, piuttosto
che come un risultato – il risultato di un percorso di conoscenza.
La magra alternativa, in quest’ottica, resta quella tra un vero attinto
immediatamente per illuminazione, e una congerie di difficoltose supposizioni,
che dal vero si ritraggono timidamente senza mai sfiorarlo. Al contrario,
in una prospettiva dinamica appare come la ricerca del vero si svolga in
un processo mediato, che individua una serie di tappe, faticose da percorrere,
ma precise e affidabili. È questo il percorso del metodo: un progresso
lento, ma inesorabile, scandito dalla ragione e dallo spirito critico, verso
un obiettivo che è possibile e auspicabile raggiungere. Alla fatica
del percorso si accompagna la fiducia del ricercatore nelle sue facoltà
– limitate, ma certe – di giungere alla meta, con l’ausilio
degli strumenti cognitivi.
Una considerazione irriflessa della verità porrebbe qui difficoltà
ancora maggiori, arrivando paradossalmente a giustificare tanto la posizione
relativista che quella antirelativista. Quest’ultima, ammonendo l’intelletto
umano di aprirsi a una verità più alta, intende scongiurare
il rischio che la ricerca si erga ad arbitra di se stessa, indulgendo a
uno sperimentalismo capriccioso. D’altro canto, l’insistenza
sulla limitatezza delle umane risorse apre la strada al dubbio radicale
sull’opportunità di confidare in queste risorse. Le implicazioni
di questo atteggiamento sono gnoseologiche e didattiche. Se non vale la
pena di impiegare i fallibili strumenti a disposizione della ragione umana
per attingere un’oggettività, tanto vale dedicarsi a saperi
alternativi, che nel migliore dei casi si traducono in propaggini di pensiero
debole, e nel peggiore in puri vagheggiamenti lontani da ogni contributo
di ricerca, fedeli al solo assunto originario del relativismo: non esiste
alcuna verità accessibile, quindi tutte le verità –
potenzialmente infinite – si equivalgono. Questa conseguenza minaccia
già le università italiane, in particolare nelle facoltà
umanistiche e nei dipartimenti di più recente generazione, pervase
oggi da progetti di ricerca di dubbia consistenza. I riflessi sul patrimonio
della ricerca del nostro paese sono evidenti: oltre che delle “fughe
di cervelli”, ci sarebbe da preoccuparsi anche della qualità
delle produzioni scientifiche dei ricercatori rimasti. Se non c’è
metodo osservabile e riproducibile, d’altro canto, non c’è
metodo insegnabile. Il problema didattico, lungi dal riguardare la sola
accademia, si riferisce a tutti i gradi dell’istruzione, nei quali
è fondamentale educare i discenti alla pratica di un metodo che li
guiderà nei successivi stadi dell’apprendimento. Questo metodo
è lo stesso che anima la ricerca, in tutte le discipline gradualmente
sottoposte all’allievo. Negarne l’importanza significa rendere
difficili, se non impossibili, i progressi futuri, a cui il metodo apre
la strada.
Il
rischio di gettare via il bambino con l’acqua sporca, insomma, è
forte. Per sottrarsi alle opposte tentazioni di svilire il percorso della
ricerca o di ipostatizzarlo, è quanto mai necessario ricordare che
la verità non è un impenetrabile monolita. Il legittimo obiettivo
del ricercatore è raggiungere la verità oggettiva: il fatto
che gli strumenti della ricerca siano legati alla ragione non li rende necessariamente
arbitrari o capricciosi, se non a condizione di perdere di vista questo
obiettivo, applicandoli indebitamente. Allo stesso modo, sostenere la bontà
del metodo non vuol dire ignorarne la fallibilità, o la limitatezza
rispetto a traguardi inaccessibili al discernimento umano. In entrambi i
casi, non si tratta di essere razionalisti, scientisti o fideisti, ma solo
di aderire a un atteggiamento usare il buon senso che impedisce di commisurare
finito e infinito, di decretare l’onnipotenza del pensiero, di mescolare
il mondo con ciò che lo trascende. Un atteggiamento che è
frutto comune di secoli di filosofia occidentale, sia laica che religiosa:
a ricordarlo non è un teologo, ma un matematico come Giorgio Israel.
Così, persino lo scientismo più accanito non nega la possibilità
di discipline alternative alle scienze esatte, ma sostiene che rispondano
a esigenze diverse dalla ricerca della verità oggettiva, riferita
alla realtà osservabile. Del resto, è interessante che, proprio
in nome del metodo, uno scientista “confesso” come Piergiorgio
Odifreddi metta in dubbio la scientificità della biologia e della
medicina, che pure nel recente confronto tra le ragioni della scienza e
quelle della vita hanno fatto del progresso scientifico la propria bandiera.
C’è
scienza dove c’è metodo: in questo punto convergono posizioni
che, per altri versi, appaiono opposte. La disputa si sposta qui dalla verità
al percorso per raggiungerla: se il cammino è garanzia della possibilità
di accedere al vero, diventa cruciale stabilire quale sia quello giusto.
Problema affatto nuovo, se si pensa alla lunga querelle sull’argomento.
Il pensiero corre al Discorso sul metodo di Cartesio, che stabilisce una
frattura chiara tra il campo scientifico, regno del sapere razionale, e
quello esistenziale, dalla quale il primo viene “depurato”.
Stefano Di Bella ricorda che, dalla dottrina cartesiana in poi, si sono
susseguiti vari tentativi di rendere questa frattura meno scabrosa, rivalutando
gli aspetti soggettivi, emotivi e storici nell’approccio dell’uomo
al mondo, e quindi nel percorso metodologico. Un approdo possibile è,
ancora una volta, la dissoluzione della ricerca nel relativismo, di fronte
alla quale si staglia l’irrigidimento di certa scienza. Approdo possibile:
ma non necessario, né l’unico. La metodologia delle scienze
sociali, che allarga senz’altro il campo scientifico fino alla sociologia,
alla storia e alla linguistica, mostra che è possibile recuperare
alla scienza ambiti del sapere umano non riducibili all’esattezza
matematica, senza per questo cedere alle “ragioni del cuore”.
Il presupposto dell’estensione è la condivisione di un procedimento
razionale, riconoscibile e tramandabile, per ricercare la verità.
Nelle pagine di Dario Antiseri la temibile scienza, esorcizzata da relativisti
e antirelativisti, assume un volto più vicino al vissuto umano, senza
perdere il rigore che garantisce l’attendibilità delle matematiche.
Non occorre qui entrare nel merito dei risvolti più “tecnici”
della questione. Basterà rilevare la tensione all’obiettivo
veritativo, che accomuna le varie interpretazioni, e il generale accordo
sui requisiti che contraddistinguono il percorso della ricerca. Il metodo
appare in definitiva come una declinazione del rapporto tra uomo e verità,
ossia tra la conoscenza finita dell’uomo e la verità che le
è accessibile. Il procedimento per raggiungerla implica rigore e
fatica; restituisce risultati affidabili, e insieme mai definitivi. Il percorso
della ricerca è mediato: pone tappe precise, e per questo può
essere osservato, riprodotto e insegnato. È questa una delle principali
acquisizioni della cultura occidentale; misconoscerla significherebbe rinunciare
a una parte importante del futuro, tanto della conoscenza, quanto della
formazione.
Paola Liberace, giornalista, si è laureata in Filosofia del linguaggio
presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
(c)
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