Dilaga
un dibattito che poggia su un’antinomia senza il minimo fondamento.
Ai critici del relativismo si obietta che il relativismo è una visione
inconfutabile in quanto poggia su una constatazione ovvia: su ogni questione
esistono almeno due opinioni diverse. Come se la negazione del relativismo
fosse la tesi che su ogni questione o fatto è possibile formulare
una ed una sola asserzione, la quale ne esprime la verità, l’unica
verità. Insomma, poiché non c’è cosa su cui non
sia possibile emettere opinioni diverse, il relativismo è indiscutibile
verità: un bell’ossimoro davvero…
Ci sarebbe da ridere se una semplificazione del genere non fosse il segno
della miseria culturale dei tempi, in cui non si esita a squagliare secoli
di riflessioni in chiacchiere da bar Sport. Persino nell’ambito religioso,
persino nelle religioni basate sulla rivelazione, e per quanto dogmatiche
esse siano, serpeggia l’idea che la parola divina (rivelata) non si
identifichi con la sua esteriorità testuale, ma vada intesa, capita,
interpretata, approfondita, in un percorso infinito che è parte costitutiva
dell’esperienza religiosa. Nell’ebraismo, che pure è
religione rivelata, l’esegesi del testo sacro – che essa sia
rivolta a scopi legalistici, ovvero per estrarre dal testo le norme di comportamento
quotidiano, o che sia dettata dal fine mistico di avvicinamento alla presenza
divina – è un percorso interminato e interminabile verso la
verità. E perché mai? Per un antico, antichissimo problema
che era chiaro ai metafisici e ai filosofi di un tempo e ora si è
disperso nelle nebbie del pensiero sofistico contemporaneo. Si tratta del
problema del rapporto tra finito e infinito, del rapporto tra mente umana
finita e trascendenza. L’uomo è capace di pensare l’infinito,
ma può aderirvi immediatamente? In altri termini, come può
l’uomo attingere direttamente all’assoluto, alla verità
assoluta, all’infinito, ricomprenderlo totalmente ed esaustivamente
nella propria mente limitata, finita, fallibile e imperfetta? L’unica
risposta affermativa a tale domanda è data, nel contesto religioso,
dall’idea di rivelazione, dall’adesione all’assoluto attraverso
un evento di illuminazione, per lo più nel contesto di un’esperienza
mistica. Ma, come si è detto, persino nel contesto religioso l’adesione
alla trascendenza, alla verità assoluta, è vista come un processo,
difficile e complesso, in cui interviene una molteplicità di fattori
razionali e intuitivi, in cui intervengono la preghiera, la riflessione,
le pratiche di vita, eccetera. Del resto, come potrebbe essere altrimenti,
se è proprio il pensiero religioso ad avere introdotto l’idea
della trascendenza divina, cioè di una barriera che separa Dio dall’uomo,
l’infinito dal finito, il perfetto dall’imperfetto, la verità
dalla conoscenza parziale; e ad aver quindi avanzato l’idea di un
avvicinamento progressivo al vero?
È
una visione che dalla teologia è trapassata nel pensiero razionale
ed ha avuto un ruolo fondante ella conoscenza scientifica moderna; e che
si è manifestata nell’idea che il mondo è stato strutturato
da Dio sul fondamento di leggi assolute e immutabili (le leggi naturali)
alla cui acquisizione mira la conoscenza umana, attraverso un processo di
avvicinamento incessante e interminabile. Tale idea è il fulcro del
pensiero di uno dei fondatori della gnoseologia scientifica moderna, Nicola
Cusano. Egli paragona il rapporto che intercorre tra la verità assoluta
e il pensiero umano a quello tra un cerchio e un poligono inscritto che
gli si approssima indefinitamente: sempre più vicino al cerchio e
tuttavia mai confuso con esso. Come ebbe a osservare Ernst Cassirer, lo
iato ineliminabile e insuperabile fra pensiero umano e verità assoluta
– fra poligono e cerchio – è essenziale: perché
soltanto l’esistenza di una verità assoluta, mai completamente
raggiungibile, conferisce senso e direzione al processo illimitato della
conoscenza. Viceversa, se l’assoluto, la verità assoluta, fosse
integralmente e immediatamente acquisibile dalla mente umana, essa parteciperebbe
della finitezza e imperfezione di quest’ultima, e non vi sarebbe più
verità oggettiva. Così, la conoscenza è un processo
illimitato di acquisizione di verità parziali e provvisorie, imperfette
e sostituibili, ma nel quadro di una tendenza al perfezionamento. Quel che
conta, per l’appunto, è che il processo sia progressivo, sia
un progresso della conoscenza, anche se questo non significa affatto che
esso abbia carattere lineare, e non esclude il succedersi di avanzamenti
e di arretramenti.
L’affermazione della perseguibilità di una conoscenza oggettiva
(basata sull’esistenza di una verità) non è quindi affatto
in contraddizione con la molteplicità delle opinioni, dei punti di
vista e delle teorie. Al contrario. Quel che conta è che esista un
processo di acquisizione della conoscenza sia pure altalenante ma complessivamente
teso verso il progresso, verso un avanzamento. Ci vorrebbe troppo spazio
per documentare come la scienza classica sia tutta fondata su questa visione
gnoseologica di cui – ad esempio – troviamo un’espressione
esemplare nel celebre “manifesto” del determinismo di Pierre
Simon Laplace. Tale visione è stata illustrata con chiarezza da un
grande matematico-filosofo italiano, Federigo Enriques.
Cosa
ha a che fare il confrontarsi di opinioni e teorie diverse con il relativismo?
Nulla, ovviamente. Il relativismo – se le parole hanno un senso –
predica l’assoluta equivalenza e pari dignità di tutte le opinioni,
l’indecidibilità fra tutti gli asserti possibili circa un insieme
di fatti. Se si vuole trovare un esempio recente di una visione relativista
della scienza, esso è dato dalle dottrine della microsociologia postmoderna
che sostengono come dietro le teorie scientifiche non sia presente alcun
contenuto conoscitivo bensì si nascondano soltanto motivazioni strutturali:
economiche, politiche, sociali. Si tratta, con tutta evidenza, della riproposizione
di una visione marxista, in forma “debole”: è il marxismo
della postmodernità. Secondo queste dottrine (si pensi alle idee
di David Bloor), il confronto tra differenti teorie non si risolve sul piano
conoscitivo, bensì soltanto sul piano del conflitto di potere e della
prevalenza del gruppo dominante. Fin qui si tratta di elucubrazioni di scarso
valore e di forte suggestione politica, e che hanno poco a che fare con
la realtà dell’impresa scientifica. Elucubrazioni tanto artificiose
e mediocri che da esse prese le distanze una decina di anni fa anche il
fondatore della sociologia della scienza moderna, Thomas Kuhn, affermando:
«Non sono relativista, perché non credo che tutte le conclusioni
siano equivalenti. Penso che sia sempre possibile pervenire, su basi obiettive,
a una conclusione preferibile ad altre». E Kuhn aggiungeva con humour
e amarezza: «È più che mai necessario interrogarsi sulla
natura della conoscenza e della razionalità o riflettere sulla nozione
di significato. […] Sfortunatamente, la filosofia e le scienze umane
in generale non sono più percepite oggi come qualcosa che può
giocare un ruolo centrale nell’educazione dell’uomo. Si tratta
di una conseguenza della democratizzazione dell’insegnamento, cioè
di una tendenza che allo stesso tempo approvo e deploro».
È altresì innegabile che il germe del relativismo sia recentemente
entrato direttamente nel contesto scientifico attraverso una visione di
tipo modellistico delle teorie, che le valuta esclusivamente sul piano dell’efficacia
e non su quello dell’aderenza ai fatti. Ma è altrettanto evidente
che l’ingresso di queste visioni, lungi dall’essere un fenomeno
neutrale, ha aperto una crepa di proporzioni drammatiche all’interno
delle scienza stessa, perché ne ha messo in discussione in modo surrettizio
un caposaldo: difatti, nessuna impresa conoscitiva ha posto al centro delle
sue ambizioni l’acquisizione della verità quanto la scienza,
e la scienza ha menato sempre vanto di esser capace di acquisizioni il cui
fondamento ha una solidità che nessun’altra forma di conoscenza
è capace di garantire. Altro che relativismo.
Non è un caso che proprio attorno all’impresa scientifica si
sia venuta costituendo una filosofia che ha portato all’estremo limite
la propensione alla ricerca della verità che è caratteristica
della scienza, predicando il carattere di verità assolute e indiscutibili
delle teorie scientifiche; e che ha affermato la superiorità delle
scienze “esatte” sulle altre forme di conoscenza, cui resterebbe
soltanto l’alternativa di assoggettarsi al metodo delle prime o accettare
di sopravvivere nel proprio ghetto di inferiorità. Questa filosofia
è il positivismo. Il quale, dimenticando il senso profondo del discorso
di Cusano, ha aperto proprio la strada alla confusione tra verità
e opinioni mutevoli, e quindi al relativismo. Ciò può apparire
strano, ma si tratta di un paradosso soltanto a prima vista: l’assolutismo
più radicale è soltanto l’altra faccia del relativismo.
Lo ha spiegato chiaramente tanto tempo fa Aristotele nella sua confutazione
dei relativisti del tempo:«Essi, osservando che tutta quanta la natura
è in movimento e che non è possibile dire alcuna verità
su ciò che cambia, sostennero che non si può dire la verità
su tutto quello che per ogni dove e per ogni guisa attua il cambiamento.
Da questa considerazione germogliò l’opinione che tra quelle
da noi esaminate è la più estremistica, quella, cioè,
di quanti si professano seguaci di Eraclito, opinione che è stata
sostenuta da quel Cratilo, il quale finì col credere che non si dovesse
proferire neppure una parola, e soleva fare soltanto movimenti col dito
e rimproverava ad Eraclito di aver detto che non si può scendere
due volte nello stesso fiume, giacché la sua opinione personale era
che non vi si potesse scendere neppure una volta! […] Comunque, tanto
tra quelli che sostengono con convinzione le teorie da noi criticate, quanto
tra quelli che le professano solo per trovare, mediante queste, argomenti
di disputa, vi sono alcuni che sollevano le seguenti difficoltà,
domandandosi, ad esempio, quale persona possa giudicare sulla buona salute
di un uomo e, in generale, chi possa dare un corretto giudizio su ciascuna
cosa. Ma porre questioni di tal genere equivale a chiedersi se in questo
istante noi stiamo dormendo o siamo desti, e le aporie siffatte hanno tutte
quante il medesimo punto di partenza, giacché quelli che le pongono
ritengono che si possa dare una spiegazione razionale di tutte le cose».
Di
simili medaglie a doppia faccia abbondano gli esempi. Scientismo e relativismo
sono stretti sodali. Del resto, è ben noto come il relativismo etico
e morale sia un figlio diretto del positivismo e del neo-positivismo. E,
nel concreto della nostra realtà attuale, non vediamo pullulare attorno
a noi persone che difendono “religiosamente” il valore assoluto
della scienza – un altare di fronte al quale invitano il comune mortale
ad inchinarsi – e, al contempo, il più radicale relativismo
etico? E che, mentre esibiscono il più accanito bigottismo scientista,
accusano accesamente di fanatismo i critici del relativismo? È da
notare come il relativismo etico si accompagni sistematicamente al relativismo
multietnico e multiculturalista, che concepisce la società come un
mosaico di identità indipendenti, di entità comunitarie, monadi
senza porte e senza finestre, che non si parlano, in omaggio al rispetto
assoluto che sarebbe dovuto alla loro diversità. Un portatore soggettivo
di tale visione è, ad esempio, il cosiddetto cattocomunismo, in cui
una professione di fede bigotta si coniuga senza problemi con un fanatico
pregiudizio positivo per il diverso, così positivo da trasformare
quella fede bigotta in odio di sé – in concreto, odio dell’Occidente.
Quel che i relativisti (etici, multietnici, multiculturalisti) non vedono
è che il rispetto del diverso nasce dal confronto, mentre il rifiuto
del confronto genera soltanto negazione e, in definitiva, il disprezzo e
persino l’odio. Il confronto non può che avvenire tra posizioni
che reputano di essere nel giusto e di essere più vicine al vero
delle altre, e che affermano le loro convinzioni senza iattanza e prepotenza,
e tuttavia mirando ad affermarle, perché credono all’idea del
perfezionamento. Senza di che continueremo a procedere sulla via già
vista chiaramente da Claude Lévi-Strauss cinquant’anni fa quando
paventava l’accumularsi «di tensioni tali far sembrare poca
cosa gli odî razziali rispetto al regime di intolleranza esacerbata
che rischia di instaurarsi domani». Questo domani è già
l’oggi nelle società che hanno fatto ricorso a sgangherati
modelli di relativismo multiculturale e multietnico. Concludiamo osservando
che l’idea di perfezionamento – di un processo concreto, realistico,
umano – è il contrario esatto del cinismo morale assoluto (“lasciamo
stare le cose come sono tanto non può cambiare mai nulla perché
nulla ha senso”) o dell’idea rivoluzionaria della palingenesi
globale del mondo corrotto: entrambi figli dello scientismo e del relativismo,
e genitori dell’intolleranza.
Giorgio Israel, professore di Storia delle matematiche alla Sapienza di
Roma.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuileton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006