Il mondo anticristiano
di Alessandro Gisotti
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

C’erano una volta i martiri cristiani, donne e uomini uccisi in odio della fede. C’erano una volta e ci sono ancora. È il 29 ottobre del 2005: tre ragazze cristiane si stanno recando a scuola nella città indonesiana di Poso, 1500 chilometri a nordest di Giakarta. All’improvviso vengono assalite da due uomini a bordo di una moto, armati di machete. Le tre adolescenti vengono decapitate. I corpi lasciati per strada. Le teste fatte ritrovare una vicino ad una chiesa, le altre due nei pressi di un commissariato. Quale delitto avevano mai compiuto queste giovani donne per meritare una morte così crudele? Quale la loro colpa per essere massacrate così barbaramente? Credevano in Gesù Cristo. Nell’uomo che duemila anni fa ha spezzato in due la storia annunciando all’umanità che bisogna amare il prossimo come se stessi per amare davvero Dio. La notizia dello scempio trova spazio in qualche lancio di agenzia. Nulla di più. Bisogna aspettare domenica 30 ottobre quando Benedetto XVI esprime pubblicamente il suo dolore per queste vite recise nel fiore degli anni. Solo allora stampa e tv danno spazio al martirio delle giovani cristiane dell’Indonesia.

E l’Europa resta a guardare

Nell’Europa annoiata che ha rifiutato di riconoscere le proprie radici nella Carta Costituzionale, dove perfino i cristiani sono sovente a disagio nel parlare di Gesù, storie come quella arrivata dall’arcipelago indonesiano non trovano ascolto. Quanti per esempio conoscono la vicenda di Javed Anjum? Studente pakistano di 19 anni, originario di Quetta, Javed è morto il 2 maggio del 2004 con 26 ferite sul corpo, inflittegli da un insegnante e alcuni alunni di una scuola islamica che volevano farlo convertire all’Islam. Nel martirologio, l’elenco dei martiri stilato ogni anno dall’Agenzia Fides della Chiesa cattolica, leggiamo che Javed, il 17 aprile, era stato rapito da un insegnante e alcuni studenti della Jamia Hassan bin Almurtaza, scuola religiosa islamica vicino ad Islamabad. Per 5 giorni, il giovane cristiano è stato torturato finché le sue condizioni sono diventate talmente gravi da indurre i suoi stessi aguzzini a portarlo in una stazione di polizia. Troppo tardi. Quando Javed è stato trasportato all’ospedale di Faisalabad non c’era più niente da fare. Certo, non sempre i discepoli di Cristo pagano con la vita la propria fede, in terre difficili. C’è chi se la cava con dieci mesi di prigione e 300 frustate. È il caso del cristiano Brian Savio O’ Connor che, nell’ottobre del 2004, è stato condannato da un tribunale di Deerah, vicino Riad, per il crimine di evangelizzazione. Il giudice lo ha accusato di vendita di liquori e possesso di materiale pornografico. O’ Connor, indiano di nascita, ha sempre respinto ogni addebito. Ha però ammesso di aver organizzato incontri di studio e di preghiera sulla Bibbia. Atto gravissimo in un paese dove un crocifisso al collo può farti finire in carcere. Dopo essere stato rapito dalla Muttawa, la polizia religiosa saudita, O’Connor è stato torturato per ventiquattro ore in una moschea. Poi, il giudizio farsa denunciato dall’organizzazione Middle East Concern.
In Italia, la drammatica esperienza del cristiano O’Connor viene resa nota dall’agenzia AsiaNews, fondata due anni fa da padre Bernardo Cervellera. Ogni giorno, avvalendosi dei missionari del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) sparsi per il mondo, AsiaNews getta luce laddove molti, moltissimi in Occidente non vogliono guardare. Quello di padre Cervellera è un lavoro coraggioso. E di grande spessore. L’autorevolezza delle fonti utilizzate è tale che anche bbc e Times, di buon grado, attingono informazioni dal sito web dell’agenzia missionaria.
È proprio consultando AsiaNews che ci si rende conto come la vicenda di O’Connor e perfino delle tre giovani martiri indonesiane, in molte aree del mondo, non siano un’eccezione. Sono quasi la regola. Soprattutto in Asia, «il nostro comune compito per il Terzo Millennio», come l’ha definita Giovanni Paolo II nel suo libro Alzatevi, Andiamo! In India, la terra di Gandhi, può capitare che un convento di suore francescane, quello di Bhiwadi nel Rajasthan, venga assaltato e le religiose sequestrate per una notte da uomini armati. Nell’isola di Giava, invece, che un gruppo di cristiani, mentre prega in strada, sia attaccato da estremisti musulmani. Il continente asiatico non è il solo dove i fedeli in Cristo sfidano spesso il terrore per testimoniare la propria fede. Nell’ottobre del 2005, ad Alessandria d’Egitto, cinquemila musulmani cercano di assalire una chiesa cristiana copta per protestare contro una rappresentazione teatrale giudicata offensiva dell’Islam. Sono storie all’ordine del giorno, che raramente rimbalzano sui mass media di casa nostra. Se poi qualcuno, come Antonio Socci, non si rassegna a far passare sotto silenzio le sofferenze dei cristiani in molti Stati a maggioranza musulmana ecco che subito arriva l’accusa di fomentare lo scontro di civiltà. La verità è amara. Fa male anche a quei credenti che vogliono rinchiudere la fede nella sfera privata. E non sanno, o forse lo sanno e fanno finta di niente, che per tanti cristiani anche pregare nel silenzio della propria casa può costare la vita.

In Asia, i martiri del Terzo Millennio

Ogni anno l’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che soffre” pubblica un voluminoso rapporto sulla libertà religiosa. Un documento che offre un resoconto sulle condizioni di vita dei cristiani in tutti i paesi del mondo. Cosa vuol dire dunque essere cristiano oggi, lontano dall’Europa? Questo viaggio nel dolore dei discepoli di Cristo non può che iniziare dalla Cina, la superpotenza del Terzo Millennio. Tutti ne lodano le magnifiche sorti e progressive che l’hanno portata a macinare ogni record di crescita economica. Ma non tutto ciò che luccica è oro. Pechino ammette che si possa praticare la fede solo all’interno di strutture registrate, sotto la supervisione di associazioni patriottiche. La libertà religiosa non è considerata un diritto della persona, ma una concessione dello Stato che ne stabilisce limiti e modalità. Nel marzo del 2005 sono entrate in vigore regole che stringono i controlli sui luoghi di culto. D’altro canto, già un anno prima, il dipartimento di propaganda del partito comunista cinese aveva diramato delle direttive per sradicare le conversioni, mentre è stato impresso un rinnovato sostegno alla diffusione dell’ateismo. Non mancano i pestaggi e le incarcerazioni di fedeli e sacerdoti. Molti di loro finiscono nei campi di prigionia, i famigerati laogai. Tra le meraviglie di questi lager: esecuzioni di massa con vendita di organi, aborti e sterilizzazioni forzate. Al Sinodo dei vescovi, convocato dal Papa in Vaticano l’ottobre scorso, c’erano quattro sedie vuote. Quelle dei presuli cinesi. Tuttavia, sotto la pressione internazionale e grazie all’impegno instancabile della Santa Sede, si intravede qualche barlume di luce. Buio pesto, invece, nella confinante Corea del Nord, pietrificata sotto la dittatura di Kim Jong Il. Anche qui, sottolinea il rapporto di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, i fedeli sono costretti a registrarsi in organizzazioni di partito. Ricorrenti sono le persecuzioni violente contro chi non osserva questo obbligo e ancor più se pratica attività missionaria. Dal 1953, anno infausto nel quale a Pyongyang è salito al potere il regime comunista, sono scomparsi nel nulla trecentomila cristiani. Non ci sono più suore né sacerdoti. I cristiani nord coreani vengono ricordati dai “fratelli” della Corea del Sud nelle celebrazioni delle messe.
Terribile la condizione in cui vivono i cristiani, e anche i musulmani, nel Myanmar (l’ex Birmania) retto da una giunta militare comunista filobuddista. Le scuole cattoliche sono state confiscate. Ai cristiani è negato l’accesso ad incarichi nell’amministrazione pubblica. Nella regione dei Chin, le croci che sovrastavano alcune montagne sono state abbattute e al loro posto edificate delle pagode. Bandite le Bibbie e gli incontri di preghiera. Bambini cristiani vengono sottratti ai propri genitori e portati in monasteri buddisti. Anche in Vietnam, il controllo governativo sulla vita dei cristiani è strettissimo. Un incoraggiante segnale di miglioramento è però arrivato nel novembre del 2005: il governo di Hanoi ha dato l’assenso all’erezione di una nuova diocesi della Chiesa cattolica e il cardinale Crescenzio Sepe, in visita nel paese asiatico, ha potuto ordinare 57 sacerdoti. Tuttavia, il governo continua a perseguitare con incursioni militari e vessazioni di ogni tipo le popolazioni cristiane Montagnard, concentrate nelle aree montuose del paese. Da anni, Hanoi attua una strategia di isolamento contro i popoli dei monti, ricorrendo al disboscamento degli altopiani dove vivono. Se poi scappano nella vicina Cambogia, l’esercito di Phnom Penh dà loro la caccia e li riconsegna alle autorità vietnamite. «La sorte di questa minoranza doppiamente discriminata politicamente e religiosamente – ha scritto Gerolamo Fazzini su Avvenire – non scalda il cuore delle masse terzomondiste, pronte a mobilitarsi giustamente per gli indios sudamericani o gli aborigeni australiani. Risultato: un popolo che negli anni Settanta superava i due milioni di persone, oggi ne comprende poche centinaia di migliaia». Nel Laos, il partito comunista Pathet Lao, al potere da 30 anni, ha espulso tutti i missionari stranieri e considera il cristianesimo una “religione imperialista”. Anche in questo caso, la libertà di culto è rispettata solo sulla carta. Ogni manifestazione che provochi divisione tra i cittadini è severamente vietata. Norma, questa, che il governo laotiano utilizza per rendere difficile la vita ai cristiani.
In Pakistan, minacce e aggressioni contro le comunità cristiane si verificano quotidianamente e ciò nonostante le promesse del presidente Pervez Musharraf di garantire la libertà religiosa. Alle violenze per lo più impunite, rileva il rapporto di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, si aggiungono i soprusi perpetrati in nome della legge sulla blasfemia. In base a questa norma, interpretata in modo vessatorio contro i cristiani, chi viene accusato di offendere il Corano rischia l’ergastolo. Per chi offende Maometto, invece, c’è la pena di morte. L’insegnamento cristiano è marginalizzato, mentre si registra una progressiva islamizzazione delle scuole. Numerose violazioni si riscontrano anche nel Bangladesh: le discriminazioni anticristiane sono compiute soprattutto da militanti islamici. I lavoratori cristiani sono continuamente minacciati da questi estremisti, che negano loro l’accesso ai pozzi d’acqua e sovente ne distruggono le proprietà. Grave la situazione nello Sri Lanka, dove l’estremismo buddista ha preso di mira le minoranze cristiane con la distruzione di decine di chiese. Da alcuni anni è all’opera un’aggressiva campagna anticonversione che attacca soprattutto i cristiani evangelici. Nel 2003, il governo cingalese ha ordinato la chiusura delle scuole cattoliche di formazione superiore. Nonostante le violenze, la Chiesa locale ha profuso un impegno senza sosta per portare soccorso alle popolazioni colpite dallo tsunami.
In India, la “più grande democrazia del mondo”, permane la vergogna delle leggi anticonversione. Gli ultimi Stati indiani in cui sono state varate legislazioni che pongono restrizioni alla conversione sono il Tamil Nadu e il Gujarat, dove per questo “crimine” si rischia fino a tre anni di carcere e cinquantamila rupie di multa. In questo modo, anche il lavoro delle organizzazioni umanitarie cristiane in favore dei più deboli è passibile di denuncia di proselitismo. A tale discriminazione di Stato si aggiungono poi gli attacchi dei fondamentalisti indù alle chiese e ai fedeli. Contrastanti i segnali che arrivano dall’Indonesia, il paese musulmano più popoloso al mondo. Da una parte, negli ultimi tempi, si sono registrati dei progressi nel processo di democratizzazione e ci si confronta sulla modernizzazione della shari’a; dall’altra, come l’orribile decapitazione delle tre ragazze di Poso dimostra, il fondamentalismo islamico punta all’eliminazione della presenza cristiana nell’arcipelago indonesiano. Sono frequenti gli attacchi e le violenze contro persone e chiese. Spesso gli estremisti, appoggiati dalla popolazione, riescono ad interrompere le funzioni religiose dei cristiani, costretti così a riunirsi nelle abitazioni private, sebbene sia vietato dalla legge.
Vero inferno in terra per i cristiani è l’Arabia Saudita. Europei e americani continuano a fare affari con Riad. Intanto, negli ultimi mesi, secondo l’International Christian Concern, il governo saudita ha impresso un ulteriore giro di vite sulle minoranze religiose. Basta l’accusa fumosa di proselitismo per finire in carcere ed essere torturati. È ciò che è successo nel maggio 2005 a 8 cristiani. Uno di loro John Thomas, che nella propria casa ospitava letture della Bibbia, è stato massacrato di botte davanti al figlio di 5 anni, quindi condotto in prigione. Ogni manifestazione cristiana pubblica è severamente vietata: niente Bibbie, niente crocifissi. Per strada meglio non scambiarsi gli auguri di Natale, perché la polizia religiosa, la famigerata Muttawa, è sempre dietro l’angolo pronta ad arrestare e torturare. Nel novembre 2005, un tribunale ha condannato un insegnante a 40 mesi di detenzione e a 750 frustate per aver “deriso l’islam”. Il maestro, denunciato da colleghi e studenti un anno e mezzo fa, informa AsiaNews, aveva osato discutere in classe della Bibbia e perfino parlare bene degli ebrei.
In Iraq, le chiese sono bersaglio del terrorismo di matrice islamica. Attentati hanno devastato edifici sacri a Mossul e Baghdad. Migliaia di cristiani hanno già abbandonato il paese. Una vera diaspora. E ciò nonostante la loro presenza in Iraq sia di molto precedente alla diffusione dell’Islam. Come se non bastasse, si aggiungono rapimenti e minacce di morte contro le comunità cristiane allo scopo di provocarne la fuga. A ottobre del 2004, l’Agenzia Fides apre uno squarcio su questo orrore: a Baghdad, una bambina di famiglia cristiana caldea viene sequestrata da un gruppo terrorista islamico. I genitori non dispongono della somma richiesta per il riscatto. La bimba viene uccisa a sangue freddo e il suo cadavere «recapitato con un gesto di disprezzo alla famiglia, straziata dal dolore». Nel vicino Iran, perfino sul frontespizio del Catechismo della Chiesa c’è la foto dell’ayatollah Khomeini, segno tangibile del controllo esercitato dal ministero per l’Orientamento islamico.

Con Cristo nell’Africa dimenticata

Nel continente africano, complessivamente, la situazione è migliore che in Asia. In molti Stati, però, la libertà religiosa è ancora una chimera. Nella Somalia, in mano ai “signori della guerra”, la comunità cristiana vive sotto la costante pressione della maggioranza musulmana. Alla fine del 2004, lo sceicco integralista Sharif Shek Ahmed ha intimato agli albergatori di Mogadiscio di non festeggiare il capodanno, secondo il calendario cristiano, minacciando come ritorsione di far saltare in aria gli hotel. Nella Repubblica islamica di Mauritania, il governo limita la libertà religiosa vietando materiale divulgativo che non sia di contenuto musulmano. L’articolo 11 della legge sulla stampa dà facoltà al governo di applicare misure restrittive nei confronti di importazione e distribuzione di Bibbie e altre pubblicazioni cristiane. Vita difficile per i cristiani nelle isole Comore, dove quasi la totalità della popolazione è di fede islamica. La libertà di culto è prevista dalla Costituzione, ma le autorità discriminano la minoranza cristiana in ogni ambito della vita sociale. Il proselitismo è bandito, mentre nelle scuole pubbliche la recita del Corano comincia già all’età di quattro anni. Nel Burundi le cose vanno meglio, ma le associazioni cristiane possono operare solamente se hanno ottenuto la registrazione presso il ministero dell’Interno. Proprio in questo paese, devastato dalla guerra civile tra Tutsi e Hutu, il 29 dicembre del 2003 è stato assassinato l’arcivescovo Michael Courtney, nunzio apostolico a Bujumbura. Un attacco alla Chiesa senza precedenti. Molto critica la situazione in Nigeria, dove negli Stati settentrionali, dal 1999 in poi, è stata introdotta la shari’a. In questi anni, oltre diecimila persone sono state uccise e centinaia di migliaia costrette ad abbandonare la propria terra. Per la maggior parte, le vittime di questa pulizia etnica sono cristiane. Nello Stato di Zamfara, il governo locale ha espresso la volontà di demolire tutte le chiese “illegali” e perfino di voler chiudere i negozi gestiti da cristiani, durante la preghiera islamica. Da ultimo il Sudan. Anche qui, come in molti altri casi, la libertà di religione viene garantita dalla Costituzione per essere poi vessata nella vita quotidiana. Le leggi e la politica in generale si ispirano all’Islam. I cristiani subiscono continue discriminazioni. L’apostasia viene punita con la morte. Tragica la condizione dei profughi sud sudanesi, per la maggioranza cristiani, ammassati nella periferia di Khartoum. A questa povera gente non viene nemmeno permesso di costruire luoghi di culto provvisori. Più volte il governo ha disposto ed eseguito la distruzione dei campi profughi. Ad offrire conforto a questi disperati solo le Chiese cristiane. Sacerdoti, suore, religiosi hanno portato aiuti materiali e calore umano. A rischio della vita.

Nel segno della Croce

Dall’altra parte del mondo, nel continente americano, le condizioni di vita dei cristiani sono generalmente accettabili. Non è raro, però, che sacerdoti e religiosi impegnati in contesti di degrado sociale paghino con la vita la propria missione. E poi c’è sempre Cuba. Paradiso dei no-global, purgatorio per i cristiani. La Chiesa non ha accesso alla stampa, né è previsto l’insegnamento della religione cattolica nella scuola statale. Del resto, nota “Aiuto alla Chiesa che soffre”, non esiste la possibilità di una scuola privata cattolica. Intervistato nel gennaio del 2005 dal sito web cattolico Korazym.org, il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell’Avana, ha spiegato che nei confronti dei cattolici non è in atto una vera e propria persecuzione materiale, ma una forma più sottile, «un tentativo di relegare ogni attività e testimonianza ai margini della società e della politica». Ancora peggio se la passano gli evangelici. Il 9 ottobre del 2005 la polizia cubana ha fatto irruzione in un’abitazione di Colon dove ha confiscato materiale definito “sovversivo e pericoloso”. Piani per un colpo di Stato? No, copie del Vangelo di Giovanni. La macchina tipografica con la quale il pastore Eliseo Rodriguez Matos stampava questi fogli sovversivi è stata sequestrata e il religioso sottoposto ad interrogatorio. L’associazione The Voice of the Martyrs fa sapere che, negli ultimi tempi, il regime castrista ha minacciato la demolizione di molte chiese famigliari, quelle case dove vengono organizzati momenti di preghiera per sfuggire ai divieti di riunione con finalità spirituali.
Finisce qui questo viaggio nella sofferenza cristiana, neppure un abbozzo di bilancio tante e tali sono le realtà non esaminate. Poche pagine sufficienti, però, a far comprendere se non altro che, al di là delle apparenze, non tutti i cristiani si fanno il segno della Croce allo stesso modo. Da noi, nell’Europa orgogliosa del suo laicismo, spesso è un gesto distratto. Ma in molti luoghi, dove il nome Gesù può esser solo sussurrato, è ancora un segno di testimonianza. Gesto semplice e al tempo stesso straordinario. Perché chi lo compie sa che forse lo sta facendo per l’ultima volta.

Alessandro Gisotti, giornalista, si occupa di attualità internazionale per il magazine Emporion e di politica americana per il quotidiano L’Indipendente.

(c) Ideazione.com (2006)
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