C’erano una volta
i martiri cristiani, donne e uomini uccisi in odio della fede. C’erano
una volta e ci sono ancora. È il 29 ottobre del 2005: tre ragazze cristiane
si stanno recando a scuola nella città indonesiana di Poso, 1500 chilometri
a nordest di Giakarta. All’improvviso vengono assalite da due uomini
a bordo di una moto, armati di machete. Le tre adolescenti vengono decapitate.
I corpi lasciati per strada. Le teste fatte ritrovare una vicino ad una chiesa,
le altre due nei pressi di un commissariato. Quale delitto avevano mai compiuto
queste giovani donne per meritare una morte così crudele? Quale la
loro colpa per essere massacrate così barbaramente? Credevano in Gesù
Cristo. Nell’uomo che duemila anni fa ha spezzato in due la storia annunciando
all’umanità che bisogna amare il prossimo come se stessi per
amare davvero Dio. La notizia dello scempio trova spazio in qualche lancio
di agenzia. Nulla di più. Bisogna aspettare domenica 30 ottobre quando
Benedetto XVI esprime pubblicamente il suo dolore per queste vite recise nel
fiore degli anni. Solo allora stampa e tv danno spazio al martirio delle giovani
cristiane dell’Indonesia.
E
l’Europa resta a guardare
Nell’Europa
annoiata che ha rifiutato di riconoscere le proprie radici nella Carta Costituzionale,
dove perfino i cristiani sono sovente a disagio nel parlare di Gesù,
storie come quella arrivata dall’arcipelago indonesiano non trovano
ascolto. Quanti per esempio conoscono la vicenda di Javed Anjum? Studente
pakistano di 19 anni, originario di Quetta, Javed è morto il 2 maggio
del 2004 con 26 ferite sul corpo, inflittegli da un insegnante e alcuni alunni
di una scuola islamica che volevano farlo convertire all’Islam. Nel
martirologio, l’elenco dei martiri stilato ogni anno dall’Agenzia
Fides della Chiesa cattolica, leggiamo che Javed, il 17 aprile, era stato
rapito da un insegnante e alcuni studenti della Jamia Hassan bin Almurtaza,
scuola religiosa islamica vicino ad Islamabad. Per 5 giorni, il giovane cristiano
è stato torturato finché le sue condizioni sono diventate talmente
gravi da indurre i suoi stessi aguzzini a portarlo in una stazione di polizia.
Troppo tardi. Quando Javed è stato trasportato all’ospedale di
Faisalabad non c’era più niente da fare. Certo, non sempre i
discepoli di Cristo pagano con la vita la propria fede, in terre difficili.
C’è chi se la cava con dieci mesi di prigione e 300 frustate.
È il caso del cristiano Brian Savio O’ Connor che, nell’ottobre
del 2004, è stato condannato da un tribunale di Deerah, vicino Riad,
per il crimine di evangelizzazione. Il giudice lo ha accusato di vendita di
liquori e possesso di materiale pornografico. O’ Connor, indiano di
nascita, ha sempre respinto ogni addebito. Ha però ammesso di aver
organizzato incontri di studio e di preghiera sulla Bibbia. Atto gravissimo
in un paese dove un crocifisso al collo può farti finire in carcere.
Dopo essere stato rapito dalla Muttawa, la polizia religiosa saudita, O’Connor
è stato torturato per ventiquattro ore in una moschea. Poi, il giudizio
farsa denunciato dall’organizzazione Middle East Concern.
In Italia, la drammatica esperienza del cristiano O’Connor viene resa
nota dall’agenzia AsiaNews, fondata due anni fa da padre Bernardo Cervellera.
Ogni giorno, avvalendosi dei missionari del Pime (Pontificio Istituto Missioni
Estere) sparsi per il mondo, AsiaNews getta luce laddove molti, moltissimi
in Occidente non vogliono guardare. Quello di padre Cervellera è un
lavoro coraggioso. E di grande spessore. L’autorevolezza delle fonti
utilizzate è tale che anche bbc e Times, di buon grado, attingono informazioni
dal sito web dell’agenzia missionaria.
È proprio consultando AsiaNews che ci si rende conto come la vicenda
di O’Connor e perfino delle tre giovani martiri indonesiane, in molte
aree del mondo, non siano un’eccezione. Sono quasi la regola. Soprattutto
in Asia, «il nostro comune compito per il Terzo Millennio», come
l’ha definita Giovanni Paolo II nel suo libro Alzatevi, Andiamo! In
India, la terra di Gandhi, può capitare che un convento di suore francescane,
quello di Bhiwadi nel Rajasthan, venga assaltato e le religiose sequestrate
per una notte da uomini armati. Nell’isola di Giava, invece, che un
gruppo di cristiani, mentre prega in strada, sia attaccato da estremisti musulmani.
Il continente asiatico non è il solo dove i fedeli in Cristo sfidano
spesso il terrore per testimoniare la propria fede. Nell’ottobre del
2005, ad Alessandria d’Egitto, cinquemila musulmani cercano di assalire
una chiesa cristiana copta per protestare contro una rappresentazione teatrale
giudicata offensiva dell’Islam. Sono storie all’ordine del giorno,
che raramente rimbalzano sui mass media di casa nostra. Se poi qualcuno, come
Antonio Socci, non si rassegna a far passare sotto silenzio le sofferenze
dei cristiani in molti Stati a maggioranza musulmana ecco che subito arriva
l’accusa di fomentare lo scontro di civiltà. La verità
è amara. Fa male anche a quei credenti che vogliono rinchiudere la
fede nella sfera privata. E non sanno, o forse lo sanno e fanno finta di niente,
che per tanti cristiani anche pregare nel silenzio della propria casa può
costare la vita.
In
Asia, i martiri del Terzo Millennio
Ogni
anno l’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che soffre” pubblica
un voluminoso rapporto sulla libertà religiosa. Un documento che offre
un resoconto sulle condizioni di vita dei cristiani in tutti i paesi del mondo.
Cosa vuol dire dunque essere cristiano oggi, lontano dall’Europa? Questo
viaggio nel dolore dei discepoli di Cristo non può che iniziare dalla
Cina, la superpotenza del Terzo Millennio. Tutti ne lodano le magnifiche sorti
e progressive che l’hanno portata a macinare ogni record di crescita
economica. Ma non tutto ciò che luccica è oro. Pechino ammette
che si possa praticare la fede solo all’interno di strutture registrate,
sotto la supervisione di associazioni patriottiche. La libertà religiosa
non è considerata un diritto della persona, ma una concessione dello
Stato che ne stabilisce limiti e modalità. Nel marzo del 2005 sono
entrate in vigore regole che stringono i controlli sui luoghi di culto. D’altro
canto, già un anno prima, il dipartimento di propaganda del partito
comunista cinese aveva diramato delle direttive per sradicare le conversioni,
mentre è stato impresso un rinnovato sostegno alla diffusione dell’ateismo.
Non mancano i pestaggi e le incarcerazioni di fedeli e sacerdoti. Molti di
loro finiscono nei campi di prigionia, i famigerati laogai. Tra le meraviglie
di questi lager: esecuzioni di massa con vendita di organi, aborti e sterilizzazioni
forzate. Al Sinodo dei vescovi, convocato dal Papa in Vaticano l’ottobre
scorso, c’erano quattro sedie vuote. Quelle dei presuli cinesi. Tuttavia,
sotto la pressione internazionale e grazie all’impegno instancabile
della Santa Sede, si intravede qualche barlume di luce. Buio pesto, invece,
nella confinante Corea del Nord, pietrificata sotto la dittatura di Kim Jong
Il. Anche qui, sottolinea il rapporto di “Aiuto alla Chiesa che soffre”,
i fedeli sono costretti a registrarsi in organizzazioni di partito. Ricorrenti
sono le persecuzioni violente contro chi non osserva questo obbligo e ancor
più se pratica attività missionaria. Dal 1953, anno infausto
nel quale a Pyongyang è salito al potere il regime comunista, sono
scomparsi nel nulla trecentomila cristiani. Non ci sono più suore né
sacerdoti. I cristiani nord coreani vengono ricordati dai “fratelli”
della Corea del Sud nelle celebrazioni delle messe.
Terribile la condizione in cui vivono i cristiani, e anche i musulmani, nel
Myanmar (l’ex Birmania) retto da una giunta militare comunista filobuddista.
Le scuole cattoliche sono state confiscate. Ai cristiani è negato l’accesso
ad incarichi nell’amministrazione pubblica. Nella regione dei Chin,
le croci che sovrastavano alcune montagne sono state abbattute e al loro posto
edificate delle pagode. Bandite le Bibbie e gli incontri di preghiera. Bambini
cristiani vengono sottratti ai propri genitori e portati in monasteri buddisti.
Anche in Vietnam, il controllo governativo sulla vita dei cristiani è
strettissimo. Un incoraggiante segnale di miglioramento è però
arrivato nel novembre del 2005: il governo di Hanoi ha dato l’assenso
all’erezione di una nuova diocesi della Chiesa cattolica e il cardinale
Crescenzio Sepe, in visita nel paese asiatico, ha potuto ordinare 57 sacerdoti.
Tuttavia, il governo continua a perseguitare con incursioni militari e vessazioni
di ogni tipo le popolazioni cristiane Montagnard, concentrate nelle aree montuose
del paese. Da anni, Hanoi attua una strategia di isolamento contro i popoli
dei monti, ricorrendo al disboscamento degli altopiani dove vivono. Se poi
scappano nella vicina Cambogia, l’esercito di Phnom Penh dà loro
la caccia e li riconsegna alle autorità vietnamite. «La sorte
di questa minoranza doppiamente discriminata politicamente e religiosamente
– ha scritto Gerolamo Fazzini su Avvenire – non scalda il cuore
delle masse terzomondiste, pronte a mobilitarsi giustamente per gli indios
sudamericani o gli aborigeni australiani. Risultato: un popolo che negli anni
Settanta superava i due milioni di persone, oggi ne comprende poche centinaia
di migliaia». Nel Laos, il partito comunista Pathet Lao, al potere da
30 anni, ha espulso tutti i missionari stranieri e considera il cristianesimo
una “religione imperialista”. Anche in questo caso, la libertà
di culto è rispettata solo sulla carta. Ogni manifestazione che provochi
divisione tra i cittadini è severamente vietata. Norma, questa, che
il governo laotiano utilizza per rendere difficile la vita ai cristiani.
In Pakistan, minacce e aggressioni contro le comunità cristiane si
verificano quotidianamente e ciò nonostante le promesse del presidente
Pervez Musharraf di garantire la libertà religiosa. Alle violenze per
lo più impunite, rileva il rapporto di “Aiuto alla Chiesa che
soffre”, si aggiungono i soprusi perpetrati in nome della legge sulla
blasfemia. In base a questa norma, interpretata in modo vessatorio contro
i cristiani, chi viene accusato di offendere il Corano rischia l’ergastolo.
Per chi offende Maometto, invece, c’è la pena di morte. L’insegnamento
cristiano è marginalizzato, mentre si registra una progressiva islamizzazione
delle scuole. Numerose violazioni si riscontrano anche nel Bangladesh: le
discriminazioni anticristiane sono compiute soprattutto da militanti islamici.
I lavoratori cristiani sono continuamente minacciati da questi estremisti,
che negano loro l’accesso ai pozzi d’acqua e sovente ne distruggono
le proprietà. Grave la situazione nello Sri Lanka, dove l’estremismo
buddista ha preso di mira le minoranze cristiane con la distruzione di decine
di chiese. Da alcuni anni è all’opera un’aggressiva campagna
anticonversione che attacca soprattutto i cristiani evangelici. Nel 2003,
il governo cingalese ha ordinato la chiusura delle scuole cattoliche di formazione
superiore. Nonostante le violenze, la Chiesa locale ha profuso un impegno
senza sosta per portare soccorso alle popolazioni colpite dallo tsunami.
In India, la “più grande democrazia del mondo”, permane
la vergogna delle leggi anticonversione. Gli ultimi Stati indiani in cui sono
state varate legislazioni che pongono restrizioni alla conversione sono il
Tamil Nadu e il Gujarat, dove per questo “crimine” si rischia
fino a tre anni di carcere e cinquantamila rupie di multa. In questo modo,
anche il lavoro delle organizzazioni umanitarie cristiane in favore dei più
deboli è passibile di denuncia di proselitismo. A tale discriminazione
di Stato si aggiungono poi gli attacchi dei fondamentalisti indù alle
chiese e ai fedeli. Contrastanti i segnali che arrivano dall’Indonesia,
il paese musulmano più popoloso al mondo. Da una parte, negli ultimi
tempi, si sono registrati dei progressi nel processo di democratizzazione
e ci si confronta sulla modernizzazione della shari’a; dall’altra,
come l’orribile decapitazione delle tre ragazze di Poso dimostra, il
fondamentalismo islamico punta all’eliminazione della presenza cristiana
nell’arcipelago indonesiano. Sono frequenti gli attacchi e le violenze
contro persone e chiese. Spesso gli estremisti, appoggiati dalla popolazione,
riescono ad interrompere le funzioni religiose dei cristiani, costretti così
a riunirsi nelle abitazioni private, sebbene sia vietato dalla legge.
Vero inferno in terra per i cristiani è l’Arabia Saudita. Europei
e americani continuano a fare affari con Riad. Intanto, negli ultimi mesi,
secondo l’International Christian Concern, il governo saudita ha impresso
un ulteriore giro di vite sulle minoranze religiose. Basta l’accusa
fumosa di proselitismo per finire in carcere ed essere torturati. È
ciò che è successo nel maggio 2005 a 8 cristiani. Uno di loro
John Thomas, che nella propria casa ospitava letture della Bibbia, è
stato massacrato di botte davanti al figlio di 5 anni, quindi condotto in
prigione. Ogni manifestazione cristiana pubblica è severamente vietata:
niente Bibbie, niente crocifissi. Per strada meglio non scambiarsi gli auguri
di Natale, perché la polizia religiosa, la famigerata Muttawa, è
sempre dietro l’angolo pronta ad arrestare e torturare. Nel novembre
2005, un tribunale ha condannato un insegnante a 40 mesi di detenzione e a
750 frustate per aver “deriso l’islam”. Il maestro, denunciato
da colleghi e studenti un anno e mezzo fa, informa AsiaNews, aveva osato discutere
in classe della Bibbia e perfino parlare bene degli ebrei.
In Iraq, le chiese sono bersaglio del terrorismo di matrice islamica. Attentati
hanno devastato edifici sacri a Mossul e Baghdad. Migliaia di cristiani hanno
già abbandonato il paese. Una vera diaspora. E ciò nonostante
la loro presenza in Iraq sia di molto precedente alla diffusione dell’Islam.
Come se non bastasse, si aggiungono rapimenti e minacce di morte contro le
comunità cristiane allo scopo di provocarne la fuga. A ottobre del
2004, l’Agenzia Fides apre uno squarcio su questo orrore: a Baghdad,
una bambina di famiglia cristiana caldea viene sequestrata da un gruppo terrorista
islamico. I genitori non dispongono della somma richiesta per il riscatto.
La bimba viene uccisa a sangue freddo e il suo cadavere «recapitato
con un gesto di disprezzo alla famiglia, straziata dal dolore». Nel
vicino Iran, perfino sul frontespizio del Catechismo della Chiesa c’è
la foto dell’ayatollah Khomeini, segno tangibile del controllo esercitato
dal ministero per l’Orientamento islamico.
Con
Cristo nell’Africa dimenticata
Nel continente africano, complessivamente, la situazione è migliore che in Asia. In molti Stati, però, la libertà religiosa è ancora una chimera. Nella Somalia, in mano ai “signori della guerra”, la comunità cristiana vive sotto la costante pressione della maggioranza musulmana. Alla fine del 2004, lo sceicco integralista Sharif Shek Ahmed ha intimato agli albergatori di Mogadiscio di non festeggiare il capodanno, secondo il calendario cristiano, minacciando come ritorsione di far saltare in aria gli hotel. Nella Repubblica islamica di Mauritania, il governo limita la libertà religiosa vietando materiale divulgativo che non sia di contenuto musulmano. L’articolo 11 della legge sulla stampa dà facoltà al governo di applicare misure restrittive nei confronti di importazione e distribuzione di Bibbie e altre pubblicazioni cristiane. Vita difficile per i cristiani nelle isole Comore, dove quasi la totalità della popolazione è di fede islamica. La libertà di culto è prevista dalla Costituzione, ma le autorità discriminano la minoranza cristiana in ogni ambito della vita sociale. Il proselitismo è bandito, mentre nelle scuole pubbliche la recita del Corano comincia già all’età di quattro anni. Nel Burundi le cose vanno meglio, ma le associazioni cristiane possono operare solamente se hanno ottenuto la registrazione presso il ministero dell’Interno. Proprio in questo paese, devastato dalla guerra civile tra Tutsi e Hutu, il 29 dicembre del 2003 è stato assassinato l’arcivescovo Michael Courtney, nunzio apostolico a Bujumbura. Un attacco alla Chiesa senza precedenti. Molto critica la situazione in Nigeria, dove negli Stati settentrionali, dal 1999 in poi, è stata introdotta la shari’a. In questi anni, oltre diecimila persone sono state uccise e centinaia di migliaia costrette ad abbandonare la propria terra. Per la maggior parte, le vittime di questa pulizia etnica sono cristiane. Nello Stato di Zamfara, il governo locale ha espresso la volontà di demolire tutte le chiese “illegali” e perfino di voler chiudere i negozi gestiti da cristiani, durante la preghiera islamica. Da ultimo il Sudan. Anche qui, come in molti altri casi, la libertà di religione viene garantita dalla Costituzione per essere poi vessata nella vita quotidiana. Le leggi e la politica in generale si ispirano all’Islam. I cristiani subiscono continue discriminazioni. L’apostasia viene punita con la morte. Tragica la condizione dei profughi sud sudanesi, per la maggioranza cristiani, ammassati nella periferia di Khartoum. A questa povera gente non viene nemmeno permesso di costruire luoghi di culto provvisori. Più volte il governo ha disposto ed eseguito la distruzione dei campi profughi. Ad offrire conforto a questi disperati solo le Chiese cristiane. Sacerdoti, suore, religiosi hanno portato aiuti materiali e calore umano. A rischio della vita.
Nel
segno della Croce
Dall’altra
parte del mondo, nel continente americano, le condizioni di vita dei cristiani
sono generalmente accettabili. Non è raro, però, che sacerdoti
e religiosi impegnati in contesti di degrado sociale paghino con la vita la
propria missione. E poi c’è sempre Cuba. Paradiso dei no-global,
purgatorio per i cristiani. La Chiesa non ha accesso alla stampa, né
è previsto l’insegnamento della religione cattolica nella scuola
statale. Del resto, nota “Aiuto alla Chiesa che soffre”, non esiste
la possibilità di una scuola privata cattolica. Intervistato nel gennaio
del 2005 dal sito web cattolico Korazym.org, il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo
dell’Avana, ha spiegato che nei confronti dei cattolici non è
in atto una vera e propria persecuzione materiale, ma una forma più
sottile, «un tentativo di relegare ogni attività e testimonianza
ai margini della società e della politica». Ancora peggio se
la passano gli evangelici. Il 9 ottobre del 2005 la polizia cubana ha fatto
irruzione in un’abitazione di Colon dove ha confiscato materiale definito
“sovversivo e pericoloso”. Piani per un colpo di Stato? No, copie
del Vangelo di Giovanni. La macchina tipografica con la quale il pastore Eliseo
Rodriguez Matos stampava questi fogli sovversivi è stata sequestrata
e il religioso sottoposto ad interrogatorio. L’associazione The Voice
of the Martyrs fa sapere che, negli ultimi tempi, il regime castrista ha minacciato
la demolizione di molte chiese famigliari, quelle case dove vengono organizzati
momenti di preghiera per sfuggire ai divieti di riunione con finalità
spirituali.
Finisce qui questo viaggio nella sofferenza cristiana, neppure un abbozzo
di bilancio tante e tali sono le realtà non esaminate. Poche pagine
sufficienti, però, a far comprendere se non altro che, al di là
delle apparenze, non tutti i cristiani si fanno il segno della Croce allo
stesso modo. Da noi, nell’Europa orgogliosa del suo laicismo, spesso
è un gesto distratto. Ma in molti luoghi, dove il nome Gesù
può esser solo sussurrato, è ancora un segno di testimonianza.
Gesto semplice e al tempo stesso straordinario. Perché chi lo compie
sa che forse lo sta facendo per l’ultima volta.
Alessandro Gisotti, giornalista, si occupa di attualità internazionale
per il magazine Emporion e di politica americana per il quotidiano L’Indipendente.
(c)
Ideazione.com (2006)
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