













































































 Credo che il nucleo centrale 
    della Dottrina Bush, ovvero che gli Stati Uniti dovessero trasformare la politica 
    del Medio Oriente per far fronte alla minaccia terroristica post 11 settembre, 
    sia sbagliato, e che il problema sia stato aggravato da un’azione politica 
    gravemente insufficiente prima e dopo la guerra irachena. Per la cronaca, 
    ero convinto che intraprendere una guerra fosse una cattiva idea già 
    nell’autunno 2002 (vale a dire, da prima che la guerra cominciasse), 
    quando mi è stato proposto di guidare una parte di uno studio del Pentagono 
    sulla strategia della guerra al terrorismo, e non in seguito allo svolgimento 
    degli eventi dopo il conflitto.
 
    Credo che il nucleo centrale 
    della Dottrina Bush, ovvero che gli Stati Uniti dovessero trasformare la politica 
    del Medio Oriente per far fronte alla minaccia terroristica post 11 settembre, 
    sia sbagliato, e che il problema sia stato aggravato da un’azione politica 
    gravemente insufficiente prima e dopo la guerra irachena. Per la cronaca, 
    ero convinto che intraprendere una guerra fosse una cattiva idea già 
    nell’autunno 2002 (vale a dire, da prima che la guerra cominciasse), 
    quando mi è stato proposto di guidare una parte di uno studio del Pentagono 
    sulla strategia della guerra al terrorismo, e non in seguito allo svolgimento 
    degli eventi dopo il conflitto.
    Non c’è dubbio che gli attacchi dell’11 settembre abbiano 
    rivelato una minaccia nuova, e che i tradizionali mezzi della guerra fredda, 
    il contenimento e la deterrenza, non avrebbero funzionato contro i terroristi 
    suicidi forniti di armi di distruzione di massa. La guerra in Afghanistan 
    è stato un attacco preventivo pienamente giustificato, che ci ha permesso 
    di smantellare le reti terroristiche che ci erano apertamente ostili.
    Il problema è stato che l’amministrazione Bush ha legato il problema 
    del terrorismo e delle armi di distruzione di massa a quello dell’Iraq 
    e più in generale, degli Stati canaglia. Quest’ultimo era, e 
    continua a essere un argomento molto serio, ma non è mai stato dimostrato 
    che uno Stato canaglia, che (a differenza dei terroristi internazionali) ha 
    un indirizzo, avrebbe seguito il faticoso iter per lo sviluppo delle armi 
    nucleari soltanto per fornirle a un’organizzazione terroristica.
    Il problema principale risiede nella diagnosi delle cause all’origine 
    del terrorismo e nel rimedio che vi si vuole porre. L’Islam estremista 
    non è assolutamente un’affermazione dei tradizionali valori religiosi 
    musulmani. Oliver Roy su Globalized Islam, ha sostenuto in modo convincente 
    che esso deve essere considerato un fenomeno moderno provocato dalla deterritorializzazione 
    dell’Islam, soprattutto in Europa occidentale, ad opera delle forze 
    della globalizzazione e della modernizzazione, che noi invece esaltiamo. Nelle 
    società islamiche tradizionali, l’identità è stabilita 
    dal gruppo in cui si nasce, ed è solo in un ambiente non musulmano 
    che un individuo comincia a chiedersi chi sia. La profonda alienazione che 
    ne deriva, espone i musulmani poco integrati di seconda e terza generazione 
    a un’ideologia integralista e universalistica come quella di Osama bin 
    Laden. Mohammed Atta e gli altri organizzatori degli attacchi dell’11 
    settembre, i cospiratori di Madrid e di Londra, e Mohammed Bouyeri, l’assassino 
    del regista olandese Theo Van Gogh, fanno tutti parte di questa categoria.
    Questo significa che più democrazia e più modernizzazione non 
    risolveranno in breve tempo i nostri problemi col terrorismo e potrebbero 
    anzi esacerbarli. Credo che democrazia e modernizzazione siano cose buone, 
    e che sia giusto promuoverle in Medio Oriente. Ma continueremo ad avere seri 
    problemi col terrorismo nell’Europa occidentale democratica, indipendentemente 
    da quello che succede in Egitto o in Libano.
    Anche se accettassimo che il Medio Oriente deve essere stabilizzato, è 
    difficile capire cosa ci ha fatto credere di esserne capaci. Molto di ciò 
    che i neoconservatori hanno scritto negli ultimi decenni trattava le conseguenze 
    inaspettate di un’ingegneria sociale troppo ambiziosa, e l’inutilità 
    di risalire alle cause originarie dei problemi sociali. Se questo è 
    stato vero per i tentativi di combattere la criminalità e la povertà 
    nelle città statunitensi, perché mai qualcuno ha creduto di 
    poter arrivare alle cause originarie dell’alienazione e del terrorismo 
    in una parte del mondo che non capivamo particolarmente bene, e in cui i nostri 
    strumenti politici erano assai limitati?
    Un altro limite è tipico degli Stati Uniti. Negli anni, ci siamo impegnati 
    in una serie di iniziative di nation-building in diverse nazioni: la ricostruzione 
    del Sud dopo la guerra di secessione, l’occupazione delle Filippine, 
    i vari interventi basati sulla dottrina di Monroe, il Giappone, la Germania, 
    la Corea del Sud e il Vietnam del Sud e infine gli interventi umanitari dell’era 
    post-guerra fredda in Somalia, ad Haiti, nei Balcani e in altri paesi. Tra 
    questi, soltanto il Giappone, la Germania e la Corea del Sud sono stati successi 
    eclatanti: tutti paesi in cui le forze di occupazione americane sono arrivate 
    senza praticamente andarsene mai.
    Gli americani hanno l’abitudine di iniziare questi processi con entusiasmo, 
    per poi perdere l’interesse una volta che le cose cominciano ad andare 
    storte, di solito dopo più o meno cinque anni: è quello che 
    è avvenuto con la ricostruzione del Sud, col Nicaragua tra il 1927 
    e il 1932, nel Vietnam del Sud e in molte altre nazioni. Stabiliamo alleanze 
    locali, proviamo a formare delle istituzioni moderne, e poi stacchiamo la 
    spina. Prima della guerra, temevo che ci saremmo comportati così anche 
    in Iraq e niente di quanto è avvenuto dopo è riuscito a togliermi 
    questo pensiero.
    Dobbiamo vincere militarmente in Afghanistan e in Iraq. È essenziale 
    resistere alle pressioni che ci vorrebbero far ridurre prematuramente il numero 
    delle forze impiegate: ma dobbiamo anche pensare in generale alla guerra al 
    terrorismo come a una classica campagna di controinsurrezione da combattere 
    su scala mondiale. In una campagna di questo tipo, conquistare i cuori e le 
    menti è importante quanto neutralizzare lo zoccolo duro dei terroristi. 
    Credo fortemente nel bisogno di una politica estera di espansione che trasformi 
    gli Stati al loro interno e non solo il loro comportamento esteriore. Ma è 
    il soft power americano, non l’hard power, che ci fornirà l’elemento 
    essenziale per la promozione e lo sviluppo della democrazia nel mondo, e inoltre, 
    dobbiamo assolutamente ripensare la struttura e il finanziamento degli strumenti 
    che possediamo per perseguire un’azione simile.
    Dopo i primi quattro anni della Dottrina Bush, gli Stati Uniti hanno creato 
    un nuovo covo di terroristi in Iraq e un vuoto di potere che destabilizzerà 
    la politica della regione ancora per anni. Se gli alleati, a livello di élite, 
    cercano di ristabilire delle buone relazioni con Washington, a livello popolare 
    in gran parte del mondo si è verificato uno spostamento sismico nella 
    percezione degli Stati Uniti. La nostra immagine, giusto o sbagliato che sia, 
    non è più quella della statua della libertà, ma del prigioniero 
    incappucciato di Abu Ghraib. Cercare di risolvere questo problema è 
    un pensiero che ci assillerà per molti anni.
(© Commentary)
(Traduzione 
    dall’inglese di Arianna Capuani)
    
  Francis Fukuyama, titolare della cattedra “Bernard Schwartz” di 
    economia politica internazionale e direttore del programma di sviluppo internazionale 
    presso la Paul H. Nitze School of Advanced International Studies della John 
    Hopkins University.
 
    Francis Fukuyama, titolare della cattedra “Bernard Schwartz” di 
    economia politica internazionale e direttore del programma di sviluppo internazionale 
    presso la Paul H. Nitze School of Advanced International Studies della John 
    Hopkins University.
    
(c) 
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