













































































 Tremonti o Giavazzi, come reagire 
    al declino?
 
    Tremonti o Giavazzi, come reagire 
    al declino? Già settant’anni 
    fa, Joseph Alois Schumpeter si chiedeva come reagire al declino a cui sembrava 
    condannata la Vecchia Europa. Allora si preferiva parlare di stagnazione secolare, 
    ma l’analisi era simile a quella che oggi ricorre. In primo luogo tassi 
    di crescita della produzione prossimi allo zero, e soprattutto ben inferiori 
    a quelli messi a segno dalle economie dell’Est (ieri quella sovietica, 
    oggi quella cinese). In secondo luogo, la percezione delle economie dell’Est 
    come minaccia per l’assetto economico europeo (ieri, per la pressione 
    interna esercitata dai movimenti socialisti e comunisti sui governi, oggi, 
    per la liberalizzazione del commercio mondiale).
 
    Già settant’anni 
    fa, Joseph Alois Schumpeter si chiedeva come reagire al declino a cui sembrava 
    condannata la Vecchia Europa. Allora si preferiva parlare di stagnazione secolare, 
    ma l’analisi era simile a quella che oggi ricorre. In primo luogo tassi 
    di crescita della produzione prossimi allo zero, e soprattutto ben inferiori 
    a quelli messi a segno dalle economie dell’Est (ieri quella sovietica, 
    oggi quella cinese). In secondo luogo, la percezione delle economie dell’Est 
    come minaccia per l’assetto economico europeo (ieri, per la pressione 
    interna esercitata dai movimenti socialisti e comunisti sui governi, oggi, 
    per la liberalizzazione del commercio mondiale).
    Per uscire dalla stagnazione, Schumpeter propone una strada verso lo sviluppo 
    fondata su tre pilastri: le regole, l’imprenditore, la banca. Ovvero: 
    una concorrenza ben regolata, che favorisca la cooperazione tra imprese ma 
    che rifugga tendenze stataliste; il rilancio del ruolo sociale dell’imprenditore, 
    motore dell’innovazione e del progresso; la centralità della 
    banca per un accesso efficace al mercato dei capitali da parte dell’impresa. 
    Nella chiacchiera attuale sul declino, non è facile trovare una posizione 
    così ricca, e al tempo stesso così chiara e attuale. Quasi sempre, 
    in Italia si finisce infatti a parlare solo delle regole, nell’errata 
    convinzione che solo ad esse attengano le scelte della politica. Capita così 
    che anche due proposte di ampio respiro siano ricondotte, nel dibattito pubblico, 
    alla vecchia antinomia tra liberismo e protezionismo (oggi battezzato, con 
    un certo vezzo, colbertismo). Parliamo dei due bei libretti che Francesco 
    Giavazzi e Giulio Tremonti hanno appena pubblicato (Giulio Tremonti, Rischi 
    fatali, Mondadori, 2005; Francesco Giavazzi, Lobby d’Italia, rcs Libri, 
    2005).
    Pamphlet a tesi quello di Tremonti, raccolta tematica di articoli pubblicati 
    dal 1997 al 2005 quello di Giavazzi, i due testi meritano di essere letti 
    assieme per diverse ragioni. L’analisi di partenza: il problema italiano 
    è parte del più generale problema europeo. La bassa crescita 
    e la perdita di posizioni nella competizione geo-economica sono collegate 
    a una regolamentazione eccessiva nel fronte interno. Troppe regole, troppa 
    burocrazia, depressione dello spirito imprenditoriale. 
    Il modello di riferimento: gli Stati Uniti, anche se talvolta appare un modello 
    di maniera. Tremonti ammira gli usa che non hanno paura di proteggersi con 
    dazi e quote, di sostenere la produzione ricorrendo al debito pubblico, di 
    ritardare l’apertura del proprio mercato alla Cina. A Giavazzi, invece, 
    piacciono gli usa in cui i taxi costano meno perché non serve una licenza, 
    il sistema universitario non perpetua il baronato tramite i concorsi, le banche 
    sono libere di crescere.
    I fili espliciti e impliciti che collegano le due proposte: Tremonti e Giavazzi 
    si confrontano, si stimano anche quando dissentono. La linea di Giavazzi rispetto 
    all’azione politica di Tremonti è tutta giocata sull’apertura 
    di credito e l’attesa delusa, sull’auspicio di radicali azioni 
    liberalizzatrici e la constatazione delle difficoltà di imporle al 
    paese (una curiosità: il nome di Tremonti è quello più 
    citato nel libro di Giavazzi). Tremonti non cita, ma di Giavazzi condivide 
    l’afflato liberalizzatore nel mercato interno dell’Europa e dell’Italia. 
    Altri sono i mercatisti suicidi attaccati nel suo pamphlet: intellettuali 
    e commis di formazione marxista che hanno troppo repentinamente forzato gli 
    equilibri tra i mercati europei e quelli asiatici. 
    La contingenza politica: pubblicati entrambi nel settembre passato, i due 
    libri ci accompagneranno, con le loro tesi, nella lunga campagna elettorale 
    che ci attende. Pur nella sua visionarietà, Rischi fatali è 
    il manifesto di un tremontismo di governo attorno al quale si sta coagulando 
    la prospettiva della gran parte di Forza Italia, della Lega Nord, e forse 
    in misura minore anche di Alleanza Nazionale. Lobby d’Italia è 
    oggi la summa divulgativa del giavazzismo, già adottato come base del 
    programma economico dalla Rosa nel Pugno, e più in generale punto di 
    riferimento dei settori riformisti-liberisti dei Democratici di Sinistra e 
    della Margherita. 
    La ricchezza delle proposte, che muovono dal tema delle regole (liberismo 
    versus protezionismo), ma lo integrano aprendo ai problemi già di Schumpeter: 
    su quali attori economici e sociali scommettere (e quindi su quale constituency 
    politica puntare), come rilanciare il rapporto tra risparmio e investimento, 
    tra finanza e impresa. Fin qui le ragioni di una lettura parallela: ma le 
    strade indicate per reagire al declino, pur intersecandosi, sono diverse.
    
     Le 
    regole: troppe e troppo poche
 
    Le 
    regole: troppe e troppo poche
Per 
    Tremonti, l’ultimo decennio è stato caratterizzato da un doppio 
    movimento. Da una lato la repentina liberalizzazione del commercio mondiale 
    (1994: accordi wto; 2001: adesione della Cina), che ha accelerato i processi 
    di globalizzazione. Dall’altro, l’inarrestabile corsa alla regolamentazione 
    nei mercati interni dell’Unione Europea (gustose le pagine sulle regole 
    di welfare delle galline o sull’indice rifrattometrico della polpa dei 
    cocomeri). La qualità e la quantità della regolamentazione sono 
    elementi fondamentali per la competizione: è pericoloso imporre a se 
    stessi regole costose da rispettare, e liberarsi da quelle che governano la 
    competizione con sistemi economici (la Cina) che non ne rispettano alcuna. 
    È un vero e proprio suicidio farlo repentinamente, senza quel gradualismo 
    che Tremonti molto esattamente pone al centro della teoria e della pratica 
    della tradizione liberale. Che fare? Con un uso accorto dell’utopia 
    come retorica politica, Tremonti lancia un programma in sette punti (chiamiamolo 
    neo-protezionista, per intenderci) e una provocazione: per cinque anni ogni 
    iniziativa economica sia libera se non viola il codice penale. Meno regole 
    verso l’interno, più regole verso l’esterno.
    Anche per Giavazzi l’Italia è ingessata dalle regole, ma il bersaglio 
    è diverso: non la nuova burocrazia europea ma le vecchie corporazioni 
    italiane, non le direttive sulla produzione agricola ma il proliferare di 
    albi professionali e di licenze. L’utopia negativa non è il superstato 
    mercatista che pretende di regolare i bisogni dei cittadini e la loro soddisfazione 
    secondo un modello astratto di perfezione, ma una comunità neomedievale 
    fatta di privilegi, storici abusi che diventano legge, corporazioni che perpetuano 
    nel tempo il controllo sulle decisioni politiche. Non c’è gradualismo 
    efficace contro questo schieramento di forze: ci vogliono riforme nette, anche 
    simboliche, che mirino al cuore dei vecchi poteri che bloccano il paese. Bisogna 
    tagliare il cordone che ancora lega le banche alla politica riformando le 
    fondazioni; abolire gli ordini professionali e il valore legale del titolo 
    di studio per creare un mercato libero dei servizi; imporre agli Enti territoriali 
    la privatizzazione delle imprese controllate e completare la cessione delle 
    partecipazioni statali.
 La 
    constituency sociale ed economica
 
    La 
    constituency sociale ed economica
Nell’antropologia 
    economica tremontiana, la figura negativa è il burocrate, il commis 
    con il suo bagaglio di dogmatismo mercatista. Meno esplicito, ma altrettanto 
    evidente, è il polo opposto. L’imprenditore, vessato da norme 
    che gli impongono standard costosi, spiazzato nella competizione con i cinesi, 
    che non rispettano altre regole se non quelle di una produttività esasperata. 
    Con l’imprenditore, dalla stessa parte e con lo stesso aleggiante spettro 
    della povertà, l’operaio. Quando Tremonti invoca dazi e quote 
    per proteggere transitoriamente l’economia in nome del primum vivere 
    delle nostre imprese – ammiccando al pragmatismo craxiano, col quale 
    ha intrecciato una fase del proprio percorso intellettuale e politico – 
    pare di sentire l’eco delle preoccupazioni non rassegnate dei piccoli 
    e medi imprenditori (e dei loro operai) che da molti anni ascolta e difende, 
    e che costituiscono oggi una sua specialissima base di consenso. È 
    all’imprenditore, e all’imprenditore manifatturiero in particolare, 
    che Tremonti affida ancora il ruolo di trainare l’Europa e l’Italia. 
    La terziarizzazione dell’economia non convince Tremonti: una grande 
    economia avanzata non è solida senza un forte (prevalente?) contributo 
    dell’impresa manifatturiera, che dà lavoro e sostiene la bilancia 
    commerciale.
    L’economia della produzione trova credito anche nelle pagine di Giavazzi, 
    ma il modello è diverso: da un lato i notabili della vecchia Italia 
    che non vuole cambiare, notai, avvocati, banchieri, baroni accademici. Dall’altro, 
    i tecnici e gli specialisti al servizio della via alta alla competizione: 
    ricercatori (di formazione rigorosamente scientifica), ingegneri, designer, 
    fisici dei materiali. A Giavazzi piacerebbe un paese in cui i ventenni ambissero 
    a progettare i freni della Brembo e non a fare l’avvocato nello studio 
    del padre. Il giavazzismo considera l’italianità delle imprese 
    un falso problema: il paese prospera non tanto se proliferano gli imprenditori, 
    ma i ricercatori e gli ingegneri che permettono alle imprese che operano in 
    Italia di competere sulla frontiera dell’innovazione, della qualità, 
    del valore aggiunto, piuttosto che su quella dei volumi e del prezzo.
 L’equivoco 
    bancario
 
    L’equivoco 
    bancario
Una 
    visione critica nei confronti dell’assetto del sistema bancario e finanziario 
    attuale accomuna le due visioni. Tremonti è meno esplicito, ma c’è 
    almeno un elemento illuminante: la polemica già richiamata verso l’opzione 
    della terziarizzazione dell’Europa e dell’Italia. Rischi fatali 
    liquida senza una vera argomentazione la praticabilità di un percorso 
    come, ad esempio, quello britannico. Contando, certo, sulla lingua, sulla 
    tradizione imperiale, sulla City, la Gran Bretagna della Thatcher e di Blair 
    ha saputo convertirsi da potenza dell’industria a potenza del terziario. 
    Oggi esporta cultura e servizi finanziari. Uscendo dalle pagine del libro, 
    e cercando di illuminare con esse la prassi politica (esercizio complesso, 
    ma ineludibile quando si abbia a che fare con libri-manifesto), è più 
    facile comprendere perché Tremonti, così attento alla difesa 
    delle manifatture nazionali, in questi anni non sia stato certo un difensore 
    delle ragioni delle banche italiane. Non è un caso che il tremontismo 
    che Giavazzi più ama sia quello sovversivo degli assetti bancari: battaglia 
    sulle fondazioni; polemica con il Governatore nazionalista; linea liberal 
    e consumerista sugli investimenti dei risparmiatori (Cirio, Argentina, Parmalat); 
    spazio all’Antitrust. Giavazzi è se possibile ancora più 
    critico: in un recente articolo, è arrivato a descrivere i banchieri 
    italiani come un consesso di volpi che hanno appena visitato i pollai. Certo, 
    piace l’operazione Unicredit-hvb, piacciono le Generali che crescono 
    in Cina, ma il giudizio di fondo non muta: il mercato bancario non è 
    concorrenziale, danneggia i risparmiatori, frena lo sviluppo. La ricetta è 
    conseguente: rimozione del Governatore, ridimensionamento delle fondazioni, 
    maggiore concorrenza. 
    Alla ricerca di una forza economica, di una constituency per reagire al declino, 
    il tremontismo e il giavazzismo preferiscono affidarsi all’imprenditore 
    manifatturiero o al tecnico iperqualificato: del banchiere non si fidano. 
    Una simile scelta deriva, probabilmente, da una prospettiva non interna sul 
    sistema bancario italiano: esso è già molto più internazionalizzato 
    e molto più competitivo di quanto possa apparire. In Italia operano 
    da anni diverse banche straniere, alcune con reti molto rilevanti. La finanza 
    cosiddetta strategica per le imprese di maggiori dimensioni è di fatto 
    in mano a banche estere. La quota di capitale di istituti esteri in banche 
    italiane è allineato ai livelli europei. Che non si tratti di semplici 
    investimenti finanziari, è suggerito da una circostanza su tutte: la 
    sola grande banca italiana che ha fatto una fusione cross-border da posizione 
    di forza, è anche la sola a non avere quote rilevanti di capitale bancario 
    estero nella propria compagine sociale. Sono proprio le fondazioni, azioniste 
    di controllo di Unicredit, ad avere dato forma alla banca italiana più 
    dinamica all’estero. 
    C’è altro: la finanza internazionale sta prendendo il controllo 
    delle crisi industriali italiane. Solo nel 2005 sono finiti nelle mani di 
    grandi banche straniere crediti in sofferenza per circa 15 miliardi di euro. 
    Molti fallimenti si decidono, già oggi, a Londra.
    In questo scenario, nell’ultimo decennio le banche italiane sono state 
    protagoniste di uno straordinario percorso di ristrutturazione industriale: 
    fusioni e incorporazioni per perseguire economie di scala, drastico taglio 
    dei costi, riduzioni di personale e forte turnover a favore di risorse qualificate. 
    Oggi il settore occupa direttamente 350.000 persone, con una percentuale di 
    laureati che non ha eguali in altri comparti. È per queste ragioni 
    – non perché qualche istituto ha rifilato a risparmiatori non 
    informati bond ad alto rischio, o perché i conti correnti costano di 
    più che in paesi in cui le banche possono fallire – che il sistema 
    ha saputo mantenere un discreto livello di redditività anche negli 
    ultimi anni, così duri per la nostra economia. 
 Una 
    sintesi politica
 
    Una 
    sintesi politica
Modello 
    delle regole, forze economiche di riferimento, ruolo delle banche: le visioni 
    tremontiana e giavazziana non sono incompatibili per alcuno dei tre aspetti. 
    Una sintesi riformista tra le due prospettive è possibile senza snaturarle, 
    e può trovare consenso nel paese. I primi segnali di dialogo politico 
    tra i due riformismi si vedono già, e vanno incoraggiati. Riforma degli 
    albi, delle tariffe e delle professioni, rilancio delle privatizzazioni specie 
    negli Enti territoriali, uso transitorio e pragmatico di protezioni per alcuni 
    settori industriali, riduzione degli oneri che gravano sul costo del lavoro. 
    Su punti come questi le due constituency di riferimento possono trovare un’intesa. 
    
    Su un punto la sintesi politica dei due riformismi potrebbe però essere 
    più avanzata rispetto alle proposte che la animano: il coinvolgimento 
    delle banche italiane nel percorso. Sarebbe un grave errore politico lasciare 
    alle banche il ruolo di bersaglio polemico. Il sistema bancario italiano non 
    deve essere solo un serbatoio di credito a buon mercato per imprese più 
    o meno in difficoltà, e di distribuzione di piccole (grandi) rendite 
    a risparmiatori che hanno accumulato piccoli (grandi) gruzzoli: questa è 
    semmai la logica delle banche cinesi. 
    Oggi il settore bancario italiano è un’industria ristrutturata 
    e dinamica, che come e meglio di altri settori industriali può competere 
    all’estero esportando i propri prodotti: credito, finanza, servizi. 
    La banca moderna è nata in Italia, e la via dei banchieri, a Londra, 
    si chiamava Lombard Street. Non potremo in breve tempo competere alla pari 
    degli usa e dell’Inghilterra, ma la politica, se cerca una strada per 
    reagire al declino, può trovare nella banca un compagno di viaggio.
    
 Alessandro Carpinella, è senior manager kpmg advisory dove si occupa 
    principalmente di pianificazione strategica per il settore bancario e il settore 
    pubblico. Si è laureato in Filosofia politica alla Scuola Normale Superiore 
    di Pisa.
 
    Alessandro Carpinella, è senior manager kpmg advisory dove si occupa 
    principalmente di pianificazione strategica per il settore bancario e il settore 
    pubblico. Si è laureato in Filosofia politica alla Scuola Normale Superiore 
    di Pisa.
    
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