













































































 I nostri media italiani 
    ed europei si guardano bene dal riportarlo, perché prevale l’ottica 
    punitiva contro le potenze 
    anglo americane e i loro leader che hanno promosso la guerra in Iraq, ma il 
    ciclo del jihad terroristico, dopo avere raggiunto un tragico apice, sembra 
    essere entrato nella fase calante. Anzi morente.
 
    I nostri media italiani 
    ed europei si guardano bene dal riportarlo, perché prevale l’ottica 
    punitiva contro le potenze 
    anglo americane e i loro leader che hanno promosso la guerra in Iraq, ma il 
    ciclo del jihad terroristico, dopo avere raggiunto un tragico apice, sembra 
    essere entrato nella fase calante. Anzi morente.
    Non è vero che il mondo arabo sia pieno di centinaia di migliaia di 
    potenziali martiri suicidi. Anzi sembra esatto il contrario: chi si arruola 
    oggi per andare a combattere in Iraq spesso ritorna a casa con le pive nel 
    sacco. Deluso, confuso e frastornato da quanto visto in loco che non corrisponde 
    affatto, nella maggior parte dei casi, a quanto ci si attendeva di trovare. 
    Quasi tutti i giovani che vengono poi intervistati dalle tv del paese d’origine, 
    giordano, siriano o saudita che sia, una volta che, più o meno miracolosamente, 
    siano riusciti a farvi ritorno dall’Iraq, descrivono una realtà 
    di cellule chiuse, di contatti umani ridotti al minimo, di compartimentazioni 
    stagne tra cellule del jihad e di avventure consumate tra le mura di una stanzetta 
    insieme al Corano e a un po’ di cibo.
    Il paese che sta constatando questo fenomeno sociale e sociologico nella maniera 
    più devastante è l’Arabia Saudita. Ritenuta non a torto 
    come uno dei primi motori immobili del terrorismo islamico, l’ideologia 
    wahabita adesso sta cambiando registro. Basta con l’illusione di convertire 
    gli infedeli, restiamocene sicuri a casa nostra a fare gli “integristi” 
    del verbo maomettano, piuttosto che gli integralisti di un improbabile califfato 
    universale.
    Gli imam nelle moschee adesso predicano di non andare a fare gli utili idioti 
    in Iraq facendosi esplodere in nome di un’eresia di fanatismo. E anche 
    i loro colleghi iracheni, nelle moschee sunnite e sciite, li imitano in questa 
    clamorosa marcia indietro. Da dove viene allora il nuovo proselitismo, il 
    nuovo fanatismo e tutto ciò che ancora sostiene i disperati colpi di 
    coda di un terrorismo che, come già quello marx-leninista delle br 
    e dei gruppi europei che fecero la lotta armata negli anni Settanta, proprio 
    nel momento che compie il massimo sforzo per uccidere con ripetuti attentati 
    sempre più devastanti dimostra i primi inesorabili segni dell’inizio 
    della sua fine?
    Il jihad oggi è quello degli “effetti speciali”, con un 
    suo telegiornale internettiano jihadista “Sout al kilafa”, la 
    voce del califfato, che procede con spot in cui vengono fatti vedere gli ultimi 
    attentati filmati intervallati da musiche arabe d’ambiente e da proclami 
    che ricordano quelli di Mastro Lindo quando promette alle casalinghe che lo 
    sporco verrà sconfitto inesorabilmente. 
    Niente più passi coranici da citare, perché i veri dotti, opportunamente 
    redarguiti dai regnanti sauditi, hanno già provveduto a esorcizzarli 
    su Al Jazeera. Niente più appeal di santità, il terrorismo ormai 
    recluta i giovani per moda e li inganna. Magari mandandoli a morire ammazzati 
    su un camion pieno di esplosivo a loro completa insaputa. 
    Segno che l’arruolamento di martiri volontari potrebbe ormai essere 
    al lumicino.
 Il 
    caso del martire figlio di papà Ahmad Al Shaye’
 
    Il 
    caso del martire figlio di papà Ahmad Al Shaye’
Uno 
    dei casi più clamorosi in tal senso è quello di Ahmad Al-Shaye’, 
    un giovane saudita salvatosi miracolosamente dal tafgyr (esplosione) che fece 
    saltare il camion che lui conduceva nella zona di Ramadi nei primi mesi del 
    2005. 
    Il ragazzo, di buona famiglia, avvicinatosi al jihadismo solo negli ultimi 
    tre anni della propria vita, dopo non essere nemmeno mai stato un buon musulmano, 
    ha raccontato la sua incredibile storia di “shaheed truffato” 
    alla tv saudita Al Majid il 18 settembre scorso, e ci fosse stato un dannato 
    giornale europeo che avesse riportato le sue parole. 
    Al Shaye’, che ha perso tre dita della mano destra nell’“incidente”, 
    come lo chiama lui nell’intervista, venne catturato dopo il fallito 
    attacco suicida e tenuto qualche mese in prigione in Iraq, poi le autorità 
    saudite, su pressione del padre che era un uomo influente a Riyad, riuscirono 
    a ottenere l’estradizione per riportarselo a casa.
    E pare che anche questo sia un fenomeno di massa nel regno di Abdallah: tutti 
    i figli di papà che vanno a fare il jihad in Iraq e che non ci lasciano 
    le penne diventano un problema diplomatico per l’Arabia Saudita che 
    deve andare a riprenderseli sul fronte iracheno.
    La storia raccontata da Al Shaye’ è semplice: «credevo 
    di andare in un fronte di guerra dove da una parte c’erano tutti i buoni 
    musulmani come me e dall’altra gli infedeli americani, ma presto ho 
    potuto accorgermi che questo non era vero... non potevo però fare domande, 
    stavo tutto il giorno in casa e dovevo chiedere il permesso per qualunque 
    necessità, andarsene via non era contemplato e un bel giorno mi hanno 
    chiesto se ero disposto a fare lo shaheed suicida e risposi semplicemente 
    di no... allora mi dissero di portare un camion da un posto all’altro 
    a una distanza di poco più di un chilometro e mi pregarono di parcheggiarlo 
    da una parte, cento metri prima di quel parcheggio però il camion esplose 
    e mi sono salvato solo perché Allah lo ha voluto».
    «Credi che abbiano voluto ucciderti?», chiede l’intervistatore 
    della tv, un giornalista in completo da sceicco saudita. 
    «Non posso giurarci – è la laconica risposta – ma 
    quello che è accaduto parla da solo». Nel resto del filmato che 
    si può agevolmente vedere su Memri con i sottotitoli in inglese in 
    una perfetta traduzione dall’arabo, il ragazzo diventa uno spot vivente 
    contro il jihad e il cinismo di chi lo ha reclutato e portato oltre confine 
    su un camion con i documenti taroccati trattenuti dal reclutatore, un po’ 
    come fanno in Italia coloro che operano nel campo della tratta delle prostitute 
    dell’Est europeo o dell’Africa centrale. Un business fare il capo 
    della resistenza (mukauama), un business fare il terrorismo. 
    Un problema, sta diventando invece, trovare quella carne da jihad che alcuni 
    sostengono inflazionata. O almeno così amano credere.
    I commentatori prezzemolini alla Sergio Romano fiduciosi che la causa terzomondista 
    sia sempre incinta e innumerevoli i giovani disposti a immolarsi contro l’America 
    e Israele.
    E invece tutti i fenomeni hanno dei limiti, o meglio degli apici dopo i quali 
    le parabole del consenso imboccano la discesa.
    Tanto che le organizzazioni del settore adesso devono ricorrere non solo all’indottrinamento 
    via Internet e al reclutamento, ma a vere e proprie campagne pubblicitarie 
    in cui spesso vengono montati filmati di quindici minuti che riprendono gli 
    ultimi attentati con voci narranti che vendono il tutto come «i progressi 
    della guerra santa nella lotta all’invasore americano e sionista». 
    Sul modello di quanto avveniva negli anni Sessanta e Settanta in certi cineclub 
    dove veniva proiettata la propaganda maoista e marx-leninista sul Vietnam 
    e le guerriglie sudamericane. I metodi sono gli stessi, solo il fanatismo 
    islamico sembrava non avere confini. Almeno fino al diffondersi di queste 
    confessioni di reduci miracolati in diretta tv che in Arabia Saudita sono 
    diventate il pane quotidiano con cui il regime contrasta l’arruolamento 
    per la guerra santa.
 Integrismo 
    ed integralismo
 
    Integrismo 
    ed integralismo
Abdallah 
    bin Al Mohsem al Turki, saudita e segretario della Lega musulmana mondiale, 
    che è stato anche in visita ufficiale in Italia nelle prime due settimane 
    di maggio, ha dimostrato in proposito che gli obbiettivi del regime di Ryad 
    sono ambiziosi anche più della persona chiamata a realizzarli per veloci 
    passi.
    Al Turki e i suoi referenti nel mondo islamico si chiedono da tempo perché 
    non sia possibile separare il ritorno a un integrismo religioso, che in questo 
    momento storico caratterizza tutti e tre (anzi quattro se ci mettiamo anche 
    i sikh) i maggiori monoteismi esistenti. Se in Italia va di moda Buttiglione, 
    se i cattolici tifano per Papa Ratzinger e i laici devoti come il presidente 
    del Senato Marcello Pera ci fanno anche i libri insieme, se a Londra e a Berlino 
    i sikh danno battaglia per non mettere il casco in motocicletta sopra il turbante, 
    se l’ebraismo ortodosso riesce a mettere in crisi i piani di pace di 
    Sharon, non si capisce perché solo l’integrismo musulmano debba 
    essere accomunato nell’immaginario della gente al terrorismo. 
    O meglio, purtroppo si vede benissimo: di fatto l’integralismo musulmano 
    sunnita degli ultimi venti anni, gravemente inquinato dal marxismo e dai metodi 
    della lotta armata leninista, è qualcosa che sta distruggendo la stessa 
    identità degli islamici oltre a snaturare per fini geopolitici la predicazione 
    di Muhammad. Tutto ciò in Arabia Saudita, cioè nel centro della 
    predicazione islamo-sunnita mondiale, si è deciso che deve finire. 
    A ogni costo. Nei paesi arabi ma anche tra la gente della umma immigrata in 
    Occidente. 
    E i metodi con cui si vuole comunicare questa nuova determinazione saranno 
    tanto semplici quanto spietati: verrà denunciato alle autorità 
    giudiziarie tutto ciò che sa di propaganda anche solo ideologica a 
    favore del terrorismo. Non più sceicchi fai da te quindi, né 
    traduzioni del Corano come quella di Hamza Piccardo dell’ucoii in Italia. 
    Peraltro tradotto dal francese e integrato con i testi tradotti dall’arabo 
    da altri, non da lui che ne conosce poche parole.
    Per questo è stato molto importante per Al Turki convincere le autorità 
    italiane prima, e quelle europee poi, che gli unici interlocutori che possono 
    parlare a nome dell’islam sono loro, i sauditi, che monopolizzano di 
    fatto la Muslim World League. E la strategia adottata è stata quella 
    del sorriso. E Al Turki, che dimostra più dei propri 65 anni, ha un 
    sorriso molto rassicurante incorniciato da una barba bianca che comunica più 
    saggezza che integralismo.
 Le 
    dritte ai servizi italiani
 
    Le 
    dritte ai servizi italiani
Dall’intelligence 
    saudita sono arrivate di conseguenza le dritte che hanno consentito ai nostri 
    apparati di sicurezza di stilare l’ultima relazione semestrale sulla 
    sicurezza e precisamente quel capitolo dedicato ai nostri home made kamikaze 
    con un occhio di riguardo a quei convertiti italiani all’islam che sono 
    diventati più fanatici di quelli originali non autoctoni.
    Che ruolo hanno alcuni convertiti italiani all’Islam nel reclutamento 
    dei kamikaze che si vanno a fare esplodere in Iraq e nel dirottamento di ingenti 
    fondi raccolti nelle moschee fai da te a favore delle varie formazioni di 
    terrorismo islamico in tutto il mondo? Una delle domande più inquietanti 
    che si pongono gli uomini del sismi e del sisde, cioè i servizi segreti 
    italiani, militari e civili, e che traspare chiara come il sole dalla 55a 
    relazione mandata alla Presidenza del Consiglio tramite il cesis e poi trasmessa 
    al Parlamento, è proprio quella che quasi tutti i giornalisti italiani, 
    tranne Magdi Allam sul Corriere, hanno evitato di farsi: in Italia chi li 
    aiuta a questi terroristi?
    Leggiamo questa nota presa da un rapporto del sisde sui movimenti di estrema 
    destra: «Attenzione è stata dedicata al fervore propagandistico 
    di ambienti dell’oltranzismo che mostrano sintonie e contiguità 
    ideologiche con personaggi iracheni, in nome di un orientamento marcatamente 
    antistatunitense. L’attivismo propagandistico anti usa ed antisionista 
    ha qualificato le iniziative della destra radicale di impronta antimondialista, 
    impegnata a ricercare collegamenti con ambienti sciiti in Italia e all’estero, 
    nonché con componenti impegnate sul fronte revisionista e negazionista 
    dell’Olocausto. Da sottolineare, in proposito, gli episodi di antisemitismo 
    in occasione della Giornata della Memoria, tradottisi in gesti intimidatori 
    e scritte inneggianti al nazismo».
    Gli ambienti sciiti a cui si fa riferimento in realtà sono quelli iraniani 
    e iracheni, abbondantemente infiltrati dagli emissari della polizia politica 
    di Teheran. 
    In Italia dispongono di soldi e solide basi e hanno anche una mailing list 
    in cui distribuiscono materiale propagandistico anti-americano e anti-israeliano.
    Ad avviso del sismi, inoltre, sono elevati i rischi che attraverso i canali 
    dell’immigrazione clandestina possa lievitare la presenza nei Paesi 
    europei di militanti dell’estremismo islamico. Ipotesi, questa, alla 
    costante attenzione anche in sede di interscambio con i Servizi esteri, per 
    gli evidenti profili d’interesse sul piano dell’antiterrorismo. 
    Per quel che concerne le modalità di ingresso nel nostro paese, da 
    stime recenti sui dati raccolti in ordine al totale dei clandestini rintracciati 
    in Italia nel corso del 2004 emerge che quelli giunti via mare erano il 4 
    per cento del totale, rispetto alla percentuale degli stranieri che hanno 
    attraversato fraudolentemente le nostre frontiere e a quella dei cosiddetti 
    overstayers, cioè di quanti sono entrati con regolare titolo, permanendo 
    entro i nostri confini alla scadenza dello stesso.
    Spesso le anime no global, di destra e di sinistra e quelle islamiste, si 
    incontrano in pseudo ong o strane sette.
    Ad esempio vine citato il “movimento missionario internazionale Tabligh 
    Eddawa”. Ecco cosa si legge: «Il movimento mostra caratteri di 
    compartimentazione e segretezza affini a quelli delle sette e figura spesso 
    quale “prima affiliazione” di diversi estremisti individuati a 
    livello internazionale». 
    Secondo quanto segnalato dal sisde, nel corso di recenti incontri, «sarebbero 
    stati costituiti, a livello regionale e nazionale, nuovi gruppi di predicatori 
    itineranti, all’interno dei quali verrebbero selezionati elementi da 
    inviare nelle madrasse del sub-continente indiano. In ragione del citato raccordo 
    con contesti e strutture a forte connotazione radicale, il gruppo resta alla 
    particolare attenzione quale possibile veicolo per la cooptazione di militanti 
    ed in quanto impiegabile come copertura per gli spostamenti e le attività 
    di finanziamento e supporto logistico». «In un’ottica intesa 
    a coprire tutti i possibili focolai di attività controindicate di matrice 
    confessionale – proseguono le note congiunte di sismi e sisde – 
    non si è mancato di seguire anche l’associazionismo sciita. In 
    quest’ambito, è di interesse quanto rilevato in ordine all’ascesa 
    di una nuova leadership di convertiti italiani, per lo più accomunati 
    da una trascorsa militanza nella destra estrema.»
 Epilogo
 
    Epilogo
Il 
    Jihad, o meglio la sua ideologia intesa come terrorismo islamico, oggi mostra 
    la corda e proprio per questo è più pericoloso e gli attentati 
    sono così devastanti: è il canto del cigno del terrorismo islamico. 
    E, come quello brigatista in Italia, che durò ben quattro anni dopo 
    le confessioni di Peci e Savasta e le conseguenti retate, può fare 
    ancora molto, ma molto male. Però ideologicamente è finito. 
    Sta finendo.
    Il vero problema adesso si sposta in Europa e segnatamente in Italia. A scoppio 
    ritardato può nascere una generazione di quelli che Magdi Allam chiama 
    “kamikaze fatti in casa”. Non più arabo-islamici, ma europei 
    convertiti, gente che cavalca l’islam fanatico solo per essere contro 
    lo Stato e il sistema dell’Occidente, profeti neo-kantiani dell’eversione 
    per l’eversione. Gente molto incoraggiata dalla distorta percezione 
    che i media hanno del fenomeno del terrorismo islamico, in una tragica oscillazione 
    tra il buonismo acquiescente e il giustificazionismo terzomondista.
    In un continente dove si scambiano le sacrosante invettive della Fallaci per 
    incitamenti all’odio e si sottace su chi l’odio come il segretario 
    dell’ucoii Hamza Piccardo in Italia lo predica veramente, dichiarando 
    ad esempio, in un’intervista a Panorama, che Israele non ha diritto 
    a esistere, purtroppo ancora tutto è possibile. Persino un nuovo apporto 
    linfatico a un fenomeno ideologicamente morente come il jihadismo terroristico.
     
  Dimitri Buffa, giornalista de L’opinione, si occupa di politica estera 
    e in particolare di Israele e Medio Oriente.
 
    Dimitri Buffa, giornalista de L’opinione, si occupa di politica estera 
    e in particolare di Israele e Medio Oriente.
    
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