Jihad, l'inizio della fine
di Dimitri Buffa
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

I nostri media italiani ed europei si guardano bene dal riportarlo, perché prevale l’ottica punitiva contro le potenze anglo americane e i loro leader che hanno promosso la guerra in Iraq, ma il ciclo del jihad terroristico, dopo avere raggiunto un tragico apice, sembra essere entrato nella fase calante. Anzi morente.
Non è vero che il mondo arabo sia pieno di centinaia di migliaia di potenziali martiri suicidi. Anzi sembra esatto il contrario: chi si arruola oggi per andare a combattere in Iraq spesso ritorna a casa con le pive nel sacco. Deluso, confuso e frastornato da quanto visto in loco che non corrisponde affatto, nella maggior parte dei casi, a quanto ci si attendeva di trovare. Quasi tutti i giovani che vengono poi intervistati dalle tv del paese d’origine, giordano, siriano o saudita che sia, una volta che, più o meno miracolosamente, siano riusciti a farvi ritorno dall’Iraq, descrivono una realtà di cellule chiuse, di contatti umani ridotti al minimo, di compartimentazioni stagne tra cellule del jihad e di avventure consumate tra le mura di una stanzetta insieme al Corano e a un po’ di cibo.
Il paese che sta constatando questo fenomeno sociale e sociologico nella maniera più devastante è l’Arabia Saudita. Ritenuta non a torto come uno dei primi motori immobili del terrorismo islamico, l’ideologia wahabita adesso sta cambiando registro. Basta con l’illusione di convertire gli infedeli, restiamocene sicuri a casa nostra a fare gli “integristi” del verbo maomettano, piuttosto che gli integralisti di un improbabile califfato universale.
Gli imam nelle moschee adesso predicano di non andare a fare gli utili idioti in Iraq facendosi esplodere in nome di un’eresia di fanatismo. E anche i loro colleghi iracheni, nelle moschee sunnite e sciite, li imitano in questa clamorosa marcia indietro. Da dove viene allora il nuovo proselitismo, il nuovo fanatismo e tutto ciò che ancora sostiene i disperati colpi di coda di un terrorismo che, come già quello marx-leninista delle br e dei gruppi europei che fecero la lotta armata negli anni Settanta, proprio nel momento che compie il massimo sforzo per uccidere con ripetuti attentati sempre più devastanti dimostra i primi inesorabili segni dell’inizio della sua fine?
Il jihad oggi è quello degli “effetti speciali”, con un suo telegiornale internettiano jihadista “Sout al kilafa”, la voce del califfato, che procede con spot in cui vengono fatti vedere gli ultimi attentati filmati intervallati da musiche arabe d’ambiente e da proclami che ricordano quelli di Mastro Lindo quando promette alle casalinghe che lo sporco verrà sconfitto inesorabilmente.
Niente più passi coranici da citare, perché i veri dotti, opportunamente redarguiti dai regnanti sauditi, hanno già provveduto a esorcizzarli su Al Jazeera. Niente più appeal di santità, il terrorismo ormai recluta i giovani per moda e li inganna. Magari mandandoli a morire ammazzati su un camion pieno di esplosivo a loro completa insaputa.
Segno che l’arruolamento di martiri volontari potrebbe ormai essere al lumicino.

Il caso del martire figlio di papà Ahmad Al Shaye’

Uno dei casi più clamorosi in tal senso è quello di Ahmad Al-Shaye’, un giovane saudita salvatosi miracolosamente dal tafgyr (esplosione) che fece saltare il camion che lui conduceva nella zona di Ramadi nei primi mesi del 2005.
Il ragazzo, di buona famiglia, avvicinatosi al jihadismo solo negli ultimi tre anni della propria vita, dopo non essere nemmeno mai stato un buon musulmano, ha raccontato la sua incredibile storia di “shaheed truffato” alla tv saudita Al Majid il 18 settembre scorso, e ci fosse stato un dannato giornale europeo che avesse riportato le sue parole.
Al Shaye’, che ha perso tre dita della mano destra nell’“incidente”, come lo chiama lui nell’intervista, venne catturato dopo il fallito attacco suicida e tenuto qualche mese in prigione in Iraq, poi le autorità saudite, su pressione del padre che era un uomo influente a Riyad, riuscirono a ottenere l’estradizione per riportarselo a casa.
E pare che anche questo sia un fenomeno di massa nel regno di Abdallah: tutti i figli di papà che vanno a fare il jihad in Iraq e che non ci lasciano le penne diventano un problema diplomatico per l’Arabia Saudita che deve andare a riprenderseli sul fronte iracheno.
La storia raccontata da Al Shaye’ è semplice: «credevo di andare in un fronte di guerra dove da una parte c’erano tutti i buoni musulmani come me e dall’altra gli infedeli americani, ma presto ho potuto accorgermi che questo non era vero... non potevo però fare domande, stavo tutto il giorno in casa e dovevo chiedere il permesso per qualunque necessità, andarsene via non era contemplato e un bel giorno mi hanno chiesto se ero disposto a fare lo shaheed suicida e risposi semplicemente di no... allora mi dissero di portare un camion da un posto all’altro a una distanza di poco più di un chilometro e mi pregarono di parcheggiarlo da una parte, cento metri prima di quel parcheggio però il camion esplose e mi sono salvato solo perché Allah lo ha voluto».
«Credi che abbiano voluto ucciderti?», chiede l’intervistatore della tv, un giornalista in completo da sceicco saudita.
«Non posso giurarci – è la laconica risposta – ma quello che è accaduto parla da solo». Nel resto del filmato che si può agevolmente vedere su Memri con i sottotitoli in inglese in una perfetta traduzione dall’arabo, il ragazzo diventa uno spot vivente contro il jihad e il cinismo di chi lo ha reclutato e portato oltre confine su un camion con i documenti taroccati trattenuti dal reclutatore, un po’ come fanno in Italia coloro che operano nel campo della tratta delle prostitute dell’Est europeo o dell’Africa centrale. Un business fare il capo della resistenza (mukauama), un business fare il terrorismo.
Un problema, sta diventando invece, trovare quella carne da jihad che alcuni sostengono inflazionata. O almeno così amano credere.
I commentatori prezzemolini alla Sergio Romano fiduciosi che la causa terzomondista sia sempre incinta e innumerevoli i giovani disposti a immolarsi contro l’America e Israele.
E invece tutti i fenomeni hanno dei limiti, o meglio degli apici dopo i quali le parabole del consenso imboccano la discesa.
Tanto che le organizzazioni del settore adesso devono ricorrere non solo all’indottrinamento via Internet e al reclutamento, ma a vere e proprie campagne pubblicitarie in cui spesso vengono montati filmati di quindici minuti che riprendono gli ultimi attentati con voci narranti che vendono il tutto come «i progressi della guerra santa nella lotta all’invasore americano e sionista». Sul modello di quanto avveniva negli anni Sessanta e Settanta in certi cineclub dove veniva proiettata la propaganda maoista e marx-leninista sul Vietnam e le guerriglie sudamericane. I metodi sono gli stessi, solo il fanatismo islamico sembrava non avere confini. Almeno fino al diffondersi di queste confessioni di reduci miracolati in diretta tv che in Arabia Saudita sono diventate il pane quotidiano con cui il regime contrasta l’arruolamento per la guerra santa.

Integrismo ed integralismo

Abdallah bin Al Mohsem al Turki, saudita e segretario della Lega musulmana mondiale, che è stato anche in visita ufficiale in Italia nelle prime due settimane di maggio, ha dimostrato in proposito che gli obbiettivi del regime di Ryad sono ambiziosi anche più della persona chiamata a realizzarli per veloci passi.
Al Turki e i suoi referenti nel mondo islamico si chiedono da tempo perché non sia possibile separare il ritorno a un integrismo religioso, che in questo momento storico caratterizza tutti e tre (anzi quattro se ci mettiamo anche i sikh) i maggiori monoteismi esistenti. Se in Italia va di moda Buttiglione, se i cattolici tifano per Papa Ratzinger e i laici devoti come il presidente del Senato Marcello Pera ci fanno anche i libri insieme, se a Londra e a Berlino i sikh danno battaglia per non mettere il casco in motocicletta sopra il turbante, se l’ebraismo ortodosso riesce a mettere in crisi i piani di pace di Sharon, non si capisce perché solo l’integrismo musulmano debba essere accomunato nell’immaginario della gente al terrorismo.
O meglio, purtroppo si vede benissimo: di fatto l’integralismo musulmano sunnita degli ultimi venti anni, gravemente inquinato dal marxismo e dai metodi della lotta armata leninista, è qualcosa che sta distruggendo la stessa identità degli islamici oltre a snaturare per fini geopolitici la predicazione di Muhammad. Tutto ciò in Arabia Saudita, cioè nel centro della predicazione islamo-sunnita mondiale, si è deciso che deve finire. A ogni costo. Nei paesi arabi ma anche tra la gente della umma immigrata in Occidente.
E i metodi con cui si vuole comunicare questa nuova determinazione saranno tanto semplici quanto spietati: verrà denunciato alle autorità giudiziarie tutto ciò che sa di propaganda anche solo ideologica a favore del terrorismo. Non più sceicchi fai da te quindi, né traduzioni del Corano come quella di Hamza Piccardo dell’ucoii in Italia. Peraltro tradotto dal francese e integrato con i testi tradotti dall’arabo da altri, non da lui che ne conosce poche parole.
Per questo è stato molto importante per Al Turki convincere le autorità italiane prima, e quelle europee poi, che gli unici interlocutori che possono parlare a nome dell’islam sono loro, i sauditi, che monopolizzano di fatto la Muslim World League. E la strategia adottata è stata quella del sorriso. E Al Turki, che dimostra più dei propri 65 anni, ha un sorriso molto rassicurante incorniciato da una barba bianca che comunica più saggezza che integralismo.

Le dritte ai servizi italiani

Dall’intelligence saudita sono arrivate di conseguenza le dritte che hanno consentito ai nostri apparati di sicurezza di stilare l’ultima relazione semestrale sulla sicurezza e precisamente quel capitolo dedicato ai nostri home made kamikaze con un occhio di riguardo a quei convertiti italiani all’islam che sono diventati più fanatici di quelli originali non autoctoni.
Che ruolo hanno alcuni convertiti italiani all’Islam nel reclutamento dei kamikaze che si vanno a fare esplodere in Iraq e nel dirottamento di ingenti fondi raccolti nelle moschee fai da te a favore delle varie formazioni di terrorismo islamico in tutto il mondo? Una delle domande più inquietanti che si pongono gli uomini del sismi e del sisde, cioè i servizi segreti italiani, militari e civili, e che traspare chiara come il sole dalla 55a relazione mandata alla Presidenza del Consiglio tramite il cesis e poi trasmessa al Parlamento, è proprio quella che quasi tutti i giornalisti italiani, tranne Magdi Allam sul Corriere, hanno evitato di farsi: in Italia chi li aiuta a questi terroristi?
Leggiamo questa nota presa da un rapporto del sisde sui movimenti di estrema destra: «Attenzione è stata dedicata al fervore propagandistico di ambienti dell’oltranzismo che mostrano sintonie e contiguità ideologiche con personaggi iracheni, in nome di un orientamento marcatamente antistatunitense. L’attivismo propagandistico anti usa ed antisionista ha qualificato le iniziative della destra radicale di impronta antimondialista, impegnata a ricercare collegamenti con ambienti sciiti in Italia e all’estero, nonché con componenti impegnate sul fronte revisionista e negazionista dell’Olocausto. Da sottolineare, in proposito, gli episodi di antisemitismo in occasione della Giornata della Memoria, tradottisi in gesti intimidatori e scritte inneggianti al nazismo».
Gli ambienti sciiti a cui si fa riferimento in realtà sono quelli iraniani e iracheni, abbondantemente infiltrati dagli emissari della polizia politica di Teheran.
In Italia dispongono di soldi e solide basi e hanno anche una mailing list in cui distribuiscono materiale propagandistico anti-americano e anti-israeliano.
Ad avviso del sismi, inoltre, sono elevati i rischi che attraverso i canali dell’immigrazione clandestina possa lievitare la presenza nei Paesi europei di militanti dell’estremismo islamico. Ipotesi, questa, alla costante attenzione anche in sede di interscambio con i Servizi esteri, per gli evidenti profili d’interesse sul piano dell’antiterrorismo. Per quel che concerne le modalità di ingresso nel nostro paese, da stime recenti sui dati raccolti in ordine al totale dei clandestini rintracciati in Italia nel corso del 2004 emerge che quelli giunti via mare erano il 4 per cento del totale, rispetto alla percentuale degli stranieri che hanno attraversato fraudolentemente le nostre frontiere e a quella dei cosiddetti overstayers, cioè di quanti sono entrati con regolare titolo, permanendo entro i nostri confini alla scadenza dello stesso.
Spesso le anime no global, di destra e di sinistra e quelle islamiste, si incontrano in pseudo ong o strane sette.
Ad esempio vine citato il “movimento missionario internazionale Tabligh Eddawa”. Ecco cosa si legge: «Il movimento mostra caratteri di compartimentazione e segretezza affini a quelli delle sette e figura spesso quale “prima affiliazione” di diversi estremisti individuati a livello internazionale».
Secondo quanto segnalato dal sisde, nel corso di recenti incontri, «sarebbero stati costituiti, a livello regionale e nazionale, nuovi gruppi di predicatori itineranti, all’interno dei quali verrebbero selezionati elementi da inviare nelle madrasse del sub-continente indiano. In ragione del citato raccordo con contesti e strutture a forte connotazione radicale, il gruppo resta alla particolare attenzione quale possibile veicolo per la cooptazione di militanti ed in quanto impiegabile come copertura per gli spostamenti e le attività di finanziamento e supporto logistico». «In un’ottica intesa a coprire tutti i possibili focolai di attività controindicate di matrice confessionale – proseguono le note congiunte di sismi e sisde – non si è mancato di seguire anche l’associazionismo sciita. In quest’ambito, è di interesse quanto rilevato in ordine all’ascesa di una nuova leadership di convertiti italiani, per lo più accomunati da una trascorsa militanza nella destra estrema.»

Epilogo

Il Jihad, o meglio la sua ideologia intesa come terrorismo islamico, oggi mostra la corda e proprio per questo è più pericoloso e gli attentati sono così devastanti: è il canto del cigno del terrorismo islamico. E, come quello brigatista in Italia, che durò ben quattro anni dopo le confessioni di Peci e Savasta e le conseguenti retate, può fare ancora molto, ma molto male. Però ideologicamente è finito. Sta finendo.
Il vero problema adesso si sposta in Europa e segnatamente in Italia. A scoppio ritardato può nascere una generazione di quelli che Magdi Allam chiama “kamikaze fatti in casa”. Non più arabo-islamici, ma europei convertiti, gente che cavalca l’islam fanatico solo per essere contro lo Stato e il sistema dell’Occidente, profeti neo-kantiani dell’eversione per l’eversione. Gente molto incoraggiata dalla distorta percezione che i media hanno del fenomeno del terrorismo islamico, in una tragica oscillazione tra il buonismo acquiescente e il giustificazionismo terzomondista.
In un continente dove si scambiano le sacrosante invettive della Fallaci per incitamenti all’odio e si sottace su chi l’odio come il segretario dell’ucoii Hamza Piccardo in Italia lo predica veramente, dichiarando ad esempio, in un’intervista a Panorama, che Israele non ha diritto a esistere, purtroppo ancora tutto è possibile. Persino un nuovo apporto linfatico a un fenomeno ideologicamente morente come il jihadismo terroristico.

Dimitri Buffa, giornalista de L’opinione, si occupa di politica estera e in particolare di Israele e Medio Oriente.

(c) Ideazione.com (2006)
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