La storia racconterà che fu un generale israeliano il fondatore dello
Stato palestinese. Perché nella terra dei paradossi mediorientali
succede anche questo. Accade che il premier israeliano Ariel Sharon metta
in atto una strategia ferma, giusta ed efficace di contrasto, per quanto
possibile, al terrorismo, creando però – attraverso il ritiro
unilaterale da Gaza, come primo passo e primo test per un futuro disimpegno
pure dalla Cisgiordania – anche una prospettiva politica per i palestinesi,
che ora si ritrovano con la piena sovranità su un tratto della loro
terra e con un confine, il valico di Rafah, sotto il loro diretto controllo.
Ma nel fondare, indirettamente, l’embrione del futuro Stato palestinese,
Ariel Sharon sta rifondando anche la politica israeliana, con la nascita
di un partito “Kadima” (Avanti) che raccoglie leader e militanti
e consensi a destra, a sinistra e al centro.
Dopo il no arafattiano a Camp David e la seconda Intifada palestinese, da
leader del Likud Sharon ha proposto al suo paese un piano chiaro basato
su principi netti e azioni concrete: nessuna trattativa sotto le bombe,
operazioni militari contro le reti e le basi di Hamas e dintorni, barriera
di difesa per fermare le infiltrazioni terroristiche, uccisioni e arresti
mirati dei leader dei gruppi armati del jihad, ritiro unilaterale da Gaza.
Per ora, con tutti i rischi e i pericoli e i costi in viste umane propri
di una zona di guerra a bassa (e a volte alta) intensità, ha funzionato,
magari anche grazie al fatto che non arrivano più i lauti assegni
di Saddam Hussein per le famiglie dei kamikaze che si immolano per uccidere
ragazzi israeliani in un ristorante di Gerusalemme. Ma per far funzionare
il suo piano il premier ha dovuto rivoluzionare molte delle idee sue, dell’opinione
pubblica israeliana e soprattutto del suo vecchio partito. Il principio
non è più – dopo il rifiuto della mediazione Clinton
da parte di Yasser Arafat non poteva più esserlo – “pace
in cambio di territori”, ma “sicurezza per arrivare alla pace”.
Ispirandosi a questo criterio, Sharon ha più volte detto che Israele
avrebbe dovuto e sta già facendo “dolorose concessioni”.
Il suo partito fino a un certo punto lo ha seguito, ma poi il rivoluzionario
Sharon ha capito che un cambiamento siffatto di prospettiva chiamava anche
un nuovo scenario politico in Israele, soprattutto in vista delle elezioni
anticipate alla fine di marzo del 2006. Anche perché a sinistra,
in gran parte della sinistra, non veniva offerta alcuna alternativa alla
nuova strategia sharoniana, anzi si faceva sempre più forte l’idea
che il piano del premier fosse l’unico possibile, il piano giusto.
La sicurezza, il ritiro, la pace, in quest’ordine e con questa determinazione.
Ecco che cosa hanno condiviso con il premier molti degli esponenti del Likud
che lo hanno seguito in Kadima. Ecco su che cosa anche il premio Nobel Shimon
Peres è stato d’accordo con Sharon, al punto di entrare nel
suo partito. Ecco che cosa ha attratto perfino il partito più pacifista
e più legato al processo di Oslo, cioè il Meretz di Yossi
Beilin, pronto a considerare la scelta di entrare in una futura coalizione
con Kadima. Opportunità che dovrà prima o poi vagliare anche
il partito laico e nazionalista e liberista Shinui, che si vede un po’
in imbarazzo di fronte a una nuova forza politica come quella di Sharon
che forse non può essere definita di centro, ma comunque quella zona
del campo occupa e occuperà in futuro. Il Likud (quel che ne resta
dopo la fuoriuscita di Sharon e dei molti sharoniani) un po’ è
rimasto legato al sogno della Grande Israele e un po’ ha preferito
continuare a parlare soltanto di sicurezza, non volendo nemmeno immaginare
ulteriori ritiri unilaterali. I laburisti, invece, hanno per ora saputo
scegliere soltanto – e comunque, visti i loro recenti travagli interni
non è poco – un nuovo leader, il sindacalista baffuto e robusto
di personalità Amir Peretz, ma sono ancora alla spasmodica ricerca
di un’idea, di una visione alternativa a quella di Sharon. Così
ora i sondaggi (e presto gli elettori) danno ragione a Kadima, mentre Israele
sta per avere uno scenario politico completamente rivoluzionato dalle rivoluzioni
politiche e strategiche del suo premier. Così ora la stampa internazionale,
le diplomazie di tutto il mondo, perfino la sinistra europea sono costrette
a rivedere i loro giudizi sul bulldozer Arik. Così ora i paesi arabi
hanno sempre meno alibi per disinteressarsi della causa palestinese, addossando
tutte le colpe al piccolo Satana israeliano. Così ora i palestinesi
sono di fronte alla prova decisiva: hanno la possibilità, intanto
a Gaza ma poi anche in Cisgiordania, di dimostrare di saper governare l’embrione
del loro Stato, di voler combattere il terrorismo, di desiderare una democrazia
che viva in pace a fianco alla democrazia israeliana.
Il presidente palestinese Abu Mazen per ora fa poco perché poco può
fare, ma il tempo stringe. È suo interesse, è interesse del
suo popolo disarmare Hamas e dintorni, e in questo Israele con le operazioni
anti-terrore e le uccisioni mirate del recente passato gli ha dato un oggettivo
aiuto. È suo compito ripulire il proprio partito, al Fatah, dalle
corruzioni finanziarie e terroristiche. Il sostegno degli Stati Uniti per
ora al rais non manca, ma non è più tempo di rais tentenna.
Il Medio Oriente sta cambiando a velocità inimmaginabili, grazie
anche alla strategia dell’amministrazione Bush. Israele si trasforma
e si sta preparando, politicamente e culturalmente, ad accogliere la nascita
del vicino Stato palestinese. Qualche paese arabo, come l’Egitto e
la Giordania, inizia a capire che è giunto il momento di far qualcosa
per il bene dei suoi fratelli. L’Europa non ha mai fatto venir meno
il suo sostegno alla causa palestinese, fino anche a punte eccessive di
incrostazioni diplomatiche sulla messa fuori legge (poi decisa) di Hamas
e (non ancora decisa) di Hezbollah e di rivoli finanziari finiti chissà
dove nelle tasche del jihad.
Ci sono le condizioni perché l’Autorità nazionale palestinese
di Abu Mazen inizi a fare quei passi che l’Israele di Sharon finora
è stato costretto a fare da solo.
Daniele Bellasio,
vicedirettore de Il Foglio, si occupa di politica estera e Medio Oriente
(c)
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