Dalla scienza alla storia
di Dario Antiseri
Ideazione di gennaio-febbraio 2006

Dare una spiegazione causale di un evento significa dedurre un’asserzione che lo descrive, usando come premesse una o più leggi universali, insieme con alcune asserzioni singolari dette condizioni iniziali. Per esempio, possiamo dire di aver dato una spiegazione causale della rottura di un certo pezzo di filo se abbiamo trovato che il filo ha una resistenza alla trazione di 1/2 Kg, ed è stato caricato con un peso di 1 Kg. Se analizziamo questa spiegazione causale, troveremo che consta di diverse parti costituenti. Da una parte abbiamo l’ipotesi: “Un filo si rompe tutte le volte che viene caricato con un peso che supera il peso che definisce la resistenza alla trazione di quel filo”, e questa è un’asserzione che ha il carattere di una legge universale di natura. Dall’altra parte abbiamo certe asserzioni singolari (in questo caso due) che sono vere soltanto per l’evento specifico in questione: “Il carico di rottura di questo filo è 1/2 Kg”, e “Il peso con cui è stato caricato questo filo è 1 Kg”». Questa dunque è, scriveva Popper nel 1934, la struttura di una spiegazione causale. In una spiegazione causale «abbiamo [...] due differenti tipi di asserzioni che sono entrambi ingredienti necessari di una spiegazione causale completa. Esse sono: 1) asserzioni universali: cioè ipotesi che hanno il carattere di leggi di natura e 2) asserzioni singolari, che valgono per l’esempio specifico in questione e che chiamerò “condizioni iniziali”. Dalle asserzioni universali, insieme con le condizioni iniziali, deduciamo l’asserzione singolare: “questo filo si romperà”. Diciamo che questa asserzione è una predizione specifica, o singolare».
Spiegare causalmente un fenomeno significa individuare quell’evento o quegli eventi che, tolti (dov’è possibile) proibiscono l’accadimento di tale fenomeno, e che posti (dov’è possibile), invece, lo producono. Ora, però, come faremo ad individuare, tra gli infiniti fatti del mondo, quell’evento (o quegli eventi) che costituisce (o costituiscono) la causa (o le cause) del fatto da spiegare? Ebbene, senza andare troppo per le lunghe, c’è subito da notare che un evento può essere detto causa di un altro solo in relazione ad una legge. Ecco perché è fondamentale la ricerca delle leggi: senza leggi [...] non c’è spiegazione né previsione. Sono le leggi a legare universalmente tra di loro i fatti. In realtà, dice Popper, dall’analisi della spiegazione causale possiamo ricavare più d’una considerazione.
La prima di queste considerazioni è che «non possiamo mai parlare di causa ed effetto in modo assoluto, ma che un evento è causa di un altro evento, che ne è l’effetto, solo in relazione a qualche legge universale. Tuttavia, queste leggi universali sono molto spesso così ovvie (come nel nostro esempio) che di norma le accettiamo come vere invece di farne un uso cosciente».
Una seconda considerazione è che «una simile spiegazione causale, naturalmente, sarà accettabile dal punto di vista scientifico soltanto se le leggi universali saranno state ben sperimentate e corroborate, e se avremo degli indizi indipendenti della causa descritta dalle condizioni iniziali». La teoria esplicativa, cioè, non deve essere ad hoc. Una terza considerazione è che «l’impiego di una teoria al fine di predire qualche evento specifico non è altro che un particolare aspetto del suo impiego al fine di spiegare l’evento stesso. E poiché noi controlliamo una teoria mettendo a confronto gli eventi predetti con quelli effettivamente osservati, la nostra analisi mostra anche come le teorie possono essere controllate. Il fatto che si usi una teoria al fine di spiegazione o di predizione o di controllo dipende dal nostro interesse e dal genere di proposizioni che prendiamo come date o presupposte».
In altri termini, possiamo avere interesse a provare una teoria proposta per risolvere un qualche problema. Oppure, data una teoria che già ha fornito buona prova di sé, possiamo essere interessati ad usarla a scopi di spiegazione di qualche fatto problematico accaduto, o ad usarla a scopi di previsione di un qualche evento o fatto. Ebbene, le scienze generalizzanti (o pure o teoriche) si preoccupano delle leggi universali, della loro prova; così è per i fisici, i biologi, i sociologi, i linguisti, gli psicologi, eccetera, i quali fanno scienza pura se trovano e provano leggi fisiche, fisiologiche, sociologiche, eccetera. Ma un ingegnere, per esempio, non si preoccupa delle leggi della fisica: egli prende le leggi dalla fisica e le usa a scopi di previsione. E siamo qui nel campo delle scienze tecnologiche. Se, però, l’evento non è da prevedere, ma da spiegare, allora lo scienziato usa le leggi, prese dalle discipline teoriche, e fa storia. In breve, il teorico è interessato alla prova delle leggi; il tecnologo prevede in base alle leggi, date certe condizioni, l’accadere di un evento; lo storico, dato un evento, ricostruisce, in base a leggi, le condizioni o cause che hanno portato all’evento accaduto. [...]

La funzione delle leggi generali nella storia

Anche lo storico spiega. Spiega causalmente fatti ed eventi. Anzi, come ha scritto E.H. Carr, «uno storico è noto per le cause a cui si richiama». Ed è chiaro, per ragioni logiche, che se uno storico offre una spiegazione causale, egli ha presupposto – implicitamente o esplicitamente – una legge causale: difatti, se non presupponesse una legge causale, non potrebbe affatto dire che un certo evento è causa del fatto che egli ha voluto spiegare. Scrive Gaetano De Sanctis nella Storia dei Romani: «Terminata la guerra [coi Latini] ebbero i Romani ad avvisare alla maniera di tenere coi vinti [...] era indispensabile giovarsi come e più di prima delle energie inesauribili della stirpe latina nelle lotte che era facile prevedere con Sanniti, Etruschi e Galli. Or qui stava la difficoltà: perché non si possono aspreggiare senza pericolo coloro cui si chiede, e in larga misura, il tributo di sangue. Questo dà ragione della relativa mitezza che i Romani usarono verso il Lazio, ben diversa dalla sistematica crudeltà con cui oppressero quei nemici onde il tributo di sangue non si pretese».
Vediamo qui, innanzi tutto, che De Sanctis inciampa in un vero e proprio problema da risolvere. Egli conosce (in base ad altri documenti e testimonianze) la sistematica crudeltà dei Romani verso i loro nemici. Ma, ecco venir fuori documenti da cui si evince che i Romani furono relativamente miti verso il Lazio. Qui sta, dunque, la contraddizione da eliminare, cioè il problema da risolvere: i Romani furono sistematicamente spietati con gli avversari, e tuttavia non infierirono con i Latini. Come mai? Ebbene, De Sanctis risolve questo problema adducendo come causa il fatto che i Romani avevano bisogno di alleati nelle prossime prevedibili guerre. Ma in base a quale criterio questo fatto ha potere esplicativo nei confronti dell’Explanandum [«I Romani furono relativamente miti verso il Lazio»]? Il criterio c’è ed è la legge (banale) di psicologia sociale secondo cui «non si possono aspreggiare senza pericolo coloro cui si chiede, e in larga misura, il tributo di sangue».
La spiegazione ora analizzata è stata effettuata da De Sanctis dalla prospettiva della teoria psicologica. Ma altre spiegazioni sono possibili e da altre prospettive: quella economica, quella sociologica, ecc. E lo storico, per le sue spiegazioni (sempre prospettiche, perché effettuate sempre dalla prospettiva di una teoria) prende a prestito le leggi o teorie da discipline teoriche quali la psicologia, la sociologia, l’economia, la biologia, eccetera. Le prende a prestito, da ovunque, se gli servono e se esistono. E usa anche (e soprattutto, usava prima, quando non si erano ancora sviluppate le scienze umane) generalizzazioni banali (“triviali”, direbbe Popper) tratte dal linguaggio ordinario, cioè da quello che si chiama “buon senso” o sapere comune. Così, per esempio, se spieghiamo la prima spartizione della Polonia nel 1772, dicendo che la Polonia non avrebbe potuto resistere alle forze unite della Russia, della Prussia e dell’Austria, usiamo tacitamente una qualche ovvia legge come questa: “Se di due eserciti, ugualmente ben armati e guidati, uno ha una stragrande superiorità di uomini, l’altro non può mai vincere”. Una siffatta legge, annota Popper, «si potrebbe chiamarla una legge della sociologia della forza militare; ma essa è troppo ovvia per sollevare un serio problema per gli studiosi di sociologia o per richiamare la loro attenzione».
Si potrebbero addurre ulteriori analisi di altre spiegazioni storiche tratte da autori delle più diverse tendenze. Ma si tratta di cose ormai note. E quel che davvero conta è comprendere che in una spiegazione scientifica, sia essa di fisica o di storia, le leggi sono logicamente necessarie: la loro funzione sta nel legare universalmente quei fatti o eventi che, nella specifica spiegazione, sono la causa e l’effetto. [...]

La molteplicità delle interpretazioni: una ricchezza o una miseria?

Il passato [...] muta con il mutar del presente. O, per essere più esatti, la nostra conoscenza del passato cambia col cambiare dei problemi e delle teorie del presente. A tale riguardo un caratteristico esempio istruttivo è quello subito dall’idea che, nel corso dei tempi, ci si è fatta di Socrate. «Abbiamo – scrive E. Cassirer – il Socrate di Senofonte e quello di Platone, abbiamo un Socrate stoico, scettico, mistico, razionalista e romantico. Sono immagini del tutto diverse, senza essere per questo false: ognuna ci presenta sotto aspetti differenti il Socrate storico, la sua fisionomia intellettuale e morale. Platone vede in Socrate il grande dialettico e il grande maestro di etica; per Montaigne egli fu un filosofo antidogmatico che confessa la propria ignoranza. Friedrich Schlegel e i pensatori del romanticismo tedesco diedero rilievo all’ironia socratica». E quel che vale per Socrate vale per una istituzione, vale per una battaglia, come, per esempio, quella di Azio e pure per Platone. «Abbiamo un Platone mistico, il Platone di neoplatonici; un Platone cristiano, il Platone di Agostino e di Marsilio Ficino; abbiamo un Platone razionalista, il Platone di Moses Mendelssohn, e qualche decennio fa ci era stato presentato persino un Platone kantiano». Tante interpretazioni diverse possono certamente sconcertare. Senonché, annota Cassirer, «in qualche misura, hanno tutte contribuito alla comprensione e alla valutazione sistematica dell’opera di Platone. Ognuna di esse ha fatto cadere l’accento su un certo aspetto presentato da questa opera, aspetto che è potuto venire in rilievo solamente grazie ad un complesso processo intellettuale». E c’è da badare qui a quella che Gadamer ha chiamato la storia degli effetti (Wirkungsgeschichte): un’idea, una teoria, un’opera d’arte, una istituzione hanno spesso conseguenze o effetti che l’autore dell’opera d’arte o l’inventore della teoria non potevano vedere. Per cui l’interprete che legge l’opera ad una certa distanza temporale dalla sua nascita, capisce dell’opera più del suo autore. L’autore di un’opera, dice giustamente Gadamer, è un elemento occasionale. Cosa questa già vista da Kant, il quale, parlando di Platone, ha scritto nella Critica della ragion pura: «Non è per nulla raro che, esaminando le idee espresse da un autore su ciò che ha fatto, ci si accorga di comprenderlo meglio di quanto egli non abbia compreso se stesso. Le sue concezioni non essendo sufficientemente precise, spesso egli ha parlato e perfino pensato in modo contrario alle sue intenzioni».
A questo punto, di fronte alla molteplicità delle interpretazioni che dei fatti del passato si propongono dalla prospettiva di un presente in costante mutamento, qualcuno si chiederà: e quale validità potranno mai avere queste diverse interpretazioni? Non si cade così nel pantano del soggettivismo e del relativismo più spinto, dove ognuno presume di avere ragione? Ebbene, di fronte a queste conclusioni occorre procedere con cautela. Innanzitutto, anche nella storia delle scienze fisiche abbiamo teorie che, via via, si susseguono nel tempo e teorie in contrasto nello stesso tempo sulle stelle, sull’atomo, sulla digestione, sul movimento, il calore, eccetera. Forse per questo il fisico naturalista è un soggettivista o un individuo che sta affondando nel pantano del relativismo? Le teorie fisiche sono relative allo stadio della conoscenza (fatti assodati, strumenti, ipotesi ben controllate, eccetera) raggiunto in un certo periodo; sono relative a questo stato e stadio della conoscenza, ma non soggettive o campate per aria. Parimenti, nella ricerca storica non tutte le ipotesi o interpretazioni hanno lo stesso valore, supposto che siano empiricamente controllabili. Ci sono, infatti, interpretazioni o ipotesi che non sono in armonia con le testimonianze esistenti; esistono ipotesi che per non venir eliminate, vengono sorrette da ipotesi ad hoc; ci sono ipotesi o interpretazioni che non riescono a integrare in un tutto coerente un certo numero di fatti che, invece un’altra ipotesi riesce facilmente a spiegare. Su di un medesimo evento ci sono ipotesi diverse, supportate dai fatti, e tutte possono condividere, anzi possono sostenersi a vicenda parlando di aspetti differenti di quell’evento. E se ci sono ipotesi contraddittorie che tentano di spiegare il medesimo problema, questo non deve scandalizzare nessuno, poiché si tratta di una situazione che può presentarsi anche in fisica. Quando due teorie sono incompatibili, aspettiamo che emergano fatti che possano decidere a favore dell’una o dell’altra o contro tutte e due. Dunque: mutano le teorie sia nella ricerca fisica sia in quella storiografica. Avere a disposizione più teorie che permettano di farci vedere aspetti diversi di un evento, che tentino di scartare le teorie vigenti, non è una miseria, ma una ricchezza. Una ricchezza cui contribuiscono la tenacia e l’intelligenza di una generazione dopo l’altra. [...]

Problemi e congetture

La ricerca scientifica [...] comincia con problemi, e progredisce con la scoperta di problemi più profondi. Problemi da risolvere attraverso la formulazione – l’invenzione – di ipotesi, cioè di congetture o teorie. E quel che vale per la ricerca in fisica o in biologia vale pure per la ricerca storica. «Il fatto è – sentenzia Lucien Febvre – che porre un problema significa esattamente cominciare e finire ogni storia. Senza problemi, niente storia. Solo narrazione, compilazione». Uno studio scientificamente condotto implica due operazioni, «le stesse che si trovano alla base d’ogni lavoro scientifico moderno: porre problemi e formulare ipotesi. Due operazioni, dice Febvre, che agli uomini della mia età venivano già denunziate come le più pericolose di tutte. Perché porre problemi o formulare ipotesi significava nient’altro che tradimento. Far penetrare nella cittadella dell’oggettività il cavallo di Troia del soggettivismo…».
Senza problemi e senza ipotesi non esiste ricerca, non c’è ricerca storica. «L’invenzione dev’essere presente dappertutto, se si vuole che nulla del lavoro umano vada perduto. Elaborare un fatto significa costruirlo. Se si vuole fornire la risposta a un problema. E, se non c’è problema, ciò significa che non c’è niente». La venerabile massima “hypoteses non fingo” è un abbaglio. Come è un abbaglio il credere di cominciare un lavoro di ricerca da una osservazione pura e semplice piuttosto che da un problema. In verità, prosegue Febvre, «se lo storico non si pone problemi, o se, essendoseli posti, non formula ipotesi per risolverli, ho ragione di dire, in fin dei conti, che, in fatto di mestiere, di tecnica, di sforzo scientifico, è piuttosto in ritardo sull’ultimo dei nostri contadini: perché essi ben sanno che non devono lasciare alla rinfusa le loro bestie nel primo campo che trovano, perché esse vi pascolino come Dio vuole; ma le installano, attaccate a un palo e le fanno brucare in un prato piuttosto che in un altro. E ne sanno il perché».
Non osserviamo a caso, non osserviamo tutto. Osserviamo solo quello che ci interessa, quel che è rilevante per quelle ipotesi, più o meno esplicite, formulate per tentare di risolvere i nostri problemi. È qui la radice del principio per cui «la storia è scelta. Non arbitraria, ma preconcetta». Lo storico sceglie i suoi fatti. E a tal fine servono «ipotesi, programmi di ricerca, teorie». Di fatti, senza una teoria prestabilita, senza una teoria preconcetta, non esiste la possibilità di un lavoro scientifico. La teoria – costruzione dello spirito che risponde al nostro bisogno di capire – è l’esperienza stessa della scienza». Quando non si sa cosa si cerca, non si sa cosa si trova. Lo storico, afferma Bloch, ragiona come il biologo, come il fisico. E «poco importa che l’oggetto originale sia per sua natura inaccessibile alla sensazione, come l’atomo la cui traiettoria è visibile nel tubo di Crookes, o che esso sia divenuto tale soltanto oggi, per effetto del tempo, come la felce, morta da millenni, la cui impronta rimane sul blocco di carbon fossile, o come le solennità cadute da lunghissimo tempo in disuso che si vedono istoriate sui muri dei templi egizi. In ambedue i casi, il processo di ricostruzione è lo stesso e tutte le scienze ne offrono molteplici esempi». Non c’è osservazione passiva. È lo storico che pone domande al passato, che seleziona i fatti. E li seleziona in base ai suoi preconcetti e alle sue teorie. Lo storico, insomma, lavora come il fisico. E il metodo dell’uno e dell’altro consiste, fondamentalmente, nel porre domande e nel tentare di dare a queste la risposta. E come la fisica, anche «la storiografia è una scienza in sviluppo nel senso che cerca continuamente di giungere a una conoscenza più ampia e più profonda del corso degli eventi, che è a sua volta in sviluppo».

Congetture e confutazioni

«Il vero progresso – scrive Marc Bloch – si compì quando il dubbio divenne “esaminatore”». Le ipotesi, insomma, attraverso le quali lo storico cerca di rispondere ai suoi problemi, devono venir controllate. Scriveva Pasquale Villari già nel 1984 – in un saggio significativamente intitolato La storia è una scienza? – che «a ritrovare lo spirito dei fatti, per poi esporli con verità, occorre quasi una creazione poetica; esso si scopre e si riproduce solamente con la fantasia, che nello storico deve essere diretta, frenata, corretta dalla esperienza, dalla realtà». Le ipotesi, dunque, devono venir controllate. Ma per venir controllate di fatto, devono essere controllabili di principio. «Non si ha diritto di presentare una affermazione – scrive sempre Bloch – se non a condizione che possa essere verificata». E il valore di una conoscenza si può misurare «dalla sua premura di offrirsi in anticipo alla confutazione». Solo lavorando con ipotesi controllabili, e cercando di confutarle, le forze della ragione potranno riportare vittorie. Come il giudice, anche lo storico deve essere imparziale, deve cercare l’onesta sottomissione alla verità. E a tal fine lo studioso serio «registra, anzi, meglio, provoca l’esperienza che forse capovolgerà le sue più care teorie». La storiografia, in breve, è scienza perché lavora con teorie falsificabili, con teorie controllabili, con teorie cioè rovesciabili dall’esperienza, dai fatti, dai documenti vagliati. Ed è così allora che capiamo come la disputa su diverse ipotesi, su differenti interpretazioni di un documento non è la miseria di una corporazione che non possiede la verità, ma è l’anima della scientificità del suo lavoro. È in questo modo che comprendiamo come la molteplicità di congetture, proposte quali tentativi di soluzione dei problemi, non è miseria ma ricchezza: ricchezza di “mutazioni” intellettuali, tra le quali – se c’è – la critica potrà scegliere quella che, all’epoca, parrà la migliore. In realtà – afferma Febvre, «all’origine di ogni acquisizione intellettuale c’è il non-conformismo. I progressi della Scienza sono frutti della discordia. Come avviene per le eresie che nutrono, sostanziano le religioni: oportet haereses esse».
“Come posso sapere ciò che sto per dire?”: è questa la domanda che deve porsi chi propone congetture storiche. E il lavoro di ricerca con le sue conferme, ma anche con le sue smentite, è un lavoro certamente tortuoso, ma anche affascinante. «Lo spettacolo della ricerca, con i suoi successi e le sue traversie, raramente stanca. Il bell’e fatto, invece, provoca gelo e noia». Il passato è, per definizione, un dato non modificabile. «Ma la conoscenza del passato è una cosa in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente». E questa conoscenza in fieri, in divenire, sale uno dopo l’altro i suoi gradini, «con la magnifica certezza di non potere mai giungere sul sommo delle sommità, sulla cima da cui si veda l’aurora nascere dal crepuscolo». La verità non è un possesso, è un processo; viene continuamente costruita.[...]

Il metodo scientifico è unico ed è il metodo dell’apprendimento per tentativi ed errori

Lo storico, dunque, cerca di risolvere problemi. E fa questo attraverso tentativi ed errori, per mezzo di congetture e confutazioni. Egli, come ha ripetuto pure Salvemini, procede allo stesso modo di qualsiasi altro scienziato: scatenando la fantasia creatrice di ipotesi e mettendo successivamente alla prova queste ipotesi.
Nonostante la lunga storia di quel Methodenstreit che ha visto tutta una serie di tentativi – da Dilthey fino alla Scuola di Francoforte – tendenti a negare l’unità del metodo scientifico, oggi appare sempre più palese che lo storico lavora, appunto, con quell’unico metodo (problemi – congetture – confutazioni) con cui lavora qualsiasi altro ricercatore: il metodo del tentativo e dell’errore. È questo il metodo del clinico che formula diagnosi e le va a controllare su batterie di prove (sintomi, radiografie, esiti di analisi, decorso di terapie, eccetera). È il metodo del critico testuale che prova le sue congetture su testi e contesti. È il metodo del traduttore e dell’ermeneuta che, sempre sul testo e contesto, confermano o smentiscono le loro interpretazioni (ogni traduzione è un’interpretazione). È il metodo del fisico e del biologo. La realtà è che il metodo della ricerca è unico. Quel che varia, a seconda dei problemi e delle teorie, sono le tecniche di prova, le cosiddette metodiche (osservazioni al telescopio per l’astronomo; osservazioni al microscopio per il biologo, test per la psicologia; inchieste per la sociologia, eccetera). E che il metodo della ricerca storica sia lo stesso di quello delle altre scienze è stato riconosciuto da quegli storici che, per esempio, come Febvre, Bloch o Salvemini avevano una certa dimestichezza con la metodologia della scienza fisica. La scienza cresce per tentativi ed errori; attraverso schemi che spiegano fatti e fatti che distruggono schemi che, così, vanno sostituiti. E la mente umana cresce così come cresce la scienza. Per questo, sono nel giusto i Nuovi Programmi quando, a proposito della Storia, sostengono che: «la didattica della Storia dovrà avvalersi per quanto lo consente l’età e la concreta situazione scolastica, delle modalità della conoscenza storiografica, recuperandone gli itinerari fondamentali: dalla formulazione delle domande al reperimento di fonti pertinenti, alla analisi e discussione della documentazione, al confronto critico fra le diverse risposte».


(Estratto da Introduzione alla metodologia della ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005)

Dario Antiseri, docente di Metodologia delle Scienze sociali e direttore del Centro di metodologia delle Scienze sociali alla luiss Guido Carli di Roma.

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