L'economia di Fernando Pessoa
di Massimo Lo Cicero
Ideazione di gennaio-febbraio 2001

«Primeiro estranha-se. Depois entranha-se» è lo slogan che Fernando Pessoa propose ad un suo cliente, un imprenditore che la imbottigliava e la distribuiva, per promuovere il consumo di Coca-Cola in Portogallo ma che venne vietato dalle autorità perché suggeriva tossicità e dipendenza come radici del consumo. Si può proporre, come fosse una nemesi, quel medesimo slogan come la ragione per leggere e per rileggere il volume che raccoglie gli scritti di Pessoa dedicati alla teoria economica, allo scambio ed alla organizzazione dell’impresa. Perché questi scritti ti trascinano con loro e poi li senti, ad un tratto, dentro di te e padroni del tuo pensiero. Se è lecito tradire il portoghese traducendolo in italiano, sulla base di una emozione, di una “illuminazione simbolica” piuttosto che lungo le coordinate di una trasposizione meccanica e razionale delle parole, singolarmente prese.

Questi scritti non sono Coca-Cola, tutt’altro, ma hanno la medesime caratteristiche di fascino e dipendenza che avevano acceso la sensibilità dello scrittore di Lisbona. Essi si leggono in un breve ma assai denso volume, a cura di Brunello De Cusatis, con una postfazione di Antonio Margarido, pubblicato da Ideazione Editrice con il titolo, singolare, di Economia & Commercio. Un titolo che è esso stesso piuttosto simbolico, destinato a generare emozione ed attenzione mentre, nella lingua più fredda della ragione, avrebbe potuto e dovuto essere La Società e lo Scambio. Ma, in questo modo, non avrebbe evocato, per quella generazione che compie cinquanta anni alla svolta del Millennio, il sapore goliardico della identificazione dei propri studi: compiuti prima che la lingua della globalizzazione, l’inglese, trasformasse le radici di una professione molto diffusa in economics e business administration.

La educazione iniziale di Pessoa, invece, si svolse in un ambiente culturale ed attraverso un percorso formativo tipicamente anglosassoni: partendo dallo studio di Adam Smith e di Stuart Mill sui banchi della Commercial School a Durban in Sud Africa. Senza dimenticare la robusta e consolidata connessione che si stabilisce agli albori del processo di industrializzazione europeo tra la Gran Bretagna ed il Portogallo. La prima area di free trade nasce proprio dall’esigenza di incrociare gli scambi tra i prodotti tessili dell’Inghilterra con i vini portoghesi.

Parliamo, dunque, di Pessoa e della sua attentissima percezione dell’impresa e degli scambi ma anche della comunicazione: descritta come il cemento capace di ordinare la prima ma anche come l’olio che consente di facilitare la realizzazione dei secondi. Tra parentesi rimandiamo, di volta in volta, alle pagine del volume. C’è una grande modernità nel suo pensiero, capace di evocare le ragioni del Nobel attribuito a Daniel McFadden, quando scrive che «l’uomo suppone di essere un animale razionale» mentre «sono gli istinti, le abitudini, i sentimenti e le emozioni che realmente guidano l’uomo; la ragione serve solo a interpretare, per la volontà, questi impulsi sub-razionali. La circostanza stessa, tuttavia, che l’uomo si ritenga un essere essenzialmente razionale, fa sì che, pur se in modo indiretto, la ragione assuma, nel corso della vita umana, un’importanza vera», (pagina 159 e seguenti). C’è una straordinaria contemporaneità con autori come Jon Elster e Frederick Schauer quando le norme sociali diventano una struttura per governare «un sistema di egoismi malleabili, di concorrenze intermittenti» (ancora a pag. 159) agendo su tre livelli: la morale per soddisfare la coscienza; la ragione per sentirsi soddisfatti nei confronti della propria vita; la pratica per rispondere alle proprie ambizioni. Pessoa riporta le parole di due autori italiani per mostrare la durezza imposta dalla pratica alla ragione e la violenza, latente, di entrambe verso la morale: «non fare mai un favore a qualcuno a discapito di un altro; poiché il primo probabilmente dimenticherà il favore, ma il secondo non dimenticherà l’ingiuria», (pagina 163 e le opinioni sono di Guicciardini). «Gli uomini sono sempre più propensi a contraccambiare ingiurie piuttosto che favori, poiché contraccambiare un favore è un obbligo e contraccambiare un ingiuria un piacere» (pagina 163 ma, in questo caso, queste sono le opinioni di Machiavelli).

I precetti pratici, insomma, sono utili quando ti trasmettono l’esperienza degli uomini pratici più intelligenti. Gli italiani citati, o il marchese di Halifax, «illuminano quel che c’è di vile e di malvagio in tutti gli uomini», (pagina 164) mentre i pensieri di Henry Ford «ci vengono serviti con l’acqua», (pagina 165) perché rivelano solo «quella metà della sua esperienza che gli fa comodo rivelarci».

La opzione per la libertà e la concorrenza contro il monopolio e la presenza illuminata dello stato, nascono proprio da questa diffidenza verso il lato oscuro degli individui.

Il ruolo economico del linguaggio
Ma entriamo ancora meglio nel merito di questa straordinaria lezione. La strada che intendiamo percorrere è assolutamente asistematica e parte, di conseguenza, da un capitolo di miscellanea, l’ottavo del libro, che si intitola “note sparse”. C’è in questa frammentata esposizione di princìpi uno straordinario insegnamento, quasi la codificazione di un metodo. Sostiene Pessoa che siano da seguire tra criteri di comportamento nell’attività economica: quando, in altre parole, si agisce avvolti dal velo dell’incertezza sulle ragioni dell’altro ma si reagisce all’altro che presume altrettanto sulle cause del nostro comportamento.

Nel linguaggio dell’economia contemporanea questo è un caso di hidden action, che genera una fenomenologia di moral hazard, ed espone ciascuna delle due controparti al rischio, reciproco, che si possano sviluppare comportamenti segnati da opportunismo post-contrattuale. Il contratto diventa una gabbia per le azioni dell’altro e non una guida per lo svolgersi dei rispettivi comportamenti. Capirsi nella fase in cui prende forma la transazione non sopprime quel rischio ma aiuta le parti a convivere con la sua potenziale presenza. Il linguaggio, allora, come la fiducia e la reputazione, che si accumulano in ragione delle precedenti transazioni andate a buon fine, integra ed aiuta i mercati perché consente la creazione di un legame paritario tra le parti in gioco.

«Meglio la chiarezza che la brevità; meglio molti paragrafi che pochi; meglio rispondere in fretta, pur dicendo solo parte, che ritardare la risposta per dire tutto», (pagina 115).

La velocità negli affari, e nel comportamento degli uomini di affari, non è un valore in sé ma solo una condizione che concorre nel raggiungimento dell’obiettivo finale; essa rappresenta un vincolo di efficacia per l’azione ma non deve essere considerata un traguardo autosufficiente.

L’attenzione di Pessoa, insomma, è tutta concentrata sul valore della comunicazione, sulla importanza che assumono la densità e la puntualità delle informazioni che alimentano la reciprocità della relazione economica tra le due parti che devono arrivare alla transazione. Bisogna «evitare quella precisione verbale eccessiva che ha del giuridico… la precisione… commerciale deve avere sempre un tono casuale e spensierato – quello della conversazione di un uomo intelligente», (pagina 110). E per dimostrare che una parola precisa ma ridondante sia dannosa, oltre che inutile, segue un clamoroso esempio su come gestire la comunicazione di crisi. «Chi non paga perché non vuole non pagherà per avergli detto che non paga perché non vuole. Questo lo sa già.

E chi non paga perché non può non è contento che gli si dica o si insinui che non paga perché non vuole», (pagina 110). Tutto questo comporta l’esigenza di sviluppare una nuova professione, perché non esiste solo l’errore di dire male e troppo circa le proprie ragioni ma anche l’errore simmetrico di non sapere leggere nelle parole dell’altro e di rendere, per questa nostra incapacità, più lento e farraginoso il percorso della transazione. Il mondo contemporaneo genera le condizioni perché si affermi questa nuova professione: «il professore di lettura per persone che già sanno leggere… perché ogni uomo d’affari deve leggere le lettere che riceve parola per parola, attentamente… Il commerciante ha fretta? Legge dopo, quando ha tempo. Non lo ha mai? Se non ha tempo per lavorare cosa è che gli porta via il tempo?», (pagina 114).

Se questa è la lezione su velocità ed attenzione, colonne della gestione intelligente della relazione reciproca, segue, subito dopo, la lezione sui limiti e la ricchezza delle capacità individuali: una stringata introduzione al pezzo forte, che arriverà nelle pagine successive, con l’analisi dei processi organizzativi.

«Non vi sono errori di impiegati, ogni errore di un impiegato è solo l’errore di avere impiegati che commettono errori», (pagina 111). E, quindi, diffidate anche delle macchine e delle loro promesse di efficienza. «Tutti i processi e tutte le apparecchiature risulteranno elementi inutili, a livello organizzativo, se le teste degli individui che li utilizzano, non saranno anch’esse organizzate. E queste teste saranno organizzate se sarà organizzata debitamente l’identica parte del corpo di colui che le dirige. Allo stesso modo di come si possono scrivere delle stupidaggini con una macchina da scrivere ultimo modello, si possono fare delle fesserie con quelle apparecchiature e quei sistemi più perfetti impiegati per aiutare a non farle. Sistemi, processi, mobili, macchine, apparecchiature sono – come ogni cosa meccanica e materiale – elementi puramente ausiliari.

Il vero processo è pensare; la macchina fondamentale è l’intelligenza», (pagina 116). Prima del 1930, cioè quando scrive Pessoa, non si parla nemmeno di personal computing, informatica ed office automation o new technology for communications. Tuttavia questo potrebbero essere il “core” di un manuale per l’addestramento della web generation. Perché, come dirà poche pagine dopo lo stesso Pessoa «organizzare è, essenzialmente, un fenomeno intellettuale. Vi sono molte cose che si eseguono per intuizione, moltissime che si fanno empiricamente, per abitudine ed esperienza. L’organizzazione stabile – vale a dire l’organizzazione propriamente detta – è, però, un lavoro di intelligenza. E cosa deve fare l’intelligenza per organizzare?» (pagina 151). L’intelligenza deve aiutarci a dividere l’insieme da organizzare nel numero necessario di elementi od organi, «né di più, né di meno» (pagina 150); deve distinguere le funzioni tra gli elementi perché ogni funzione deve essere attribuita ad uno solo di essi e deve interagire con l’insieme solo per la circostanza oggettiva del comune funzionamento delle singole parti; deve individuare dentro ogni elemento la medesima scomposizione logica, perché «ogni elemento o organo, in quanto distinto e differenziato, è già di per sé un insieme. Tutte queste osservazioni sono, per forza di cose, astratte. Del resto le cose essenziali sono astratte e la stessa comprensione di qualcosa è un’astrazione» (pagina 151).

Se avrete seguìto la metodologia proposta avrete ottenuto due risultati importanti che sono, nel medesimo tempo, una sorta di garanzia endogena sull’efficienza dell’organizzazione.

Avrete organizzato «organizzazioni in modo da organizzare pure organizzatori» ed avrete generato un insieme in cui «vi è gerarchia di incarichi, non vi è gerarchia di funzioni» (pagina 152).

Capacità di astrazione e rigore della sequenza logica possono guidare la penna dell’analista e consentirgli la redazione di un manuale capace di spiegare ex ante il mistero, ed il rischio, del personal computing o dell’office automation: come avevamo anticipato nelle pagine precedenti. La vera macchina su cui dovete contare è la vostra intelligenza, appunto. Il valore strumentale dell’organizzazione rispetto ai fini da raggiungere proietta l’analisi di Pessoa verso il centro dell’economia aziendale.

Servono tre parole per dare conto dei fenomeni imprenditoriali e, a chi padroneggiava e comprendeva il linguaggio, non poteva sfuggire che questa non fosse una mera circostanza retorica ma dovesse avere un significato funzionale preciso. L’impresa, come avviene anche nel linguaggio comune, è il progetto dell’imprenditore, la maniera tutta originale con cui egli viene legando i suoi mezzi alle finalità che intende raggiungere; l’azienda è il complesso dei mezzi ed, infatti, la routine aziendale può essere affidata ad un terzo responsabile del suo coordinamento ma la capacità di innovazione, che legittima ed identifica l’imprenditore, non può che essere sua; la società, infine, è il contratto con cui si legano al progetto, cioè all’impresa, le persone ed/o i capitali che intendono scommettere sul successo di quel progetto.

Le dimensioni dell’azione economica che attirano l’attenzione di Pessoa sono due: l’azienda e la grande compagnia per azioni. L’impresa descritta da Pessoa è l’azienda, cioè una organizzazione intelligente, un organismo capace di comunicare con il sistema di bisogni in cui si inserisce ed è il risultato di una progressiva evoluzione della civilità degli scambi. Essa è relativamente capace di emanciparsi dal suo creatore, l’imprenditore, e si trasforma progressivamente in organismo autonomo mentre prende corpo come organizzazione eterodiretta.

Si legge, come vedremo meglio in seguito, in questa successione analitica la grande lezione del metodo evoluzionistico e l’applicazione di un principio della genetica naturale alle strutture ed alle relazioni sociali.

«Tre sono le fasi che, secondo noi, il commercio ha attraversato nel corso della civiltà cui apparteniamo», (pagina 64 e seguenti): il mercante affiora dal medioevo e lascia il testimone all’avvento della macchina… Si compie, a partire da quel trapasso, il ciclo del «predominio assoluto della scienza, tramite l’ingegneria, nella vita pratica; la meccanizzazione, come diceva Rathenau». Il commercio «prese coscienza di se stesso». La terza fase è quella che traduce nello spazio dell’organizzazione consapevole le logiche dell’azione collettiva: «ogni vero organizzatore, dell’organismo artificiale che crea, deve farne, non solo un’organizzazione adeguata ai fini cui mira, ma anche una scuola per capi, un campo di allenamento per organizzatori. Non è altro che questo il segreto dei grandi organizzatori americani» (pagina 155). Una conclusione che si nutre, tuttavia, di una chiara deriva intellettuale liberale: che denuncia i pericoli del monopolio e la incapacità della pianificazione statale della produzione. La circostanza che viene identificata con una vera e propria negazione della civiltà: perché l’economia diretta dallo stato è ammissibile solo in caso di guerra, quando cessano le condizioni per una vita che possa dirsi civile. Anche le ragioni di una netta opposizione alla direzione statale dell’economia sono di tre generi. Sia detto per inciso ma i numeri che ritornano ricordano la cultura esoterica di Pessoa mentre le necessarie fasi intermedie, che danno corpo al pensiero sintetico, sono alimentate dall’educazione aristotelica in filosofia.

Nasce da queste due radici la scansione sistematica tipica del suo modo di scomporre la realtà.

La prima ragione di opposizione all’intervento economico dello stato è derivata dalle convinzioni in materia di organizzazione.

Le ragioni dell’antistatalismo
Nel primo capitolo della seconda parte del volume, si ritrovano le ragioni dell’external auditing a garanzia dei diritti dei terzi sul valore generato dalle società anonime, mentre con analoghe motivazioni analitiche, nel secondo capitolo, si ritrova l’avversione alla direzione statale degli affari per l’incapacità dell’amministrazione dello stato di attrarre uomini dal profilo intellettuale e professionale idoneo per assolvere incarichi di direzione e controllo sulla base di interessi terzi e da loro stessi rappresentati.

«La prosperità della Banca o della Compagnia… è quella che proviene dai dividendi: e che ne sa lui (l’azionista) se questi dividendi non sono il suo stesso capitale e quello dei creditori della Società Anonima, invece dell’utile autentico dell’effettiva prosperità di una società florida? L’azionista sa con certezza se non è così? Non lo sa, poiché quegli elementi cui delega la verifica: primo non verificano; secondo, se pur verificassero, non sanno verificare… Indipendenza e competenza sono due qualità richieste in colui che controlla. L’avere interesse nel controllare è secondario: della sua malattia, il malato non sa più del medico, sebbene sia colui che ha maggior interesse nella cura», (pagina 129). In questo rischio di controparte che oppone, sistematicamente, il mandante al mandatario in un irrisolvibile conflitto di interesse c’è una modernissima anticipazione delle dinamiche conflittuali tra proprietà e gestione nelle società di capitali come nell’amministrazione della cosa pubblica. Un paradigma interpretativo che, con il nome di conflitto tra principale ed agente, è entrato oggi nei manuali contemporanei e nella letteratura manageriale di frontiera. Basta pensare alla letteratura americana sull’impresa come istituzione economica, generata dalle opere del premio Nobel Ronald Coase o alla letteratura su informazione ed organizzazione inaugurata da un altro premio Nobel, Kenneth Arrow. Il secondo motivo per diffidare dello stato rispetto al regime di concorrenza dei mercati nasce dalla circostanza che la competizione oppone gli interessi individuali tra loro ma anche singolarmente all’insieme degli altri interessi come un tutto: la competizione, insomma, è una sorta di polizza implicita di assicurazione contro il rischio di collusioni e convergenze di coalizione. Rischi che non sono impossibili in un regime di mercato ma sono assai più frequenti nelle grandi organizzazioni pubbliche strutturate. Consideriamo, per esempio, le difficoltà che segnano il rapporto tra banche ed imprese. Le prime devono scegliere i migliori progetti proposti dalle seconde e controllarne la realizzazione nell’interesse dei terzi risparmiatori, il capitale dei quali hanno impiegato per finanziare quei progetti. Se esiste ed è attivo un mercato finanziario, allora di fronte alla pretesa di un banchiere di escludere od osteggiare un progetto, l’impresa può ricercare un alleato nella competizione tra banche e non nella collusione con quel banchiere ostile. Se, al contrario, esiste solo una banca di stato cui rivolgersi aumenteranno i rischi di collusione perché essa diventerà non solo la patologia del lato oscuro delle energie imprenditoriali ma anche la scelta obbligata di coloro che si vedono aggrediti e mortificati da una burocrazia arrogante od ignorante.

Il terzo motivo per diffidare della capacità dello stato di dirigere l’economia discende dai primi due ma ha anche il sapore di una convinzione più generale in tema di teoria della conoscenza.

Fernando Pessoa e il paradigma di Vienna
Lo Stato non può dirigere la Società perché non riesce a capirla: ogni Società ha bisogno di uno stato, come male minore per arginare i conflitti radicali che potrebbero minarne la basi esistenziali. Ma ogni stato è strutturalmente incapace di dirigere la Società perché esso è solo la proiezione, imperfetta, delle aspirazioni degli individui che compongono la Società. «Questo stato è chiamato a governare una cosa che non si sa bene quel che è, a legiferare per un’entità la cui essenza non conosce, a orientare un gruppo con (senza dubbio) un suo proprio orientamento vitale che s’ignora, dovuto a leggi naturali che, altrettanto, s’ignorano; un orientamento, pertanto, che può essere ben differente da quello che lo stato pretende d’imprimergli. Cosicché il più onesto e disinteressato dei politici e dei governanti non può mai sapere con certezza se non stia portando alla rovina un paese (od una società) per mezzo di princìpi e leggi, da lui ritenuti sani, con cui si propone di salvarlo e preservarlo», pagina 133.

Le teorie della crescita che dominano la scena contemporanea sono fondate su categorie che evocano il modo di argomentare di Pessoa. La crescita economica richiede coesione sociale e forme adeguate di governance piuttosto che dure applicazioni di government: conta la capacità di utilizzare la leva degli interessi e dei valori molto di più della illusione di dirigere attraverso la “illuminata” consapevolezza dei governi.

Bad policies e Good politicians sono oggi la contraddizione che la World Bank denuncia come la radice del mancato sviluppo di numerosi paesi.

La dinamica sociale, per riprendere ancora una volta le immagini forti utilizzate nelle analisi della World Bank, somiglia piuttosto ad un ballo di piazza che non ad un tango. Essa si fonda sulla opportunità di tenere legati gli interessi di una moltitudine senza dimenticare che essa rimane composta da individui. L’economia di Losanna, quella di Walras e Pareto, in questo campo è assai diversa da quella di Vienna, quella di Mises e von Hayek.

Nel mercato walrasiano, e nelle definizioni di ottimo paretiano, non esistono né il problema del linguaggio né quello delle esternalità, positive o negative, che si diffondono sulle parti terze rispetto allo scambio. Gli attori sociali sono sempre due, perfettamente informati sulle regole ed il contenuto della danza, e ballano un tango. In un mondo che impara per prova ed errore e nel quale ognuno subisce effetti positivi o negativi in relazione allo svolgersi delle transazioni altrui questo paradigma rischia di essere troppo rigido per descrivere quello che sta succedendo.

È un’astrazione che, forse, riduce eccessivamente, il contenuto di realtà che pure intende spiegare. E, d’altra parte, se non esistesse come costruzione intellettuale questa economia walrasiana non avremmo un termine di paragone, una sorta di benchmark, rispetto al quale misurare i problemi che derivano dalla sua assenza.

Pessoa non segue il paradigma di Losanna ma segue decisamente quello di Vienna e considera il mercato come il luogo deputato della conoscenza. Essa si realizza necessariamente attraverso lo scambio: una scoperta della diversità che aiuta l’individuo a capire di cosa ha veramente bisogno.

Non è difficile riconoscere le idee di von Hayek, in questo modo di ragionare ma non credo si possa immaginare una relazione diretta tra i due grandi autori, entrambi estranei al successivo conformismo intellettuale che dominerà il nostro secolo.

Individuo e comunicazione
Fernando Pessoa fonda a Lisbona la Revista de Comércio e Contabilidade nel 1926. Von Hayek consolida a Vienna, in quel medesimo anno, il sodalizio scientifico con Mises dopo il suo primo soggiorno americano, dal 1923 al 1924.

Fernando Pessoa sarebbe diventato uno scrittore avvincente ma era allora un consulente d’azienda: redattore e traduttore in inglese e francese di corrispondenza commerciale.

Dotato della straordinaria capacità, che abbiamo cercato di rappresentare per il lettore, di descrivere valore, forma e contenuto creativo della comunicazione, attraverso l’efficace controllo del linguaggio ma anche attraverso la piena comprensione del valore connettivo della stessa comunicazione: che egli considerava, evidentemente, come una specie di cemento per la organizzazione interna dell’impresa e come un canale, che si potesse percorrere in due direzioni, sia per capire i gusti dei consumatori che per mostrare loro i propri prodotti.

Nel pensiero di Pessoa esiste, insomma, un nesso profondo, un filo assai resistente, che lega il linguaggio allo scambio ed entrambi alla capacità di vedere e raccontare i valori prodotti dall’individuo e dalle sue relazioni con gli altri. In questa caratteristica si ripropone il parallelo tra lo scrittore di Lisbona e la scuola economica di Vienna. Il linguaggio e lo scambio rappresentano entrambi la forma operativa della conoscenza e la comprensione della società diventa il risultato di uno sforzo per mettere in contatto, reciproco ed utile, gli individui. Lo stesso egoismo, che una prospettiva grettamente cooperativa delle relazioni sociali, relega alla condizione di patologia della psicologia individuale diventa, in questa luce, una sorta di azione in difesa della società: perché preserva il patrimonio elementare che ne rappresenta la ricchezza di fondo, l’individuo.

Una simile percezione dell’egoismo è assai contigua al self interest dei grandi moralisti scozzesi, i maestri di AdamoSmith, alla lezione del quale si era formato il linguaggio economico di Pessoa.

Che per capire se stessa, cioè per formarsi un’idea della propria individualità da tutelare, la persona singola debba utilizzare ed utilizzi il sistema di relazioni in cui opera resta evidente. Ma è proprio questa continua interazione tra se stessi e l’intorno di se stessi che viene garantita dal linguaggio e dal mercato ed è per questo che la tutela di se stessi è una funzione socialmente utile.

Non è certo che il suo pensiero possa essere considerato un pensiero liberale, ma senza scomodare la famosa querelle tra Luigi Einaudi e Benedetto Croce, il pensiero di Pessoa è certamente liberista. La cosa più straordinaria, tuttavia, in un secolo che calpesterà la libertà individuale è che questo pensiero sia stato allora e rimanga oggi un pensiero libero. Capace di illuminare con l’umiltà della conoscenza, ricavata dall’esperienza della vita, le grandi dinamiche sociali e di inchinarsi ad una prospettiva evolutiva degli aggregati sociali.

Molte soluzioni vengono proposte, alcune si affermano perché la pratica delle stesse si impone come la strada capace di coagulare gli interessi. Come è facile osservare si tratta del medesimo percorso logico che seguono le moderne scienze della natura e della genetica per spiegare la dinamica dell’evoluzione delle specie: e che alcuni scienziati sociali contemporanei tentano di proporre, simmetricamente, come criterio per guidare la selezione delle norme con cui arginare i fallimenti del mercato.

Concludendo uno stringato e densissimo paper sulla esigenza di avere una disciplina per la morte dell’impresa, cioè per le procedure del fallimento, un maestro dell’economia aziendale, Oliver Hart, che insegna nell’Università di Harvard, dice che le sue ragioni illustrano l’esigenza di avere un menu di soluzioni, perché «con un menu è possibile realizzare un test di mercato. Se molte procedure sono disponibili, allora nel lungo periodo le più efficienti hanno le maggiori probabilità di essere scelte da debitori e creditori mentre le altre saranno progressivamente scartate».

Sono lontane le arroganti certezze del codice napoleonico o le pretese dei parlamenti legiferanti dell’Europa continentale e sentiamo invece la brezza fresca della cultura anglosassone e di quella grande intuizione di libertà che, dai circoli di Vienna, dovette emigrare oltre atlantico ed aspettare che si placassero i venti ostili della bufera ideologica che avrebbe sconvolto il pensiero ed il comportamento politico europeo nel Ventesimo secolo. Pessoa, da uomo educato alla libertà, mostra tutta la sua postuma modernità rispetto alle “fragili e granitiche” certezze dello Statalismo che non hanno retto alle repliche della Storia ed hanno trasferito corpose esternalità negative agli individui che con esse hanno dovuto convivere. La selezione naturale delle soluzioni ha orientato il corso delle cose in un’altra direzione, come è facile constatare

 

Riferimenti bibliografici essenziali
Fernando Pessoa, Economia & Commercio, a cura di Brunello De Cusatis e con una postfazione di Alfredo Margarido, Ideazione Editrice, Roma, 2000.
AA.VV., Il mercato delle regole, analisi economica del diritto civile, il Mulino, Bologna, 1999.
AA.VV., Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, (Introduzione di Natalino Irti), Saggi tascabili, Editori Laterza, Roma-Bari, 1999.
G. Alpa, La cultura delle regole, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000.
K.J. Arrow, I limiti dell’organizzazione, Il Saggiatore, Milano, 1986.

R.H. Coase, The Firm, The Market, The Law, The University of Chicago press, 1988.

J. Elster, Come si studia la società, il Mulino, Bologna, 1993.
M. Gell-Mann, Il quark e il giaguaro, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
N. Irti, L’ordinamento giuridico del mercato, Libri del Tempo, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998.

O. Hart, Different approaches to bankruptcy, Department of Economics, Harvard University, September 2000, Cambridge, Massachusetts.

J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano, 1968.
M. Lo Cicero, “Vento viennese a Lisbona”, in Il Sole 24 ore, 26 novembre 2000.
M. Lo Cicero, “Il mercato e la legge, valori, comportamenti ed istituzioni, dattiloscritto”, in corso di pubblicazione su L’Acropoli, numero 4/2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000.

D. McFadden, Rationality for economists?, Department of Economics, University of California, Berkeley, September 1998.
N. G. Mankiw, Principles of Economics, The Dryden press, 1998.

H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio Editori, Venezia, 1992.

S. Mullainathan and R. Thaler, “Behavioral Economics, MIT, Department of Economics”, Working Paper, Series 00 - 27, September 2000.

D. C. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, il Mulino, Bologna 1994.

OCDE, A new Economy? The changing role of innovation and information technology in growth, Paris, 2000.

J. Raybould, (a cura di D. Antiseri e L. Infantino) Friedrich A. von Hayek, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 1999.

J. Ritzen, W. Easterly, M. Woolcock, On “good” politicians and “bad” policies: Social Cohesion, Institutions, and Growth, World bank working papers, Washington, 2000.

F. Schauer, Le regole del gioco, il Mulino, Bologna, 2000.

J. Temple, “Growth Effects of Education and Social capital in the OECD Countries, OECD”, Working Papers, n. 263, 2000.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006